"Vicende artistiche della famiglia Rondinini racchiuse nella loro dimora romana" di Giuseppe Massari

Il volume di Cristiano Giometti e Loredana Lorizzo: “Per diletto e per profitto.  I Rondinini e l’Europa” (Officina Libraria, pp. 300, e 35,00, 77 ill. e 33 tavv.), ripercorre le vicende delle diverse generazioni, tra il Seicento e il primo Ottocento, dei Rondinini: un casato di funzionari pontifici, prelati, cardinali e, anche, collezionisti. Alla saga dei Rondinini  appartengono due dei massimi capolavori scultorei di tutti i tempi, la Medusa tardo ellenistica, l’opera più famoso di quell’antica collezione conservata i alla Glyptothek di Monaco di Baviera assurta a simbolo di perfezione con Goethe, e la Pietà, ultima e tormentata fatica incompiuta di Michelangelo, conosciuta come la Pietà Rondinini, dal 1952 acquistata dal Comune di Milano. A partire dal rinvenimento di alcuni inventari, frutto di intensi e numerosi anni di lavoro, è stato possibile aprire ulteriori scrigni e far emergere i preziosi gioielli artistici, famigliari, personali sul passato della casata. Nelle cinque appendici che corredano il volume scorrono le statue, i dipinti, gli arazzi che arredavano le stanze di palazzi e ville. Un immenso patrimonio di opere d’arte rinveniente da due capostipiti della famiglia: Alessandro Rondinini e la moglie Felice Zacchia. Personaggi di censo nobile, discendenti dai ceppi faentini provenienti da Vezzano, che giunsero a Roma sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini Da un lato Natale Rondinini, padre di Alessandro (senior), dall’altro i cardinali Paolo Emilio e Laudivio Zacchia, padre di Felice. Sia Natale che Laudivio avevano formato delle collezioni di opere d’arte, com’era costume per gli alti funzionari della curia. Fu a partire da questo nucleo che i figli, i già ricordati Alessandro e Felice, sposatisi nel 1610, incrementarono le collezioni avite e diedero alla famiglia una sua ben precisa fisionomia, commissionando anche una serie di opere per alcune chiese di Roma e per le loro dimore, il Palazzo al Pozzo delle Cornacchie e la villa (allora) suburbana di Termini. Sulla scia dei loro genitori e famigliari, seppero intrattenere rapporti, sin dal XVII secolo, con alcuni dei più importanti artisti della Roma barocca e settecentesca, da Alessandro Algardi a Domenico Guidi,  da Domenichino, a Gian Lorenzo Bernini, da Carlo Saraceni, Orazio Gentileschi, a Giovanni Lanfranco, da François du Quesnoy a Paul Brill al Bamboccio. Intenditori dal gusto raffinato, i Rondinini, secondo la puntuale ricostruzione condotta dai due autori del testo, ebbero una predilezione particolare per la pittura caravaggesca e per i pittori fiamminghi che, all’epoca, operavano nella capitale. Quando mentre sembrava che tutto potesse finire con la sopraggiunta morte di Alessandro, avvenuta nel 1639 la moglie Felice resse bene le sorti della famiglia, suscitando l’ammirazione dei suoi contemporanei per la sua erudizione e per i suoi interessi in campo artistico. Purtroppo, anche Felice, il 1667 fu raggiunta dalla morte . Giometti e Lorizzo, anche qui, con pazienza e perizia scrupolosa d’indagine ripercorrono le alterne e non sempre felici vicende che interesseranno il nobile casato. Il racconto prosegue con l’entrata di colui che sarà il prosecutore del ramo principale della famiglia, Nicolò, dal quale discese Alessandro Rondinini junior. Dopo una serie di dissesti finanziari da lui provocati, e a cui dovette far fronte lo zio, il cardinale Marcello Rondinini, Alessandro rientrò a Roma nel 1690. Fu la sua seconda moglie, Margherita Ambra, a dar corpo e sostanza alla nuova facies della famiglia: fu lei a comprare nel 1744 un malmesso palazzo su via del Corso, che era stato del Cavalier d’Arpino. I lavori di ristrutturazione e le migliorie, che si protrassero ben oltre la morte di Margherita nel 1755, diedero vita a una delle più notevoli dimore della Roma settecentesca. La marchesa aveva notevoli mire artistiche, che dispiegò proprio nel nuovo palazzo Rondinini al Corso: lì vennero allestiti i pezzi della collezione di famiglia, circa i quali Margherita si dimostrò ben consapevole della storia e provenienza, come si evince da un documento del 1744, in cui ella commissiona un ‘riscontro’ allo scultore Filippo della Valle e al mobiliere Carlo Aldaci. Nella seconda metà del secolo il palazzo divenne meta di visite da parte di artisti e viaggiatori, tra i quali anche Winckelmann e Goethe.  Nel palazzo al Corso si ammirava un allestimento armonico e innovativo che univa al gusto per l’arte antica e i dipinti, quello per i disegni e le terrecotte disposte in un ambiente a loro dedicato, un laboratorio nel quale si studiavano i meccanismi del fare artistico, a confronto con i capolavori del passato. Nella vicenda storica subentrano altri personaggi. Entrano sulla scena, ma non sempre con successo fino al disfacimento di quanto era stato raccolto, custodito, coltivato, collezionato. Nel cuore della Roma illuminista si situano le vicende del figlio di Margherita e Alessandro, Giuseppe Rondinini. Viaggiatore e collezionista, Giuseppe tentò a più riprese di sviluppare le sue attività nel commercio di opere d’arte. Non gli toccò buona sorte, aggiunta alla mancanza di figli che non ebbe dalla sua unione con l’inglese Elisabeth Kenny. Di qui il declino. I beni artistici conobbero la dispersione e la fine ingloriosa della pregiata e pregevole collezione Rondinini. A conclusione di questo viaggio tra arte e nobiltà, se è consentita qualche considerazione è quella che l’opera, oggetto della presente recensione, ha il merito, non solo di aver rispolverato antiche memorie, quanto di aver contribuito ad arricchire la conoscenza sulla Roma settecentesca. Una Roma fiorente, ricca sulla quale molti si sono affacciati e cimentati, sulla quale molto c’è da scoprire, molto c’è ancora da esplorare. Giometti e Lorizzo hanno fornito il loro apporto. Un contributo interessante, un tassello molto importante nella cornice di una testimonianza e di una fedeltà ai testi consultati. Riprendere, ricostruire, a distanza di anni o di secoli, non è mai opera semplice, se non ardua. I due autori hanno lasciato il sigillo di una indagine. Hanno lasciato le impronte della loro esperienza, affidando  ad altri, come è giusto che sia, nella logica non esaustiva di una ricerca, di continuare, di proseguire, di integrare e di arricchire quel bagaglio necessario per conoscere e vivere meglio alcune pagine di storia. Quelle che non possono avere solo il gusto di appagare una morbosa curiosità, ma di approdare al completamento, all’affinamento culturale del proprio sapere, per cercare e  tentare di costruire anche quello altrui.

 

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