“La leggenda di Colapisci” di Emanuele Casalena

« Dove sull'acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d'uragani
e mare avvelenato. »
 
 
(Salvatore Quasimo, Il Padre)
 
 
 
Erano le 5.20:27 del 28 dicembre 1908, era notte quando gi  uomini riposano, i bambini sognano, le madri accendono la luce in cucina per preparare la colazione del giorno. Colapesce a quel canto del gallo non ci fece caso, era maledettamente stanco, il sonno gli calò improvviso sulle palpebre, lui lasciò la presa per 37 secondi, per Messina e Reggio Calabria fu il disastro, il peggiore terremoto della storia d’Europa cui seguì un maremoto. Decine di migliaia le vittime,  i feriti,  senza più niente, due città rase al suolo, nude col solo abito del terrore addosso zuppo del pianto per i suoi figli morti.
Come in una favola l’incipit è: c’era una volta tanto tempo fa una giovane coppia di sposini messinesi, tristi, tristi perché non riuscivano a figliare. Ma un bel giorno mentre lu maritu era nel pelago a pescare, Agatina, la mugghieri, se ne stava lacrimosa sulla riva a pinsari, quand’ecco dall’ acque profonde saltò fuora nu pisci spata parlanti, un arcangelo Gabriele co’ le pinne, le disse: “ Agatì conosco la tua pena, smettila di lamentarti. Guarda là, sullo scoglio, la vedi quella bella conchiglia grossa, prendila e mangiala, vedrai tra nove mesi partorirai nu beddu figghiu “ e scomparve in mare. Agatina restò stordita ma tant’ era il dolore d’essere sterile che fece quanto le aveva detto quell’angelo di squame. Masticò a piccoli bocconi la conchiglia, una volta finita, sentì un brivido saettare nel suo giovane corpo de fimmina poi si  fermò un attimo sul ventre. Era miracolosamente in cinta. Passato il tempo partorì un bambino bello, forte con gli occhi color del mare, lo vollero chiamare Nicola, il vincitore del pettegolezzo miagolante sulla sterilità dell’Agatina.  Nomen omen perché pare che chi si chiami Nicola è un tipo un po’ originale, unico, pieno di vita, se ne frega altamente della pubblica opinione. Infatti così fu, quel picciotto stravagante che tutti chiamavano Cola p’ abbreviare, primizia miracolosa d’una seguita nidiata di famiglia, stava assai poco sulla terra ma sguazzava contento dentro il mare. Nuotava come nu pisci ore ed ore, a volte  dimenticava persino a rincasare, coi genitori a strillare il suo nome sullo stretto, cuore in gola finché non lo vedevano spuntare. Nun jucava cu l’amici  ma cu li pisci, gli piaceva d’abbuddari nei fondali marini, raccontava ai genitori sconsolati di quante meraviglie c’erano sotto quel mantello del mare. I pescatori raccontavano di quel ragazzo così strambo, parea un delfino umano, si dicevano tra loro: “ Colapisci è figghiu di Nittunu”. C’era di più, con tante bocche da sfamare venute poi come i grani del rosario, serviva ch’ anche lui, il maggiore, desse un mano al padre a pescare. Macché Cola non ci pensava affatto, anzi, se costretto, ributtava a mare il pescato perché quelle creature erano le sue  amiche, andavano salvate. Insomma era una disperazione, quella conchiglia s’era trasformata in maledizione seguita dal cicalio pettegolo della gente, lo giudicavano un matto, uno fuori di testa, diremmo oggi un disadattato. E venne un giorno che Agatina non ce la fece più a sopportare, dopo averlo chiamato, richiamato invano, sfinita, le sfuggì dalle labbra questo maleficio: “visto che ami i pesci più dei tuoi genitori, spero che diventi pesce anche tu!” ma da quel giorno non lo vide più. Si dice che consumata dal dolore finì col morire di crepacuore consunta come un moccoletto.
Frattanto la pelle di Cola s’era ricoperta di squame, mani e piedi s’erano trasformati in forti pinne anzi il suo corpo era per metà un pesce, era il sirenetto dello stretto. Il mito popolare dell’uomo pesce s’alzò pian piano come un venticello giungendo alle orecchie del re illuminato Federico II, (c’è chi dice dell’altro normanno Ruggero II D’Altavilla), destando curiosità stupita tanto che il monarca chiese d’ incontrarlo. I pescatori dello stretto si fecero segugi in mare ad avvistarlo, una volta colto mentre galleggiava a fior d’acqua gli riferirono del messaggio regale fissando il giorno e il luogo dell’incontro.
