Canto I, Inferno di Dante Alighieri – lettura e commento di Giovanni Teresi
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- Category: Scritture
- Creato: 22 Febbraio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; 33
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 36
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 36
Mentre Dante sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e snella, che lo spinge più volte a tornare indietro. All’inizio l’ora del mattino e la stagione mite gli danno speranza di poterne avere ragione, ma subito dopo compare un leone, che gli viene incontro con fame rabbiosa e sembra far tremare l’aria, e una lupa famelica, tanto magra da sembrare carica di ogni bramosia. Quest’ultima incute molta paura in Dante, che perde ogni conforto e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 39
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 42
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone. 45
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse. 48
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, 51
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 54
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;57
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 60
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 63
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;57
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 60
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 63
Le tre fiere, tre belve non permettono a Dante di proseguire e, anzi lo spingono a tornare indietro, verso la terribile selva.
Le tre fiere hanno, senza ombra di dubbio, un significato allegorico; diverse però sono state nei secoli le interpretazioni e le teorie. Secondo la più accreditata – basata su San Giovanni, su San Tommaso e supportata anche dalla maggior parte dei primi commentatori di Dante – esse rappresenterebbero lussuria (lonza), superbia (leone) e cupidigia-avarizia (lupa), le tre colpe più diffuse nel Medioevo, nonché le più biasimate dalla letteratura religiosa del Duecento. Le tre fiere sarebbero quindi allegoria di tre pericolosissimi vizi, a causa dei quali è impossibile condurre una vita retta e proseguire nell’ascesa verso Dio.
Lonza
È la prima delle tre fiere incontrate da Dante nella selva osacura, nel Canto I dell'Inferno.
Il suo nome deriva probabilmente dal latino lynx (lince) e rappresenta un grosso felino dal pelo maculato, anche se non siamo certi che sia da identificare con l'animale che conosciamo.
Il suo nome deriva probabilmente dal latino lynx (lince) e rappresenta un grosso felino dal pelo maculato, anche se non siamo certi che sia da identificare con l'animale che conosciamo.
Sembra che nel 1285 a Firenze una "leuncia" fosse tenuta in una gabbia, presso il palazzo del Podestà. È stata anche identificata come un leopardo o una pantera, tutti animali dal significato demoniaco nei bestiari medievali.
Nel Canto I essa ha significato allegorico e rappresenta quasi certamente la lussuria, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante di scalare il colle. Alcuni commentatori l'hanno invece interpretata come simbolo di invidia, altri dei peccati di eccesso, ipotesi entrambe poco probabili secondo la critica moderna.
La lonza viene nuovamente citata da Dante in Inf., XVI, 106-108 (Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta), dove il poeta porge la corda che gli cinge i fianchi a Virgilio, che la getta giù nel burrone che si spalanca sopra le Malebolge e richiama così Gerione.
Nel Canto I essa ha significato allegorico e rappresenta quasi certamente la lussuria, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante di scalare il colle. Alcuni commentatori l'hanno invece interpretata come simbolo di invidia, altri dei peccati di eccesso, ipotesi entrambe poco probabili secondo la critica moderna.
La lonza viene nuovamente citata da Dante in Inf., XVI, 106-108 (Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta), dove il poeta porge la corda che gli cinge i fianchi a Virgilio, che la getta giù nel burrone che si spalanca sopra le Malebolge e richiama così Gerione.
Leone
È la seconda delle tre fiere incontrate da Dante nella selva oscura.
Il leone è generalmente interpretato come allegoria della superbia, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle. Alcuni commentatori l'hanno invece interpretato come simbolo di violenza, in base alla tripartizione dei peccati nella topografia morale dell'Inferno dantesco (la lonza sarebbe allora l'incontinenza, la lupa invece la frode). Non è escluso che entrambe le interpretazioni siano valide.
Il leone è generalmente interpretato come allegoria della superbia, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle. Alcuni commentatori l'hanno invece interpretato come simbolo di violenza, in base alla tripartizione dei peccati nella topografia morale dell'Inferno dantesco (la lonza sarebbe allora l'incontinenza, la lupa invece la frode). Non è escluso che entrambe le interpretazioni siano valide.
Lupa
La lupa è univocamente interpretata come allegoria dell'avarizia-cupidigia, la più grave delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle; già san Paolo definiva l'avarizia radix omnium malorum (radice di tutti i mali, I Tim., VI, 10) ed è chiaro che l'avarizia rappresenta per Dante la causa prima del disordine morale e politico in cui versava l'Italia del primo Trecento, simboleggiato anche dalla selva oscura. Virgilio, dopo aver tratto in salvo Dante dalla belva, gli profetizza l'avvento del veltro, un misterioso personaggio (forse da identificare con Cangrande Della Scala) destinato a ricacciare la lupa nell'Inferno, cioè a liberare l'Italia dall'avarizia e ristabilire la giustizia.
Lo stesso Plutone, custode demoniaco del III cerchio dell'Inferno, è definito da Virgilio un lupo (Inf., VII, 8) e la lupa ritorna nella famosa apostrofe di Purg., XX, 10-12 (Maladetta sie tu, antica lupa, / che più di tutte l'altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa), dove si parla proprio del peccato di avarizia espiato nella V cornice.
Questo animale è del resto accostato al peccato di avarizia in molti bestiari medievali, inoltre in Purg., XIV, 49-51 Guido del Duca allude ai Fiorentini chiamandoli lupi, con evidente accenno al peccato di avarizia di cui erano esempio. L'accusa di avarizia viene rivolta a Firenze anche in Par., IX, 127 ss., dove Folchetto di Marsiglia definisce Firenze come città del demonio che produce e spande il maladetto fiore / c'ha disviate le pecore e gli agni, / però che fatto ha lupo del pastore. Il fiore è naturalmente il fiorino, colpevole di trasformare pecore e agnelli del gregge cristiano in lupi famelici.
Lo stesso Plutone, custode demoniaco del III cerchio dell'Inferno, è definito da Virgilio un lupo (Inf., VII, 8) e la lupa ritorna nella famosa apostrofe di Purg., XX, 10-12 (Maladetta sie tu, antica lupa, / che più di tutte l'altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa), dove si parla proprio del peccato di avarizia espiato nella V cornice.
Questo animale è del resto accostato al peccato di avarizia in molti bestiari medievali, inoltre in Purg., XIV, 49-51 Guido del Duca allude ai Fiorentini chiamandoli lupi, con evidente accenno al peccato di avarizia di cui erano esempio. L'accusa di avarizia viene rivolta a Firenze anche in Par., IX, 127 ss., dove Folchetto di Marsiglia definisce Firenze come città del demonio che produce e spande il maladetto fiore / c'ha disviate le pecore e gli agni, / però che fatto ha lupo del pastore. Il fiore è naturalmente il fiorino, colpevole di trasformare pecore e agnelli del gregge cristiano in lupi famelici.
Giovanni Teresi