“Dietro la crisi della scuola. A fallire è il “progressismo” educativo” di Mario Bozzi Sentieri

Gli esiti delle prove Invalsi (l’ente di valutazione del sistema scolastico), ora estese anche all’ultimo anno degli istituti superiori, ci hanno consegnato un’immagine disastrosa della Scuola italiana: uno studente su tre non comprende un testo, in Matematica le difficoltà interessano il 28 per cento dei ragazzi delle elementari, non va meglio per la lingua inglese.
Cercando di individuare le cause del sostanziale fallimento del nostro sistema scolastico, molti commentatori hanno dato risposte tecnico/gestionali ed economico/territoriali: da un lato il corpo docente demotivato, l’eccessiva burocrazia, gli scarsi incentivi di carriera, dall’altro la crisi economica, i tagli dei bilanci, i bassi stipendi, le differenze territoriali nord-sud, determinate da ritardi storici e dal disinteresse delle famiglie. Tutto vero e comunque parzialmente vero.
A ben guardare, questo insieme di “ragioni” rappresenta la classica punta d’iceberg, l’apice di un processo involutivo che, negli ultimi cinquant’anni, ha culturalmente  svuotato la Scuola italiana ed il nostro sistema educativo. I veri responsabili dei risultati Invalsi, che tanto scalpore hanno provocato, sono insomma coloro che hanno assecondato il processo involutivo.
A riconoscerlo, ora, sono proprio quegli ambienti che  certe forme culturali hanno condiviso ed esaltato, in esse vedendo il massimo dell’innovazione, il segno di un progressismo culturale destinato a rivoluzionare non solo la Scuola ma l’insieme dei rapporti sociali, economici e politici del Paese.
Lo ha riconosciuto, su “la Repubblica”, Silvia Ronchey, la quale ha fissato, con non comune anticonformismo, i tratti essenziali della parabola involutiva della Scuola italiana: una falsa idea di cultura democratica; l’idea di una conseguente “educazione linguistica” impegnata a limitare il numero dei vocaboli; la lotta al nozionismo; la sostanziale messa al bando dei romanzi “borghesi” e dei classici; l’illusione che l’accesso al sapere aperto a tutti significasse il possesso diffuso della cultura.
Il risultato di questo processo culturale, politicamente etichettabile come “progressista”, sta alla base del crollo del nostro sistema educativo: “Non si sa apprendere e non si sa leggere – scrive Silvia Ronchey – ma si crede di sapere e di sapere scrivere”.
L’analisi della Ronchey, ordinaria di Civiltà bizantina nel Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di RomaTre, non fa sconti a nessuno. Ciò che stupisce è che queste critiche vengano pubblicate da un quotidiano, che è sostanzialmente l’organo ufficiale della cultura laico/progressista, erede del sessantottismo,  originariamente ondeggiante tra la sinistra extraparlamentare ed il riformismo socialista, in sostanza il brodo di coltura  in cui è venuta a maturare la crisi della Scuola italiana.
Siamo ovviamente ben  lieti che proprio coloro che hanno voluto e favorito certi “processi involutivi” aprano ora  alle analisi “reazionarie”, ma realistiche, sviluppate dalla Ronchey. La speranza è che dalle denunce si passi ai fatti, dalle prese d’atto alle contromisure. Magari riconsiderando le critiche di quanti, su versanti opposti, certe analisi  le avevano sviluppate nel vivo del confronto ideologico/pedagogico, restando purtroppo inascoltati.
Pensiamo alla battaglia di Ettore Paratore in difesa della cultura classica; ritroviamo le denunce di Quirino Principe, che con il suo “Vita e morte della Scuola”, pubblicato nel 1970, colpiva i miti di una cultura “progressista” che identificava il “migliore” con il “moderno”, la “qualità” con il “successo”, il “vero” con l’”utile”; rivalutiamo le intuizioni di Michele Federico Sciacca che vedeva nella Scuola “l’organismo destinato a far incontrare educatore ed educando: in essa, il discente trova il clima adatto per l’integrale e positiva attuazione ed espansione della sua personalità e il maestro, insegnando, continua a formare se stesso”; ripartiamo dalle puntualizzazioni di Primo Siena, che, in premessa a “Scuola del malessere”, pubblicato nel 1983, così fotografava la realtà della Scuola italiana: “L’analisi diagnostica del ‘male oscuro’, che corrompe i tessuti della nostra scuola si estende alla ‘rivolta contro la famiglia’ conseguita alla teorizzazione di una ‘cultura senza padre’, alla diffusione delle grammatiche strutturaliste fatta allo scopo di seminare la ‘confusione dei linguaggi’, all’applicazione di criteri di valutazione che abolendo i voti in nome di incerti ed evanescenti ‘giudizi’ soggettivi, hanno favorito l’avvio di una scuola ‘antimeritocratica’, tesa alla formazione del gregario massificato: l’uomo a una dimensione di Marcuse, contro l’uomo libero e responsabile di San Tommaso, di Vico e di Rosmini”.
Al peggio – come si dice – non c’è mai fine, ma prendere atto della realtà è doveroso. Non solo per il bene delle giovani  generazioni e della Scuola italiana  quanto soprattutto per il futuro del nostro Paese. Se le strade fin qui percorse hanno dato i risultati che abbiamo visto, cambiare rotta è doveroso, facendo tesoro degli errori fin qui commessi e delle intuizioni di chi aveva colto l’essenza di un processo degenerativo ed aveva individuato le doverose contromisure. In fondo non c’è nulla da inventare. Basta volerlo.
 
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