Analisi dell’opera di Pierre-Auguste Renoir, "Irène Cahen d'Anvers" - di Irene Luzio

Titolo: Irène Cahen d'Anvers
Autore: Pierre-Auguste Renoir
Data: 1880
Tecnica: olio su tela
Dimensioni: 65×54 cm
Ubicazione: Collezione Bührle, Kunsthaus, Zurigo
 
 
ANALISI DELL’OPERA
Protagonista del ritratto è Irene Cahen, figlia di otto anni del noto banchiere ebreo, il conte Louis Cahen d'Anvers[1], cui si deve la commissione dell’opera. Renoir condusse il ritratto di Irene en-plein-air, in uno spazio aperto di cui disponeva la dimora dei Cahen, e lo terminò nell’arco di due sedute.  
Irene è rappresentata di profilo, accovacciata sulla nuda terra, contro una siepe. Il busto e il capo segnano l’asse verticale della tela, che si divarica diagonalmente verso la base, seguendo le forme del vaporoso abitino azzurro e bianco, tagliando la composizione all’altezza delle gambe.
In primo piano, la figura esile della bambina spicca per contrasto sullo sfondo scuro e frondoso. Una luce inclinata e soffusa discende dall’alto su di lei, esalta il diafano del suo incarnato, i riflessi cangianti della lunga capigliatura ramata, l’azzurro del nastro che la trattiene parzialmente sulla nuca e del vestito. La vibrazione della luce è esaltata da una pennellata rapida, che giustappone toni caldi e freddi, virgolettata e picchettata nello sfondo, tratteggiata nei capelli e nelle pieghe del panneggio.
Più morbidi e sfumati appaiono i passaggi cromatici dell’incarnato, particolarmente nel volto. La fisionomia è curata con maggiore finezza, leggibile nella linea pulita dei tratti somatici e nella resa un po’ più corposa dei volumi. Una lieve flessione del collo inclina il viso della bambina verso lo spettatore, che si trova quasi sul suo stesso piano: come se l’osservatore, in primis il pittore, fosse prima chiamato a chinarsi, per accedere al suo mondo. Ma lo sguardo, pur dolce e innocente, è assorto e distante. Il ‘pittore della joie de vivre’ cattura un sentimento che oscilla tra la malinconia e la noia, sintomo forse del tramonto del sogno infantile.
Che il corpo e i capelli della piccola Irene siano trattati con la stessa tecnica dello sfondo e tendano quasi a dissolversi in esso è sintomatico dell’estetica di Renoir:  «Gli sfondi sono importanti quanto i primi piani. Non sono solo fiori, volti e montagne giustapposti l’uno all’altro: è un insieme d’elementi che si fondono in un tema centrale, amalgamati da un sentimento amoroso che unifica le loro diversità. Il mondo è uno. […] Quel tiglio, quelle api, quella bambina, quella luce e Renoir sono parte della medesima cosa e tutti d’eguale importanza»[2]
 
