La crisi del comunismo internazionale descritta nel memoriale di Yalta e il dispotismo comunista dell’URSS – Ricerca storica di Giovanni Teresi

Le riflessioni dell’ultimo Togliatti, in particolare quelle contenute nel Memoriale di Yalta, rivelano la profonda consapevolezza che il leader del PCI aveva dei radicali mutamenti in atto nella situazione mondiale di quegli anni e delle sfide che quei mutamenti costituivano per il movimento comunista.

La storia del PCI è singolare proprio perché è stato l’unico partito comunista europeo che abbia continuato a essere la principale forza della sinistra nel proprio paese fino alla fine del comunismo sovietico. Per capire la ragione di ciò, è indispensabile rianalizzare il modo in cui questo partito ha fronteggiato la lunga crisi del comunismo internazionale. Togliatti, del resto, fra il 1956 e il 1964, ne aveva anche riformulato il programma.

Nella teoria delle relazioni internazionali la revisione fu ancora più audace. Nel comunismo sovietico la politica di coesistenza pacifica continuava a essere basata sulla proiezione della lotta di classe nelle relazioni internazionali; pertanto, la non inevitabilità della guerra non comportava il superamento della concezione classica della guerra come continuazione della politica con altri mezzi (il teorema di Clausewitz che affermava l’equazione, in ultima istanza, fra la politica e la guerra). Togliatti aveva cominciato a mettere in discussione questo paradigma sin dal 1954, per affermare che il punto di riferimento storico e ideale del socialismo era il genere umano e non la classe (l’unità del genere umano come risultato del suo autonomo sviluppo).

Non si può leggere il Memoriale di Yalta se non come l’abbozzo di una proposta di revisione radicale del comunismo sovietico sia come sistema politico ed economico, sia come sistema internazionale.

 Carlo Spagnolo (Sul Memoriale di Yalta. Togliatti e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-64), Carocci editore, Roma 2007) ricorda, in proposito, l’amaro sarcasmo con cui Pietro Secchia aveva commentato l’appello di Togliatti ai cattolici per salvare l’umanità dall’autodistruzione nucleare lanciato nel Comitato centrale del 12 aprile 1954.

 Secondo la testimonianza di Giorgio Amendola, ricordando la propria avversione alla politica nazionale inaugurata da Togliatti nel 1944, Secchia avrebbe commentato: «Prima parlavamo di classe, poi di patria, adesso siamo arrivati ad umanità (…). Dove andremo a finire?».

Come Spagnolo dimostra, la sostituzione dell’interesse del genere umano a quello della classe operaia nella visione delle relazioni internazionali ebbe uno sviluppo parallelo all’aggravarsi della rottura fra la Cina e l’URSS. L’occasione in cui Togliatti ne fornì l’elaborazione più avanzata fu, com’è noto, il discorso pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963, pubblicato non a caso con il titolo “Il destino dell’uomo”.

Il passo saliente riguardava il mutamento della correlazione fra la politica e la guerra, originato dagli sviluppi della condizione atomica. Togliatti partiva dalla percezione realistica della possibilità che in un conflitto termonucleare il genere umano si «suicidasse», per trarne tutte le conseguenze sul terreno teorico e storico-politico: «La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata (…) e la pace, a cui sempre si è pensato come a un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: divenuta una necessità se l’uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità, non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova» ([20] Togliatti (a cura di L. Gruppi), Opere, VI, 1956-64, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 699).

L’unità del movimento comunista nelle differenze e nell’autonomia dei paesi socialisti e dei partiti comunisti escludeva la ricostruzione di un unico centro di direzione del movimento comunista internazionale, ma al tempo stesso richiedeva una guida capace d’egemonia nel campo comunista e nella politica mondiale. Questa funzione avrebbe dovuto essere esercitata dell’URSS.

Ma l’Unione Sovietica avrebbe potuto assolverla solo se fosse stata capace di unificare realtà e interessi sempre più divaricati e plurali, e quindi proporre una strategia internazionale in grado innanzitutto di riconoscere e far riconoscere il diritto della Cina ad esercitare un ruolo di grande potenza, di sostenere la lotta dei non allineati per un nuovo ordine mondiale favorevole alla decolonizzazione e allo sviluppo dei paesi di nuova indipendenza, di favorire la ricomposizione dell’Europa. Nel Memoriale Togliatti poneva apertamente questi problemi e indicava le revisioni fondamentali che l’URSS avrebbe dovuto compiere per poterli affrontare: la revisione della «dottrina della guerra» e quella della concezione dello Stato e della democrazia.

