“Sostiene Michel Onfray che stiamo ormai perdendo la libertà e neanche ce ne rendiamo conto. Infatti…” di Antonio Socci
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- Category: Scritture
- Creato: 31 Luglio 2020
- Scritto da Redazione Culturelite
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I 20 anni di “Libero” – che nasce come giornale controcorrente e proclama questa ambizione fin dal nome della testata – cadono in un momento in cui la discussione sulla libertà d’opinione e l’informazione è spesso incandescente. Non solo in Italia.
Perfino negli Stati Uniti: basta leggere il manifesto di alcuni intellettuali (assai impauriti) contro la nuova Inquisizione politically correct, che ormai incombe perfino sul presidente Trump.
Stiamo andando verso una forma di libertà “controllata” e fortemente limitata? C’è addirittura chi sostiene che siamo ormai nella società del Grande Fratello di Orwell. A scriverlo – con dovizia di argomenti – non è proprio l’ultimo arrivato, né un bigotto conservatore, ma è un intellettuale che per anni è stato uno degli astri della “gauche” francese, coccolato anche sui giornali progressisti italiani: Michel Onfray.
Da libero pensatore, Onfray sta ribaltando tanti dogmi progressisti del “politically correct”, la nuova religione dominante che si pretende indiscutibile e spesso emette anatemi e scomuniche. Lo fa con una controversa rivista, “Front Populaire”, che raccoglie tutti i non allineati – da destra a sinistra – e lo fa con libri come quello appena uscito, “Teoria della dittatura” (Ponte alle Grazie, pp. 220, euro 16,50).
Dove esordisce così: “Considero il pensiero politico di George Orwell come uno dei più grandi, al pari di quello consegnato da Machiavelli nel Principe”. La tesi di Onfray è semplice e provocatoria: “Il romanzo 1984 rimanda spesso al totalitarismo marxista-leninista” e “richiama altrettanto spesso anche il totalitarismo nazionalsocialista”.
Tuttavia quest’opera oltrepassa “l’orizzonte di questi stessi totalitarismi” e fa “pensare direttamente alla nostra epoca” in cui si affaccia “un tipo nuovo di totalitarismo”. Può sembrare eccessivo perché noi in fondo ci riteniamo liberi, ma quello che abbiamo vissuto nei due mesi del lockdown a molti ha dato la sensazione di una distopia orwelliana.
E’ uno “stato d’eccezione” che non si ripeterà? O – come ritengono alcuni – è solo la “prova generale” in cui è stata misurata la “disponibilità” collettiva a lasciarsi privare della libertà?
La cosa più ragionevole è considerare criticamente la normalità che viviamo fuori dallo stato d’eccezione. E’ quello che fa Onfray.
Della “Teoria della dittatura” contenuta in “1984” coglie “sette fasi principali” che vede molto attuali: “distruggere la libertà; impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’Impero”. Sono – a suo avviso – elementi che possiamo già ritrovare anche nel nostro presente.
Come “prima tesi” spiega: “la libertà si rimpicciolisce come una pelle di zigrino. Siamo una società sottoposta a controlli di ogni tipo, una società in cui la parola, la presenza, l’espressione, il pensiero, le idee e gli spostamenti sono completamente tracciati e tracciabili. Le informazioni recuperate potranno essere tutte usate per istruire le pratiche destinate al tribunale del pensiero”.
In effetti è vero. Molti aggiungono alla lista anche il totale controllo del nostro conto corrente fino al tentativo di abolizione del contante e – in Italia – addirittura l’ipotesi di leggi che colpiscono la libertà d’opinione.
Onfray prosegue: “Seconda tesi: l’attacco alla lingua”. La politicizzazione della lingua arriva perfino a prescrivere proibizioni sul maschile e il femminile. Ci sono poi vademecum da rispettare perfino per i giornali. Ma soprattutto impoverire la lingua con stereotipi, conformismi e slogan è la tomba del pensiero.