SFORTUNA E FORTUNA DELL’OPERA
Il compromesso tra novità impressioniste e tradizione era stato applaudito al Salon del ’79, a cui Renoir era stato ammesso col ritratto di Madame Georges Charpentier e i suoi figli, che aveva persuaso i coniugi Cahen a richiedere i servizi del pittore. Ma il ritratto di Irene – pagato appena 1500 franchi – non incontrò il gusto né dei genitori, né della figlia, e fu relegato agli ambienti della servitù[3].
Renoir era ancora lontano dall’essere un artista affermato e incontroverso.
Il disprezzo della critica, del pubblico, talvolta persino della committenza, era dovuto in parte alla mancata comprensione delle ragioni e dei fini della nuova arte: «la tecnica sommaria e la mancanza di forma degli impressionisti parvero una provocazione; furono prese come una beffa e il pubblico se ne vendicò nel modo più crudele»[4]. Persino Émile Zola – dapprima vicino al movimento e suo strenuo difensore – scrisse: «Tutti i pittori impressionisti peccano di inadeguatezza tecnica. […] Disdegnano a torto la solidità delle opere a lungo meditate; ecco perché c'è da temere che stiano solo indicando la via al grande artista del futuro che il mondo attende»[5].
Non è forse infondato ritenere che il senso di fugacità e precarietà, connaturato allo sguardo impressionista sull’uomo e sul mondo, abbia contribuito ad alimentare lo sgomento nei fruitori dell’epoca: «ogni quadro impressionistico è il sedimento di un istante nel perpetuum mobile della vita, la rappresentazione di un labile equilibrio sempre minacciato nel gioco delle opposte forze. […] Ogni cosa stabile e coerente si risolve in essa in metamorfosi»[6]. Il senso di provvisorietà non poteva non turbare un pubblico borghese – come i Cahen – specialmente nel ritratto, symbol del trionfo del suo status[7], identità e potere. Non era ancora trascorso un decennio dall’esplosione del socialismo anarchico proudhoniano nella capitale, in seguito alla disfatta nella guerra franco-prussiana. Il dominio della borghesia capitalista si era ristabilito senza apparenti conseguenze, irrigidendosi in un sistema finanziario e industriale fondato sulla spartizione di monopoli e sfere d’interesse. «E come questo accentramento sistematico dell’economia ha potuto essere designato come un fenomeno di senilità, così dovunque nella società borghese si possono constatare indizi d’incertezza e segni premonitori di dissoluzione. […] La borghesia ne esce, sì, vittoriosa, ma con il senso profondo di un pericolo acuto»[8].
Tornando al ritratto di Irene Cahen d’Anvers: difficilmente un dipinto fu tanto detestato e tanto concupito.
Relegato nelle stanze della servitù dei Cahen, ne uscì nel 1883, in occasione della prima personale di Renoir, organizzata da Paul Durand-Rouel: incantati dall’opera, i fruitori la ribattezzarono “la bambina dal nastro blu” o “la petite Iréne”. Nel 1891, Irene Cahen, appena maggiorenne, sposò il banchiere ebreo di origini ottomane Moise de Camondo, collezionista dell’arte del XVIII secolo: il quadro di Renoir la seguì, ma sempre per essere relegato nella dependance. Più tardi, quando Irene divorziò dal marito – lasciando i figli Nissim e Beatrice – e si convertì al cattolicesimo per sposare lo squattrinato conte Sampieri, il ritratto di Renoir fu restituito agli alloggi della servitù dei Cahen. Nel 1919, Beatrice de Camondo sposò il compositore ebreo Leon Reinach e la nonna, Louise Cahen d’Anvers, le regalò il ritratto della ‘piccola Irene’, che finalmente venne esposto con devozione nel salone della nuova dimora, lasciata solo in occasione delle retrospettive su Renoir all’Orangerie (1933) e alla Bernheim-Jeune (1938). Intanto, Irene si era separata anche da Sanpieri e dalla figlia Claude[9].
Il 3 settembre 1939, la Francia dichiarò guerra alla Germania. Il direttore dei musei nazionali, Jacques Jaujard, decise di movimentare le opere del Louvre nel castello di Chambord, per preservarle dai bombardamenti e dalle spoliazioni naziste. Leon Reinach chiese e ottenne, da Jaujard, di nascondere parte della sua collezione tra le casse del museo: il ritratto di Irene era tra quelle opere. Ma le casse di Reinach furono individuate e prelevate dai membri dell’ERR, incaricati di confiscare opere d'arte nei paesi occupati, per lo più pertinenti alle collezioni private di famiglie ebraiche: le casse del Louvre non furono toccate. Le opere di Reinach e la ‘petite Irene’ furono portati al museo Jeu de Paume, reso centro di smistamento per opere d’arte trafugate, sovrinteso da Bruno Lohse, membro attivo dell’ERR e personale consulente d’arte di Göring, che barattò il ritratto di Irene con un altro dipinto: il nuovo proprietario del Renoir, Gustav Rochlitz, anche lui membro dell’ERR, lo spedì in Germania con altre opere trafugate. Nello stesso anno – 1942 – Beatrice de Camondo, Leon Reinach e i figli, Fanny e Bertrand, furono arrestati e deportati ad Auschwitz, dove persero la vita. Irene sopravvisse, nascosta dal genero André Dubonnet, ex marito della figlia Claude Sampieri[10].
Terminata la guerra, i Monuments Men – un corpo militare speciale americano, istituito allo scopo di salvare le opere d’arte – scovarono centinaia di depositi nazisti, disseminati intorno al lago di Costanza: il ritratto di Irene Cahen fu ritrovato a Füssen, in una dependance del castello di Hohenschwangau. Fu inviato a Monaco, in un centro di raccolta per opere trafugate, e nel ’46 rientrò a Parigi, dove fu esposto tra altri capolavori in attesa di essere restituiti ai legittimi proprietari. Ritrovato il ritratto della sua infanzia, Irene tentò per quasi un anno di averne riconosciuta la proprietà, in quanto unica erede della defunta figlia Beatrice. Ma – per ragioni sconosciute – tre anni dopo averla ottenuta, se ne liberò. Il dipinto fu acquistato da Emil Georg Bührle, mercante d’armi tedesco naturalizzato svizzero e appassionato d’arte[11].
L'opera fa tuttora parte della Collezione Bührle, oggi confluita al Kunsthaus di Zurigo.
 
