Giovanni Teresi recensisce "Nel labirinto, nel deserto" di Tommaso Romano (Ed. Plumelia)

 

 

È l’assenza del limite, concetto fondamentale e necessario all’orientamento dell’uomo, che rende la rete insidiosa. La versione contemporanea del labirinto è ormai giunta allo status di cosmogramma universale di un mondo estremamente complesso e mutevole.  L’uomo ha spostato, ridefinito e infine abbandonato molti dei suoi limiti, si è impegnato a relativizzare differenze e distinzioni per rendere ugualmente valide le tante alternative che la vita gli presenta, però, resta da chiarire se l’emancipazione dal dilemma della scelta lo abbia davvero liberato o non l’abbia ridotto a uno stato di prostrazione permanente, dalla quale potrebbe uscire solo con un gesto coraggioso: creandosi egli stesso dei limiti per riappropriarsi di un destino.

Sempre alla ricerca di significativi simboli, Tommaso Romano “Nel labirinto, nel deserto”, 18 momenti per un poemetto, trae con tristezza il suo cammino nella miseria dell’odierna quotidianità, alla ricerca, fra l’afasia e i falsi inganni, fra foglie vive e morte, di un nuovo orientamento per uscire dal disordine labirintico del mondo.
 
“ … in verità fu oblio
alla prova del cammino,
delle visioni allucinate
per subito tentare di evadere
al groviglio di sterpi
che anche quel labirinto
proponeva senza pietà
a stare sempre in piedi
senza riposo, …
 
E qual è il precipuo problema che si pone a chi entra in un labirinto? Orientarsi, riuscire a conoscere il suo segreto per poi poterne uscire e trovare la nuova via.
 
E fu estate
inondata spirale
prologo a nuovi autunni terrei
per cicli senza fine.”
“E i mesi transitarono implacabili
e con l’autunno
sì assaporò la luminosità fioca
notte novembrina
a lambire anima e corpo …”
 
Non solo il presente e il passato ma anche il futuro risulta privato di speranze o aspirazioni poiché anche queste vengono sacrificate all’interminabile e inarrestabile espansione di quel labirinto nel quale l’uomo e il poeta si sono avventurati e ne hanno constatato l’infinità.
 
Il Nostro preso dalla nostalgia che assale dolcemente/ d’altri e migliori tempi d’armonia/ strappati da un giuramento ingiusto, calato nella monotonia dei giorni, cerca rinnovati respiri:
Fu la fedeltà paziente a scrutare il mare/ contemplare a cielo aperto/ la scia delle stelle/ negare l’arsura, / a far vagabondare fra viali sconnessi/ insinuanti al sembrar precludere …
 
La complessità della finzione del Nostro riporta a un mondo immaginario del passato, un universo-biblioteca, un labirinto infinito: un macrocosmo inventato in cui l’uomo vive nelle sue gallerie esagonali:
“ … riposta in un cassetto a chiave persa/ o adagiata finemente/ su una mensola/ a liberarsi nelle astratte/ cromie dei cieli/ o fra gli scaffali/ che accolsero venerate/ pagine di versi e narrazioni …/
La metafora della biblioteca di Borges è utilizzata per rappresentare l’universo e per delineare i rapporti tra finitezza e immortalità. La biblioteca presenta così una struttura essenzialmente labirintica, metafora globale di un mondo come libro e come labirinto di cui è impregnata la cultura moderna.
Inoltre, alla confluenza tra le strettoie del cammino, a sacrificio e alla contraddittoria vastità del deserto, Tommaso Romano pone termini e allegorie che concretizzano la volontà di sfuggire alle malie di una modernità tecnocratica ove si acuisce appunto quel labirinto di anima e corpo/ a invocare sperdute bussole/ d’orientamento/ …/.
“ … altro fu scrivere, leggere/ di selve oscure e labirinti borgesiani/ altro fu il trovarsi come ingabbiati./ Impigliati.”
“ Poi un varco assai angusto/ che ingannava proemio di libertà/ e, ancora, invece canne di bambù/ natura naturata fra fitta boscaglia senza geometrie.”
 
Così, nella fatica imposta dalla ricerca d’un orizzonte e dall’affanno prodotto dallo spargimento dei pensieri, al Nostro affiora la possibilità di un varco luminoso che riscatti l’agognato approdo.
“… Tanto era ingiusto, / ancora albergando nel limbo, / a scontare in limite/ ciò che non pareva inferno/ né designata sorte.”
 
“… immersa nella trama/ inestricabile, arcana/ come ogni cosa/ che si avviluppa/ e non si scioglie/ …/ l speranza ammirata/ si manifestava lieve lo sguardo/…/”
 
«Non andartene, resta con noi, altrimenti l’antica e tetra malinconia potrebbe ancora assalirci»: così parla a Zarathustra la sua ombra, tra le figlie del deserto. Antica e tetra malinconia è il deserto, ma da esso un’aria serena, arcana e pronta a svelarsi ci può sorprendere.
E come il miraggio in un deserto, Tommaso Romano annota: “ … il silenzio gravido/ … in verità fu oblio alla prova del cammino,/ delle visioni allucinate/ per subito tentare di evadere/ al groviglio degli sterpi/…/
 
Ed ecco che:
“Una rossa farfalla perdurò in effigie/ a rammentare il tempo che fu, senza usure, senza ricambi.”
 
L’Io inizia veramente a sapere nel momento in cui inizia a accompagnarsi alle immagini.Tale sapere non può certo accampare pretese sovrane, perché, non diversamente dallo spirito, le immagini vengono e le immagini vanno.
L’interiorità del Nostro, come si delinea da Agostino a Montaigne, da Petrarca a Proust, da Pascal a Leopardi fino alle scritture narrative e poetiche del Novecento, è il tempo-spazio di una conoscenza di sé che muove dall’interrogazione del mondo, dallo sguardo sul mondo, e ha nel “tu”, nel riconoscimento dell’altro. Percorrere i versi di Tommaso Romano è il definire di alcune figure dell’antico invito a conoscere se stessi e della cura di sé, così come  il raccoglimento, osservato in rapporto alla scrittura narrativa e poetica, la riflessione sull’amore, il nesso tra cosmografie interiori e cosmografie celesti, le varianti del monologo, la sfida dell’autoritratto nell’arte figurativa e il suo scacco dinanzi alla somiglianza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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