Prefazione di Corrado Sforza Fogliani a "Tentativi di pacificazione tra fascisti e anti-fascisti. Quello che nessuno ha mai detto" di Ferdinando Bergamaschi (Ed. Thule)

Ferdinando Bergamaschi è uno dei tanti giovani (avveduti) che si sono chiesti perché a scuola gli parlino solo dei crimini nazisti (non, nazionalsocialisti, perché allora salta fuori l’origine di fondo del pensiero sia di Mussolini che di Hitler, l’autoritarismo economico) e non dei crimini sovietici (pur 4 volte di più, come numero). Ma che razza di democrazia è questa, si sono chiesti (e si chiedono) questi ragazzi. E ancora: è questa la democrazia? O è la scuola del pensiero unico? Dov’è il confronto democratico delle idee, o il liberale confronto che la scuola (quantomeno pubblica) dovrebbe assicurare? In effetti, solo ora – dopo 80 anni, e dopo caduto il comunismo – si comincia anche a scuola, pur non certo in ogni scuola, a dire la verità.

Ferdinando, poi, è anche uno che la falsità del pensiero unico l’ha vissuta direttamente, in famiglia. Nel 1919, l’azienda del nonno fu assalita da un migliaio (dato accertato in giudizio) di scioperanti che volevano la consegna dei crumiri (krumiri, scrivevano), un paio di lavoratori in tutto: la difesa che i suoi famigliari fecero di questi e le violenze degli assalitori, causarono 5 morti. Furono arrestati i suoi famigliari (uno, cadde vittima di un agguato notturno), scontarono mesi di carcere, furono poi assolti con formula piena per legittima difesa. Ma quest’ultima parte non si è ancora resa ufficialmente nota, sempre la si è taciuta, di quell’assalto tanti hanno scritto, ma sempre senza il finale. Non lo resero noto neppure i suoi famigliari: per riguardo, per non rinfocolare tensioni (avrebbero dovuto farlo i pretesi storici di fascismo e antifascismo, di socialismo e antisocialismo). Anche questo, Ferdinando, visse – giustamente – come un’ingiustizia, come una viltà di coloro che pretendevano di essere storici, e non lo erano. Anzi.

Da quest’ansia di giustizia e di verità sono nati gli studi di Ferdinando su questo periodo della nostra storia (e sul pensiero che l’accompagnò). Si gettò in essi quasi per dimenticare il (falso, nella ricostruzione) presente, quasi per riparare al torto subito dalla sua famiglia, ma dalla verità soprattutto.

Ne uscì un libro, pubblicato da Ferdinando a 27 anni: Amando Mussolini…, 2011, ed. Seb, pagg. 361 in 8° ca, pref. Francesco Mastrantonio. La storia della famiglia, ma non solo. Dove Amando… sta per Credendo in lui.

Ora, dopo 8 anni, un testo di Ferdinando non più locale, ma che ha la sua spina dorsale (anche dove sembra affrontare problemi di settore o illustrare figure minori) nei tentativi di pacificazione “tra fascisti e antifascisti” (o, meglio, tra fascisti e socialisti). Un tema solitamente trattato assai superficialmente, sulla scia del pensiero di Luigi Salvatorelli, per il quale i patti di pacificazione costituirono alla fin fine solo un elemento della “tattica (di Mussolini) di tenere aperte tutte le porte”, ma che Bergamaschi analizza invece in profondità, fin dal primo tentativo, quello del 3 agosto 1921, allorché – nel gabinetto del presidente della Camera, De Nicola – i rappresentanti del gruppo parlamentare fascista (a cominciare da Mussolini), la direzione del Partito socialista italiano con il relativo gruppo parlamentare e la Confederazione generale del lavoro sottoscrissero un accordo nel quale reciprocamente si impegnavano a reprimere e sconfessare ogni forma di violenza. Un accordo (prontamente calato nell’oblio, nel secondo dopoguerra del secolo scorso) che subito scontentò, ad esempio, i Fasci emiliano-romagnoli ed i loro esponenti (fra i quali Barbiellini Amidei) e che dovette scontentare anche Einaudi (che Mussolini avrebbe invece voluto, poi, nel suo primo Ministero, nella piena ostilità della – allora potente – Confindustria, né più né meno di quanto accadde poi – sempre per l’intransigenza anticorporativa einaudiana – in epoca repubblicana, 30 anni dopo) se, passato un po’ di tempo, l’economista liberale scrisse il suo famoso articolo sulla “collaborazione fascista e lotta di classe socialista” (“Scientificamente io sono costretto a concludere che le parole “lotta di classe” e “collaborazione” sono sinonimi, perché e finché si concretano nei medesimi atti violenti”).

Contro la tesi gramsciana della “truffa” al proletariato, e quella – addirittura – di Mario Montagnana del 1936 (“Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del ’19, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori”), l’Autore di questa pubblicazione propone la tesi della trasversalità “non tanto formale, quanto invece sostanziale” del fascismo, ispirata alla “democrazia radicale e sostanziale rousseuiana” e alla rappresentanza diretta del popolo nella vita politica della nazione”, contro la democrazia parlamentare, che i liberali considerano peraltro l’unico valido antidoto all’autoritarismo plebiscitario. Un effetto finale, questo, che pare ipotesi condivisa, come tale, da Bergamaschi, tant’è che egli scrive che il fascismo realizzò un sistema sociale all’avanguardia, “ma lo fece ad un prezzo, crediamo, troppo alto, l’unico prezzo troppo alto che poteva chiedere una meta così importante come quella della socialità: il prezzo della libertà”. “Quest’ultima considerazione – conclude in punto il Nostro, additando “la destra economica”, la “plutocrazia” come il vero nemico del fascismo – se d’altra parte implica un giudizio complessivo negativo del fascismo, non deve però togliere nulla al suo merito parziale, quello appunto, peraltro molto importante, di aver indicato e realizzato, nella sua epoca, il più avanzato modello sociale, peraltro poi copiato o assunto, fino ai giorni nostri, da quasi tutte le nazioni liberaldemocratiche e antifasciste”.

 

 

 

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