“Totò o della sfiducia nei confronti della storia” di Lorenzo Fabris

Charles Baudelaire scriveva di Edgar Allan Poe e Joseph De Maistre che gli avevano insegnato a pensare. Noi, che pure conosciamo l’opera del conte savoiardo e ci siamo a lungo nutriti delle suggestioni gotiche dello scrittore americano, abbiamo però maturato molte delle nostre consapevolezze e suggestioni grazie a un altro grande artista, il principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Possiamo dirlo: Antonio de Curtis-Totò ci ha insegnato a pensare, certo insieme a tanti altri che con la loro vita hanno attraversato la nostra. Non si equivochi circa il trattino posto tra il nome di battesimo (Antonio) e la maschera (Totò) poiché quel trattino è voluto e chiarisce che tra l’uomo Antonio de Curtis e il personaggio Totò non vi è distanza, bensì continuità. In qualche modo, insomma, de Curtis è Totò e Totò è de Curtis.  Queste riflessioni ci accompagnano nella lettura del libro di Emilio Gentile “Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò” edito recentemente da Laterza e che va ad aggiungersi alla sterminata bibliografia già esistente sull’attore napoletano. E però il libro di Gentile, che di mestiere fa lo storico e negli anni si è occupato soprattutto dei totalitarismi del Novecento, ha un pregio che allo stesso tempo è una novità. Contro le interpretazioni che vedono un caso evidente di sdoppiamento tra de Curtis e Totò, una situazione insomma in cui uomo e personaggio sono distinti e distinti vanno considerati, Gentile rivendica con convinzione l’idea esattamente opposta, ovvero che il principe de Curtis abbia utilizzato il personaggio Totò per esprimere la sua visione dell’uomo e della storia, per raccontare il mondo come lui lo vedeva. Di quale visione del mondo qui si parli lo si vedrà tra poco, per il momento basti dire che l’ipotesi di Gentile è decisamente inedita eppur fondata sulla stessa vita e sulle opere del principe partenopeo. E certo, Gentile lo fa notare già nel prologo del libro, “Forse nessun altro attore comico ha tanto insistito, come il principe de Curtis, a mettere in risalto la «differenza abissale» che vi era fra l’uomo e l’attore”. Una bella intervista televisiva di Lello Bersani, mandata in onda dalla Rai nel 1963 e recuperabile oggi su You tube, risulta particolarmente esaustiva nel mettere in luce quanto affermato da Gentile. De Curtis, conversando con il giornalista, chiarisce che tra lui e Totò “c’è una grande differenza. Io sono de Curtis, lui è Totò. Lui fa il pagliaccio, il buffone…è un attore. Io sono una persona perbene”. La critica si è ben presto appiattita su una teoria, quella dello sdoppiamento appunto, che pareva insomma fatta propria innanzitutto dallo stesso de Curtis ed è per questo motivo che il libro di Gentile si propone come una novità. Secondo lo storico infatti, “(…) considerando la concezione dell’umorismo esposta da Antonio, è evidente che Totò altro non è che lo stesso Antonio, il quale si serve dei personaggi di Totò per rappresentare la sua visione della vita e della Storia”. Il punto di partenza di Gentile è la breve autobiografia che il principe pubblica nel 1952 e che porta il titolo “Siamo uomini o caporali?”. È in essa infatti che per la prima volta de Curtis enuncia una teoria tanto semplice quanto affascinante, dal momento che, come spiega lo stesso principe, proprio la domanda che dà il titolo al libro racchiude tutto il rancore di un uomo verso coloro che “muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri con un atteggiamento da piccoli Ezzellini da Romano”. La breve autobiografia non dedica invero molto spazio a illustrare il significato della frase in questione, contenendo più che altro il racconto di episodi di vita, una raccolta di poesie e alcuni brani tratti dal teatro di rivista. Nel 1955 esce però nelle sale cinematografiche “Siamo uomini o caporali” (questa volta senza il punto di domanda) ed è proprio all’interno di questo film che de Curtis illustra in modo definitivo la visione del mondo abbozzata precedentemente nell’autobiografia. Nel film Totò finisce in manicomio  per aver aggredito un capocomparse di Cinecittà (il grande Paolo Stoppa) che lo ha più volte minacciato e insultato. Rivolgendosi allo psichiatra che deve visitarlo per appurare se sia o meno un folle, Totò pronuncia questo breve monologo:

“Dottore, le spiego. L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa. A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