L’AUTORE[12]: PIERRE-AUGUSTE RENOIR
Pierre-August Renoir è annoverato tra i padri del movimento impressionista e tra le personalità artistiche più significative del XIX secolo. Nacque a Limoges, il 25 febbraio 1841, quarto di cinque figli. Visse un’infanzia gioiosa, sebbene fosse di famiglia modesta. Il padre, Leonard Renoir, era sarto; la madre, Marguerite, tessitrice. Nella speranza di migliorare le proprie condizioni, si trasferirono a Parigi, quando Pierre-Auguste non aveva che tre anni. Il piccolo manifestò ben presto il proprio talento artistico e il padre lo incoraggiò, nella speranza di avviarlo alla professione di decoratore di porcellane.
 
A tredici anni, Renoir divenne apprendista alla ditta Levy, maturando il gusto per la luminosità e per i colori brillanti, e la profonda sensibilità decorativa che si sarebbe poi manifestata come un tratto distintivo dei suoi dipinti. Nelle pause dal lavoro, Renoir si recava al Louvre per ammirare la sensualità vibrante degli incarnati di Rubens, la graziosa leggerezza delle atmosfere di Fragonard e Boucher; di sera frequentava l'École de Dessin et d'Arts décoratifs; la notte divorava letture di ogni sorta e ne discuteva col fratellino, Edmond[13]. Nel 1858 la ditta Lévy fallì, e così le speranze di inserirsi nella prestigiosa manifattura di Sèvres; Renoir ripiegò su altri lavori, decorò ventagli e un café. Questa esperienza formativa si unì alla vocazione artigiana dei suoi familiari e contribuì a forgiare in lui l’identità di “lavoratore-pittore”, cui aderì per tutta la vita:
«Opero con le mie mani e ciò mi rende un operaio: un lavoratore-pittore»[14].
«Pensare che sarei potuto nascere in una famiglia di intellettuali! Ci sarebbero voluti anni per liberarmi di tutte le loro idee e vedere le cose per come sono. E avrei potuto essere imbarazzante con le mani»[15].
 