“Terza tesi: l’abolizione della verità”. Ovvero “si stabilisce come nuova e insormontabile verità il fatto che non esistono più verità ma solo prospettive. E guai a chi rifiuta la nuova verità sull’inesistenza delle verità!… Questo nichilismo della verità consente di fare tabula rasa di qualsiasi certezza… Se non esiste più una verità ma soltanto delle prospettive, allora tutto diventa possibile… la menzogna ha a propria disposizione un viale intero”.
La “Quarta tesi” di Onfray/Orwell è “la strumentalizzazione della storia”.
In questo caso gli esempi si sprecano.
“Quinta tesi: la cancellazione della natura”, per esempio con quella “teoria dei generi” che “postula che noi non nasciamo né di sesso maschile né di sesso femminile, ma neutri e che diventiamo ragazzi o ragazze solo per questioni di cultura, di civiltà, di società e d’indottrinamento, attraverso stereotipi che andrebbero decostruiti fin dalla scuola”.
La “Sesta tesi” che Onfray trae da Orwell è “l’incoraggiamento dell’odio”. E spiega: “Nell’ambito della cultura postmoderna, l’odio viene riservato a chi non si inginocchia davanti alle verità rivelate della religione che si autoproclama progressista”.
Nell’attuale tempesta di odio – osserva Onfray – “è meglio trovarsi sotto il vento cosiddetto progressista per poterne beneficiare, piuttosto che sotto quello del sovranismo – questo, tanto per prendere un esempio in cui l’odio si manifesta senza ritegno”.
La “Settima tesi” è la seguente: “l’Impero è in marcia. Ma quale Impero?” si chiede Onfray: “La fine delle nazioni” risponde “è stata voluta dagli attori dell’Europa di Maastricht. La scomparsa di quello che resta della sovranità nazionale francese è addirittura stata rivendicata da un deputato della maggioranza presidenziale come l’orizzonte politico del macronismo”.
Per l’Italia questo è ancora più vero. La caratteristica di tutti questi dogmi è appunto quella di imporsi come indiscutibili. Il fatto stesso di analizzarli criticamente ti pone fuori dal consorzio civile. Il coro uniforme dei media lo dimostra.
“In un mondo in cui i progressisti hanno cancellato la verità” scrive Onfray “il progresso significa sostenere il catechismo dei dominatori e ingoiare tutti i princìpi della loro ideologia, significa non rimettere mai niente in questione e prendere per oro colato tutte le cose che si raccontano a scuola, sui giornali, in televisione o su Internet”.
Può sembrare esagerato paragonare la distopia totalitaria di “1984” alla nostra situazione in cui il potere non sembra usare la coercizione. Ma – secondo alcuni – un eventuale totalitarismo non ha sempre bisogno della violenza per affermarsi e sostenersi. Soprattutto nel XXI secolo.
E’ quanto affermava già un altro scrittore distopico, Aldous Huxley che nel “Ritorno al mondo nuovo” scrive: “la società descritta in 1984 è una società controllata quasi esclusivamente dal castigo e dal timore di esso. Nel mondo immaginario della mia favola il castigo è raro e di solito mite. Il governo realizza il suo controllo, quasi perfetto, inducendo sistematicamente la condotta desiderata, e per far questo ricorre a varie forme di manipolazione pressoché non violenta, fisica e psicologica”.
Poi Huxley aggiunge che – a differenza di 1984 – nel suo “Mondo nuovo” lo “stato mondiale” per impedire turbolenze ha molti strumenti a disposizione, ad esempio pure “una certa misura di libertà sessuale (possibile dopo l’abolizione della famiglia)” e “una grossa industria della comunicazione di massa che non dà al pubblico né il vero né il falso, ma semmai l’irreale”, un “oppio del popolo”, con un “flusso continuo delle distrazioni” per “far affogare in un oceano di fatuità” la razionalità, la libertà e le istituzioni democratiche.
Non siamo già a questo scenario. Ma per evitarlo assume un’importanza enorme l’esistenza di un giornalismo “libero” e anticonformista.
Da “Libero”, 18 luglio 2020