Per quanto riguarda in particolare l’Europa, principale teatro d’azione del PCI, Togliatti rilevava i segni di una incipiente autonomia della Comunità europea dagli Stati Uniti e, cogliendone il valore progressivo, superava le preoccupazioni manifestate fino a poco tempo prima per la sicurezza dell’URSS. Anzi, reclamava per i paesi di democrazia popolare riforme democratiche radicali e una loro integrazione economica aperta al mercato mondiale.

Non ci potevano essere dubbi, dunque, sul modo in cui la sicurezza dell’URSS e la sua funzione mondiale andavano ripensate. Il paradigma analitico del policentrismo suggeriva una strategia internazionale ispirata al principio d’interdipendenza e alla cooperazione fra Stati e sistemi economici diversi, nella reciprocità.

È difficile immaginare quale grado di probabilità attribuisse alle proposte annotate nel Memoriale. Certo, se si era indotto al tentativo di esplorare le possibilità d’una revisione così profonda del comunismo sovietico, il suo pessimismo sulla crisi del movimento comunista internazionale doveva essere ancora più grande di quanto egli non fosse disposto ad ammettere. Ma non siamo propensi a credere che intendesse limitarsi a una testimonianza. La morte di Togliatti non ci consente di formulare ipotesi sulle conseguenze che avrebbe potuto trarre dal colloquio con Krusciov, se fosse riuscito ad averlo. Tuttavia, in prospettiva storica, l’importanza del Memoriale sta soprattutto nell’istruttoria della crisi del comunismo internazionale che ricapitolava l’elaborazione del PCI degli ultimi anni. Il Memoriale di Yalta è più importante per le considerazioni che contiene sulla crisi del comunismo sovietico che per il tentativo di indicarne le soluzioni. In estrema sintesi, esso descrive una situazione mondiale in grande sviluppo, un insieme delle relazioni internazionali sempre più complesso, interdipendente e plurale, tanto da renderne insostenibile la riduzione ad una regolazione bipolare fondata sul predominio delle due maggiori potenze. Inoltre, la coesistenza competitiva appare palesemente implausibile: non solo l’URSS non era in grado di competere quasi in nessun campo – economico, politico o militare – con gli Stati Uniti, ma si rivelava incapace di fronteggiare le divaricazioni generate dalla stabilizzazione bipolare nel suo stesso campo di forze, la cui unità avrebbe potuto costituire, invece, la leva delle sue ambizioni egemoniche.

Se nella politica interna il XX Congresso del PCUS portava alla luce l’insostenibilità dell’economia di comando e del dispotismo terroristico staliniano, sul piano della politica internazionale la coesistenza competitiva era una via di fuga propagandistica che cercava di nascondere l’impossibilità del campo socialista di mantenere la sua unità sulle basi costruite da Stalin in Europa e in Asia. Ma, se è questo il significato della crisi del comunismo internazionale, la riflessione dell’ultimo Togliatti illumina retrospettivamente tutto lo spettro della storia mondiale a datare dalla seconda metà del Novecento.

Il comunismo sovietico entrava in crisi – e non era una crisi di crescenza – perché non era in grado di vincere una sfida mondiale in termini di egemonia. Ma era in grado di vincerla il suo avversario? La crisi del comunismo internazionale era il segno della insostenibilità oggettiva di una politica internazionale che, a fronte della impetuosa globalizzazione dell’economia e della politica mondiale, restava anacronisticamente ancorata al paradigma della potenza. Se questo era vero per il comunismo sovietico, lo stesso criterio vale anche per i suoi avversari, che con l’opzione della guerra fredda certamente non avevano saputo introdurre un altro paradigma. La crisi del comunismo sovietico testimonia dunque le grandi difficoltà di tutti i partner della politica internazionale nel far fronte alle sfide della globalizzazione ponendo le basi d’un nuovo ordine mondiale. Al tempo stesso, la ricostruzione della sua genesi può contribuire ad elaborare una visione storico-politica dei processi di globalizzazione, superando la polisemia confusionale con cui essi vengono solitamente descritti.

 

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