Nell'aprile 1862, investì i propri risparmi iscrivendosi all'École des Beaux-Arts e fu accolto come studente nell’atelier di Gleyre. Lì conobbe Monet, Bazille e Sisley. Nel 1864 Gleyre fu costretto a chiudere lo studio. Insoddisfatti della mentalità e dei metodi accademici, i quattro artisti – ispirati dai pittori di Barbizon e su consiglio dello stesso Gleyre[16] – decisero di lavorare en-plein-air: nella primavera del 1865, soggiornarono in una locanda del villaggio di Marlotte, dedicandosi allo studio della natura e della luce nei suoi vari effetti.
 
Tornati a Parigi, Renoir conobbe una cronica indigenza. Fu ospite di Sisley, poi di Bazille. La sera, Monet, Sisley, Bazille e Renoir si univano agli artisti e letterati indipendenti del Café Guerbois – tra cui Manet, Cezanne, Degas, lo scrittore Émile Zola e il fotografo Nadar – e discutevano delle nuove teorie artistiche e dell’inadeguatezza dei circuiti ufficiali, come l’Accademia e il Salon. Renoir si pronunciava di rado, non sposandone né gli interessi teoretici ed intellettuali, né una così radicale avversione alla tradizione artistica e alle istituzioni. Nel ’69 venne ammesso al suo primo Salon.
 
Il 1870 irruppe, portando gli artisti ad arruolarsi. La guerra franco-prussiana – in cui il giovane Bazille perse la vita – e la disfatta francese determinarono una situazione caotica nella capitale, prima assediata dai tedeschi, poi occupata dai socialisti anarchici della Comune, repressi nel sangue dal governo della neonata Terza Repubblica. Subito dopo la guerra, gli artisti di nuova generazione si dispersero o si abbandonarono a una sregolata vita bohemien. In questo periodo, i rapporti di Renoir col fratello si intensificarono. Edmond posava spesso per lui: «[Renoir] lavorava con una tale prodigiosa virtuosità che il ritratto richiedeva una sola seduta. […] Mi disse “ascolta: niente è più mutevole di un volto. S’è pur vero che i tratti rimangono stabili, la fisionomia cambia per un nonnulla. Gli occhi saranno più o meno affaticati. La fronte potrebbe essere increspata per l’apprensione, i capelli non saranno nello stesso posto e il sorriso affabile, oggi spontaneo, potrebbe diventare artefatto domani. Posso io seguire tali mutamenti? No!”»[17].
 
Nel 1874, Renoir si ritirò ad Argenteuil con Monet e Manet, esperienza che segnò l’inizio del suo periodo ‘impressionista’: la tavolozza si fece più satura, le pennellate più rapide e scomposte, i volumi e i contorni si dissolsero nella luce, che diventò protagonista indiscussa delle tele. Prese parte alla Société anonyme des artistes, sodalizio di 30 artisti stilisticamente eteronomi – tra cui Monet, Pisarro, Sisley e Degas, ma anche figure più ‘autorevoli’ come Cezanne e De Nittis, che avevano già esposto al Salon – accomunati dallo scopo d’indire una mostra autogestita e promuovere una nuova arte, indipendente dai circuiti ufficiali. La prima esibizione ‘impressionista’ si tenne nello studio del fotografo Nadar, sul Boulevard dei Cappuccini, il 15 aprile 1874. Fu uno scandalo epocale.
 
Benché non intendesse essere provocatoria, la frattura con l’arte ufficiale non poteva suscitare più scalpore. Il pubblico si sentì beffato e la critica si scagliò contro i giovani artisti con inaudita ferocia: «questa scuola ha abolito due cose: la linea, senza la quale è impossibile riprodurre la forma di un essere vivente o di un oggetto, e il colore, che conferisce alla forma una parvenza di realtà […] non è che la negazione delle più elementari leggi del disegno e della pittura» (E. Cardon, La Presse, 29 aprile 1874[18]). L’apice del disprezzo e del cinico sarcasmo fu raggiunto da Louis Loroy, in un articolo satirico intitolato L’esibizione impressionista[19]: il termine, ironicamente cavato dall’opera Impressione, sol levante di Monet, venne attribuito per la prima volta al movimento. Persino i critici più benevoli, come Castagnary[20], pur riconoscendo il grande talento degli artisti, giudicavano il loro stile sbrigativo e disorganico, perché ancora acerbo. Né ebbe maggior fortuna l’asta che gli ‘Impressionisti’ tennero l’anno successivo, all'Hôtel Drouot: scoppiò una sommossa, fu venduta solo la metà delle opere e il mercante d’arte Durand-Ruel – che vi aveva partecipato in qualità di esperto d’arte – data la recessione economica, sospese temporaneamente la promozione e l’acquisto delle loro opere.
 