 Sette anni dopo aver enunciato la propria teoria, de Curtis la ribadisce nel corso di un’intervista rilasciata a Oriana Fallaci  e anch’essa riportata nel libro di Gentile. La giornalista gli chiede quando e da dove nasca questo odio contro i caporali e de Curtis risponde: “Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti”. Alcune righe autobiografiche, il monologo di un film, qualche intervista: non vi è di più e però possiamo dire che di più non occorra. In cosa si riassume dunque questa visione del mondo, questa contrapposizione tra uomini e caporali che, sia chiaro, va presa per quello che è, ovvero una griglia interpretativa utilizzata da de Curits per muoversi nel vasto mare della vita? In una parola si potrebbe dire: pessimismo, mancanza di fiducia negli esseri umani e nella storia. E infatti come sottolinea più volte Gentile, il principe, nel delineare questa distinzione in seno all’umanità tra uomini e caporali fa sua una concezione decisamente pessimistica dell’uomo e della storia. Caporali insomma si nasce e non si diventa (e per verificarlo basterebbe del resto soffermarsi a osservare la cattiveria al limite del sadismo che spesso i bambini manifestano nei confronti dei propri coetanei più mansueti). Ecco allora che secondo Gentile apparterrebbero alla categoria degli uomini i personaggi interpretati da Totò in Guardie e ladri, Dov’è la libertà…?, Una di quelle, Il più comico spettacolo del mondo, L’oro di Napoli, Totò e i re di Roma, La banda degli onesti, Totò e Marcellino, Risate di gioia, Lo smemorato di Collegno. Apparterrebbero invece alla categoria dei caporali altri personaggi interpretati in film come Totò le Mokò, 47 morto che parla, Totò, Peppino e la Malafemmena, Totò nella luna. In definitiva, scrive Gentile, “La storia secondo Totò è la Storia secondo Antonio recitata da Totò attraverso i personaggi di cui Antonio, di volta in volta, si è servito per incarnare un tipo umano, che viveva una situazione comica originata però dalla tragedia della vita, nella perpetua lotta dell’uomo con il Destino e il Caso.  Le medesime considerazioni si ritrovano inoltre in numerose poesie scritte da de Curtis nel corso degli anni, da Chi è ‘ll’ommo alla famosissima ‘ A livella.

Questo in breve il contenuto del libro di Gentile, che ovviamente offre di più, soffermandosi su vari episodi della biografia di de Curtis, sui suoi rapporti con il potere, sulle sue vicende professionali e sui suoi amori. Condividiamo l’impostazione di Gentile, la sua ipotesi di partenza ci convince e però vorremmo aggiungere ancora qualcosa a conclusione di questo breve scritto. Ci interessa soprattutto ribadire che la teoria formulata da de Curtis nel corso degli anni ’50 è di carattere squisitamente esistenziale e non ha nulla di politico. Essa si fonda sull’osservazione degli uomini e non su una qualche ideologia. Proprio in questo, a nostro avviso, de Curtis è un grande: come ogni artista, e a differenza di quanto fa l’ideologo, egli osserva il mondo e le persone cogliendone gli aspetti più contraddittori e le sfumature per farne materia della propria arte. Totò fa ridere nei suoi quasi cento film, fa sbellicare con le sue trovate geniali, le sue mosse, le sue battute eppure sempre è in grado anche di instillare una goccia di malinconica consapevolezza circa il destino di ogni essere umano. I personaggi interpretati da Totò destabilizzano le false certezze, irridono i presuntuosi, prendono in giro i seriosi e però, per così dire, ci sussurrano all’orecchio che questo è il mondo, che questa è la vita ed è sciocco pensare di cambiare la sorte degli esseri umani. Gentile parla di “disincantato realismo” e cita a proposito le parole di Mario Soldati: “Se analizziamo più attentamente ancora l’arte di Totò, ci accorgiamo che egli tendeva a smascherare non soltanto i conformismi e le ipocrisie contemporanee; ma che, più in profondo, tendeva a deridere ogni illusione sul significato ultimo che, in ogni epoca, viene attribuito alla vita: tendeva a ricordare la fatale fine comune, la vanità di tutte le vanità, la fondamentale amarezza del nostro destino”. Proprio da questo dipende del resto il disprezzo che gli intellettuali politicizzati e gli scrittori engagé hanno a lungo riservato ai film di Totò. Come si poteva apprezzare negli anni cinquanta e sessanta del secolo appena trascorso un attore che mostrava chiaramente di non nutrire alcuna fiducia nel progresso, di non credere nella naturale bontà dell’uomo, di non riporre alcuna speranza nell’avvento di una società di liberi e uguali?  Si aggiunga a questo l’atteggiamento di fierezza con cui il principe de Curtis dichiarava nel bel mezzo degli anni sessanta: “Io sono un uomo all’antica. Io appartengo al secolo scorso, anzi, che dico? al secolo delle crociate. Il mondo moderno, il mondo d’oggi per me non c’è. Non esiste. Non lo vedo. Non mi piace. Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, l’ossessione, la volgarità, l’arrivismo, la frenesia, le brutte maniere, la mancanza di rispetto per le tradizioni, le stupide scoperte. Per questo vivo per conto mio, in un mondo mio, da isolato. Un mondo per bene. Lavoro, torno a casa e mi chiudo qui dentro”. Decisamente troppo per un’epoca in cui l’impegno politico era tutto e tutti gli sforzi dovevano essere dedicati all’edificazione di una società nuova. E allora ecco che ha ragione Gentile quando, a conclusione del suo libro scrive che un solo ismo si potrebbe applicare a de Curtis- Totò, quello del «qoheletismo» dove il riferimento è al sapiente biblico Qohélet per il quale “Vanità della vanità, tutto è vanità. Tutto dipende dal destino e dal caso. Una è la sorte per i figli dell’uomo e per le bestie: la morte. Tutto va a un’unica fossa”.

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.