Un particolare incontro con Ignazio Buttitta

 di Nicola Romano - Era il novembre del 1988. In territorio di Bagheria, e più precisamente nel litorale marino che dall’Aspra porta a Santa Flavia, insieme ad un collega effettuavo dei rilievi topografici per conto del Catasto di Palermo al fine di stabilire eventuali occupazioni sulla fascia demaniale da parte di privati sia con le costruzioni che con le relative pertinenze (terrazze, cortili, scale di accesso al mare, ecc.), praticamente un lavoro quasi millimetrico e comunque un mestiere al quale eravamo tecnicamente abituati. Quel giorno finimmo una parte del nostro lavoro intorno a mezzogiorno, lanciare un’altra stazione di rilievo ci avrebbe fatto sbordare dal nostro orario di servizio, ritornare in ufficio non ci andava per niente all’idea, e allora decidemmo di prendercela con comodo, magari sorbendo di ritorno un caffè nella tranquilla ed amena piazzetta dell’Aspra. Mentre il nostro ausiliario caricava le strumentazioni sull’auto, mi accorsi che eravamo proprio di fronte al numero civico 24 della Via Mongerbino, e allora dissi al mio collega, ancora attuale e fraterno amico: “Vieni, ti faccio conoscere un grande personaggio, vanto della nostra Sicilia”. Il cancello quasi perpendicolare alla strada era aperto, imboccammo una discreta salita che curvando sotto un albero di gelsi ci portò dinanzi ad una vetrata semiaperta, il cui riverbero non ci faceva vedere oltre, ci perveniva soltanto un ticchettìo.

Alla mia richiesta “c’è permesso?” una voce rispose “Trasìti”. Ignazio Buttitta era seduto alla sua macchina da scrivere, e la qual cosa ci fece vergognosamente capire che sicuramente stavamo disturbando, ma ormai era fatta. Pur essendoci visti alcune volte in varie sedi siciliane e pur avendo beneficiato di simpatiche dediche su alcuni suoi libri, non accennavo rispettosamente a tanta confidenza, sia per il mio carattere discreto e sia perché, lo confesso, timorato dalla sua levatura poetica. Purtuttavia ci mise a nostro agio, rivolgendoci l’ulteriore invito “Assittàtivi”

Scambiato qualche convenevole, il Maestro chiese subito alla moglie Angelina di preparare un buon caffè. Però egli rimase sempre seduto davanti alla sua macchina da scrivere, trafficando con un foglio che usciva dal rullo e che reinseriva dopo avere sbianchettato abbondantemente qualcosa. Mi colpì la ripetizione continua di tale operazione e compresi che, se era una sua composizione, questa lo stava facendo soffrire, e quindi alternammo anche dei momenti di silenzio per non turbare il suo pensiero in corso. Intanto il leva e metti continuava, tanto che col collega ci scambiavamo degli sguardi incuriositi.

Dopo avere bevuto il caffè, preparavo opportunamente una frase che desse inizio ad un necessario accomiatamento, e allora chiesi al poeta: “Che sta facendo di bello, maestro?” Lui non mi rispose, visibilmente infastidito per i fatti suoi all’improvviso tolse energicamente il foglio con la mano destra facendo scorrere d’un botto il rullo, e porgendomi il foglio mi disse: “Tè ccà, pigghiatìlla”. Rimasi colto da sorpresa, il dono era evidentemente prezioso anche se intimamente ritenevo che mi stesse omaggiando di una bozza, di un testo per lui sicuramente non riuscito, e senza neanche leggerlo gli chiesi di completare la sua cortesia apponendo la firma, cosa che egli gentilmente fece, inserendovi anche la data. Non certamente a mo’ di ricambio, ma approfittando della nostra casuale presenza di funzionari catastali, poi mi allungò anche un biglietto su cui aveva scritto: “Al catasto, chi nesci a nomu di Angelina Isaia e Ignazio Buttitta”. Certamente, anche la lista della spesa lui redigeva in dialetto siciliano!

Dopo i dovuti ringraziamenti, i saluti e gli auguri, scendemmo verso la Via Mongerbino. In auto, con grande curiosità e con tanta emozione aprii quel foglio in cui era dattiloscritta una poesia, ancora senza titolo, di venti versi brevi di cui otto sbianchettati più volte e con successive riscritture, rivelando una vera e propria fucina di lavoro, un «labor limae» davvero frenetico e forse ancora incompleto:

 

U futuru è un direttu

senza stazioni di firmata

e non ricivi ordini

e cumanni di nuddu.

 

È ummira, è scuru:

u lustru a cu lu voli

ci lu dunanu i granni

chi hannu ciriveddu e curaggiu:

ci lu dunanu

i Capi stazioni saggi

cu a vista longa

e i pueti

cu luminusi raggi.

 

U direttu po’ firmari, è storia d’oggi,

quannu l’omini gnuranti

perdinu a mimoria

e ammuttanu nn’arreri u trenu,

è tannu

chi a carta da spiranza

non è chiù sicura.

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