Se la critica si accanì con particolare veemenza contro Monet, Degas e Cezanne, menzionò poco Renoir. Suo figlio Jean scriverà: «il pittore che ne uscì peggio fu mio padre, che ricevette meno insulti di tutti. Era ritenuto troppo insignificante per essere notato»[21]. Grazie a questo profilo basso, tuttavia, le commissioni di ritratti non gli furono precluse e Renoir poté sostentarsi. Se non aveva ancora abbandonato le sperimentazioni impressioniste – esponendo alcune delle più celebri opere alle mostre indipendenti del ‘76 e ‘77 – Renoir, meno idealista dei suoi amici e compagni, non disdegnava scendere a compromessi e adottare, nei ritratti, uno stile più vicino alla tradizione artistica. L’esempio più significativo è il ritratto di Madame Charpentier e dei suoi figli (‘78) con cui Renoir fu non solo accolto, ma addirittura apprezzato, al Salon dell’anno successivo. La famiglia Charpentier giocò un ruolo fondamentale. Per promuovere la nuova generazione di artisti e letterati, Madame ospitava ricevimenti celebri in tutta la sfera dell’alta borghesia, che garantì a Renoir diversi contatti e riconoscimenti. Mons. Charpentier fondò la rivista La Vie Moderne.
 
Ad ogni modo, Renoir era ancora lontano dall’essere incontroverso. Al 1800 si data il ritratto di Irene Cahen d’Anvers, che non appagò la committenza. Per aver compromesso la tecnica ‘impressionista’ e aver disertato le ultime esposizioni, Renoir fu oggetto del biasimo di altri membri del movimento, che da allora si disperse. Il giudizio della critica, d’altro canto, non era affatto unanime. Ciò che indusse Renoir a una profonda crisi – cui contribuì l’inattesa reprimenda di Zola[22] – fu l’incapacità di conciliare la vibrazione cangiante e impalpabile della luce, la pennellata libera e corposa, con l’esigenza di profondità e volume, di unità organica e gerarchica della composizione. Tra il 1881 e il 1883, Renoir intraprese una serie di viaggi – prima in Algeria, poi in Italia – che lo portarono alla riscoperta dei grandi autori rinascimentali, Raffaello tra tutti, e lo introdussero al cosiddetto periodo agro. La sua tavolozza si fece fredda e la luce soffusa, riemerse la linea, la resa dei volumi divenne più accurata, le composizioni rievocavano sempre più spesso temi classici. Di ritorno a Parigi, Renoir ottenne la sua prima personale, organizzata da Durand-Ruel nella sua galleria.
 