Cola andò preciso all’appuntamento col re ch’era sulla prua d’una nave, circondato dalla sua corte di nobili curiosi e principesse, una fra queste era uno schianto,  talmente bella all’apparire da sembrare una fata. Cola ne restò secco,fulminato, mentre lei si sporgeva  ad osservarlo, bionda, due occhi di cristallo, quell’elfa gli regalò un sorriso, fu amore fra loro al primo dardo di Cupido.  Il sovrano furbo se n’avvide, però era lì per altro e volle mettere subito alla prova le qualità natatorie di Nicola buttando a mare una grossa coppa d’oro luccicante: “ Dai, vediamo se la prendi ragazzo ! “. In quel punto il mare era assai profondo, s’ era a metà tra Scilla e Cariddi e l’acque, come sempre erano arrabbiate, ma Cola andò giù come uno stilo, ma a galla, dopo ore, non tornava. Quando il brusio sembrava la nenia delle prèfiche ad un morto, Cola sbucò improvviso, dopo ore, con la coppa in mano riportandola al sovrano. Gli narrò delle ricchezze di flora e fauna che aveva incontrato scendendo adagio nei fondali, riferì però come nel buio pesto avesse intravisto la coppa perché laggiù sembrava ardesse un fuoco che rischiarava la tetra tenebra sottomarina. “E’ il ventre dell’Etna, maestà, che sputa fuoco fino al ribollio dell’acque nello stretto” disse Cola.  Mmmmm, pensò lo svevo, che dice questo matto, un fuoco ch’arde nelle acque, è impossibile, beh riproviamo ancora, ma sì!  Toltasi dal real capo la pesante corona tempestata di gemme la lanciò ad arco in mezzo al mare: “Dai, vediamo allora se mi riporti anche questa, dimmi soprattutto quel che vedi!”. Cola subito s’immerse di nuovo nuotando a più non posso, ma dopo ore ed ore di lui nessuna traccia, il sole tramontò per due giorni, ma al terzo dì resuscitò dall’acqua con la corona in mano. “ Evviva gridò la ciurma dalla nave, eccolo laggiù, vidilu, Colapisci è tornato!” Lu re corse ansimando alla prua, la bella principessa  tirò un sospiro di sollievo dal  profondo del cuore. “A curuna nun si truvavi, Maestà, era finita giù, giù affunnu, nu vortice l’avea inghiottita. Girai tunnu,tunnu la Sicilia senza trovarla. Allora scesi ancora più sotto e vidi tre colonne enormi come giganti, sono loro che reggono l’isola. Ma una ormai è consumata dal fuoco, un’altra è un po’ bruciacchiata, solo una è come nuova. Dentro quel nero di seppia ho rivisto ancora il fuoco, è lui che m’ha permesso di ritrovare la corona, appena in tempo l’ho presa, prima ch’arrivasse una piovra a strozzarmi ”.  “ Non è possibile che il fuoco bruci dentro l’acqua, chissà cosa hai visto, tu racconti fandonie” gli disse Federico. “ Quello ch’ho visto è troppo brutto, sire, mette orrore, laggiù sotto la Sicilia divampano le fiamme”. “ Davvero? Io non ci credo. Allora ti sfido un’altra volta, ritorna a guardar bene figliolo. Forza! E’ un ordine del tuo sovrano”. “ No! Io laggiù non ci torno maestà. Pozzu muriri laggiù pi fondo ”. “ Allora sei un vigliacco! Che diavolo d’uomo sei? Ah non vuoi farlo per me? Allora dimostra se hai coraggio e amore per questa principessa. Va! ripesca questo suo anello finito in fondo al mare”. Il re sfilò il gioiello dall’anulare della muliebre fanciulla  e ratto lo precipitò in acqua.
Cola fu ferito due volte al cuore, lì c’era in ballo il proprio onore oltre al dover d’un cavaliere senza macchia né paura di mostrare il suo amore alla bella principessa, in cuor  suo  un bianco loto era già fiorito. Accettò la sfida e afferrato al volo un sacchetto di lenticchie ch’aveva richiesto, lanciatogli dalla nave, tirò un profondo respiro, poi giù, ancor più giù, s’immerse a capofitto nel mare. O lui o le linticchie dovevano turnari. I giorni passarono invano, l’attesa era grande, chissà cos’era successo là sotto, ma la speranza non moriva mai  finché da prua videro sconsolati  le lenticchie galleggiare, (altri narrano che fu un pezzo di  legno bruciacchiato a ritornare a galla). Di Cola comunque non s’ebbero più notizie da allora, la bianca, vergine mano della principessa restò senza l’anello, una lacrima le cadde, brillò sull’anulare come fosse un diamante. Fu storia antica d’amore e morte, chissà? Ma la leggenda canta che Colapesce sia vivo per reggere con forza la Sicilia al posto di quella maledetta colonna mancante, un telamone dell’isola tranne  per quel momento di stanchezza del 28 dicembre del 1908.
Morale della favola: non l’oro né il potere vinsero la sua libertà infinita, neppure quell’amore ch’era appena sbocciato, Cola gettò la vita per la sua Sicilia. Gli va perdonato quell’attimo di debolezza e se porgiamo l’orecchio ci pare di sentirlo ancora ripetere:
 
“Maestà! ccà sugno,ccà
Maesta ccà sugno ccà.
‘nta lu funnu di lu mari
ca non pozzu cchiù turnari
vui priati la Madonna
ca riggissi stà culonna
ca sinnò si spezzerà
e la Sicilia sparirà”.
 
Speriamo non si stanchi.
PS. Questo mio testo è una libera reinterpretazione di una leggenda siciliana del XII secolo che ha diverse versioni popolari.
 
 
foto: Renato Guttuso, Il mito di Colapesce,1985
 
 
 

 
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