A cavallo del nuovo secolo, Renoir coronò la sua vita pubblica e privata. Nel 1890 sposò Aline Charigot, che aveva posato per lui come modella e gli aveva già dato il primo figlio, Pierre. Jean nacque nel 1894 e Claude nel 1901. L’intimità gioiosa della vita familiare divenne fonte di gioia e di ispirazione: «la nascita di mio fratello Pierre – scriverà Jean – fu causa d’una rivoluzione definitiva nella vita di Renoir. Le teorie apprese alla Nouvelle Athènes[23] erano rese irrilevanti dalle fossette sul sedere di un neonato». Al nucleo familiare si aggiunse la giovane cugina di Aline, Gabrielle Renard, che per un ventennio fu la modella preferita di Renoir. Questa fase della sua produzione sarà detta ‘perlata’: la tecnica si fece più libera, passando dai colpi di spatola ai tocchi leggeri; le linee si addolcirono, i contorni sfumarono, la luce tornò brillante e la palette calda. Nel 1892, Renoir fu consacrato artisticamente con la prima grande retrospettiva, organizzata da Durand-Ruel nella sua galleria: l’esibizione contava 110 tele esposte, di cui una – Jeunes filles au piano – fu acquistata dallo Stato per 4000 franchi e collocata al Museo Nazionale del Lussemburgo.
 
Nei primi anni del Novecento, Renoir contrasse una tragica forma di poliartrite reumatoide e, per tutelare la propria salute, nel 1903 si ritirò in Costa Azzurra, a Cagnes-sur-Mer. Nel 1904, quarantacinque tele di Renoir furono esposte al Salon d’Automne. Il successo di Renoir era ormai tale che giovani artisti affluivano a Cagnes in pellegrinaggio. Malgrado il dolore e infine la totale deformità delle mani, Renoir continuò a dipingere: l'ultima fase della sua vita fu un rinnovato slancio artistico, verso soluzioni formali quasi astratte.
 
Nel 1919, Renoir, ormai paralizzato e prossimo alla morte, visitò il Louvre un’ultima volta, per vedervi esposta una sua opera: Les Parapluies. Fu uno dei pochi pittori a cui tale privilegio fu concesso da vivo.
 
BIBLIOGRAFIA
 
  • AUF DER HEYDE A., D’AYALA VALVA M., RENOIR J. (Preface), Renoir,‎ Rizzoli, 2005
  • CASTELLANI F., Renoir: His Life and Works, ‎ Courage Books, 1998
  • HAUSER A., Storia sociale dell’arte, Piccola Biblioteca Einaudi, 1979
  • RENOIR J., Renoir my father, ‎NYRB Classics, 2001
  • REWALD J., Studies in impressionism, H.N. Abrams, 1986
  • S. WEST, Portraiture, Oxford University Press, 2004
 
 
SITOGRAFIA
 
 
 
FILMOGRAFIA
 
  • LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, France Saint Lèger Per Harbor Films, 2021
 

[1] LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, min 02.02/02.09
[2] J. RENOIR, Renoir my father, p.230
[3] LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, min 06:31-07:29
[6] A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, p. 396
[7] S. WEST, Portraiture, pp. 83-86
[8] A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, pp. 394-395
[9] LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, min. 27.20-
[10] LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, min. 36.54-37.03
[11] LEVY-BEFF N., Renoir e la bambina con il nastro blu, min. 46.55-
[12] F. CASTELLANI, Renoir his life and works
[13] J. REWALD, Studies in impressionism, p. 10
[14] J. RENOIR, Renoir my father, p. 214
[15] J. RENOIR, Renoir my father, p. 10
[16] J. REWALD, Studies in impressionism, p. 12
[17] J. REWALD, Studies in impressionism, pp. 13-14
[18] J. RENOIR, Renoir my father, pp. 149-150
[19] J. RENOIR, Renoir my father, pp. 157-161
[20] J. RENOIR, Renoir my father, pp. 152-154
[21] J. RENOIR, Renoir my father, pp. 162
[22] E. ZOLA, Nouvelles artistiques et littéraires: le Salon de 1879 ( https://www.musee-orsay.fr/en/node/67 ); il testo fu parzialmente pubblicato sulla Revue politique et littéraire (https://books.openedition.org/pum/7532?lang=it nota 14)
[23] caffè parigino e celebre punto di ritrovo culturale durante il tardo Ottocento. Fra i frequentatori abituali del caffè si ricordano Degas e altri artisti impressionisti, Vincent van Gogh, Henri Matisse.
Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.