“Tempo Dorato” di Tommaso Romano, le ragioni di un bilancio - di Maria Nivea Zagarella

Le lievi narrazioni, lacerti imperiosi della memoria, che compongono i brevi capitoli del libro Tempo dorato di Tommaso Romano, edito nel 2014, si articolano contemporaneamente su piani diversi. Quello privato, personale, del ritorno memoriale dell’autore alla propria educazione sentimentale; quello municipale, pubblico, di una Palermo molto amata nei suoi spazi fisici, urbanistici, architettonici, ma in progressiva, negativa, trasformazione dall’avvio degli anni Sessanta; quello collettivo, generazionale e più universale, di una contemporaneità che pare “abitare” -come si legge nella Premessa più lirica che descrittiva di mano dello stesso Tommaso Romano- le rovine mortifere del nulla, sussiste cioè squallidamente spoglia di dialettica sociale e ideologica, in preda a pochi usurai planetari di denaro e di anime. L’urgenza del “dire”, più che nell’affiorare automaticamente imperioso del passato, sta nella “rabbia” (alla Giovenale) di un “presente” che registra tante, troppe, cadute, troppi vuoti e perciò “incalzato” da un ineludibile, superiore imperativo etico a interrogarvi le radici di sé, a tentarne il disvelamento/discernimento. Quando la cesura? E verso quale, ammesso sia ancora possibile,  “risveglio”?  A un viaggio dunque invita l’autobiografismo di Tempo dorato, un viaggio, passo dopo passo, del lettore a fianco dell’autore, non in impossibile identità sociale (medio-alta è la condizione di chi scrive), e neanche culturale (molto vasta, sottile, raffinata la sua cultura), o tanto meno ideologicamente monocromatica (l’ottica è qui di amareggiato conservatorismo), quanto invece in umanissima libertà di intenti, per rivivificare soggettivamente il pensiero e andare (volendolo) verso nuovi equilibri dell’esistere fra tradizione -specie se vitale- da non disperdere e innovazione da affrontare. Stilema ricorrente esplicito (o implicito) dell’io narrante è infatti l’affermazione: “ho fatto in tempo a…” come a perentoriamente siglare un prima e un dopo, alias eventi storicamente spartiacque fra una “ricostruzione” capace di esplicarsi negli anni Cinquanta, dopo il caos e i traumi della guerra e gli errori del regime (le inumane leggi razziali -dice il padre dello scrittore- e l’alleanza sciagurata con l’alemanno), secondo le linee di un ritorno al decoro/rigore e a certezze solide, e una fase invece progressiva di crescente crisi civile e morale culminata nel tristemente -annota Romano- famoso ’68 con i suoi prodromi e seguito. Nato nel 1955 il ragazzo Tommaso, entro i confini dei suoi 13 anni, ha fatto in tempo a vedere, anzi a imprimersi dentro le falde dell’anima, grazie al padre Ignazio, avvocato e ispettore della Motorizzazione civile, che gli faceva fare salutistiche passeggiate fino al Giardino inglese, la Palermo liberty di via Roma e di viale Libertà con il floreale tripudio dei villini dell’art nouveau, prima del grande scempio edilizio che avrebbe cancellato opere dei vari Basile, Armò, Caronia Roberti e la grazia del verde di giardini curati un tempo con l’attenzione dell’arte. Prima che -commenta l’adulto- la mafia degli appalti, della arroganza incolta si mischiasse ai parvenu perversi della politica e della finanza e dilagassero malaffare e delitti eccellenti. Ha fatto in tempo a godere dal palco di famiglia lo “splendore” del Teatro Massimo, prima di quella lunga chiusura (più di un ventennio) che avrebbe procurato alla città ferite morali e materiali più profonde della guerra mondiale. E analogamente ha potuto fruire in estate, secondo la cara formula in uso in famiglia, dei bagni della salute e dello iodio a Romagnolo, il litorale raffigurato dai pittori paesaggisti dell’800, ancora con i suoi antichi stabilimenti e i famosi ristoranti Spanò, caro a Greta Garbo, Renato, Santopalato, prima dell’inquinamento e dell’abbandono, e dell’agonia dello stesso Foro Italico sacro al gelato da consumare nella -decaduta pure essa poi- gelateria Ilardo. Ha fatto anche il dodicenne, nel 1962, l’esperienza della Prima Comunione preparata seriamente sul catechismo di san Pio X con le sue chiare e nette formule di fede, e ricevuta durante una delle ultime messe in latino, prima -si legge- della ruvidezza semplificatrice e semplicistica del Vaticano II che le avrebbe relegate a occasioni rare per inguaribili passatisti, esteti di un tempo e di una fede. Il bilancio come si vede è costantemente collettivo e privato nel rimando continuo fra presente e passato, e vale anche per l’emblematico ’68 che ha portato a Palermo alla pari che altrove gli opposti estremismi violenti, droghe e miserie morali scardinanti, devastanti. Ma osserva l’io narrante i “difensori” del proletariato erano in realtà dei piccoli borghesi in versione pararivoluzionaria. Tutto si sarebbe presto normalizzato, imborghesito e il grande sogno giovanneo della pace involuto a scadenti piattini/souvenir della triade Kruscev Giovanni XXIII Kennedy di contro alle resistenti realtà dei gulag sovietici e degli stermini del grande timoniere cinese. Il tredicenne Tommaso, entrato ormai al liceo Galileo Galilei, si ritrova sulla sponda opposta a Marx, a Mao, ai guerriglieri sudamericani, con tutto il bagaglio di passioni personali maturate fin da bambino e i “suoi” nuovi amori (l’estremismo di destra della Giovane Italia, il futurismo, l’arte, la poesia, Nietzsche, “Uomini e rovine” di Evola), prossimo a “perdere” l’infanzia, la” sua” mitica età dell’oro, per entrare nell’agone “reale” della vita e della politica, affrontando fino in fondo il difficile mestiere di uomo. L’infanzia più volte definita nelle pagine “serena“, “spensierata”, o “sfavillante”, nella quale maturano precocemente le vocazioni e le scelte del futuro intellettuale, professore, scrittore/poeta, collezionista, editore, organizzatore culturale, oltre che attivissimo uomo politico nella sua provincia e in città Tommaso Romano, l’infanzia -dicevo- ha come fulcro e sfondo primario la “famiglia” (e l’ampio parentado): nucleo affettivo-valoriale innanzitutto, saldo, caldo, culturalmente stimolante, sia nelle figure minori, anche se poi non tanto “minori“, sia nelle figure genitoriali; ma anche coinvolgente “microcosmo” sociale e ideale per “l’aura” storica antica e la temperie politica recente. Epici definisce l’autore gli “spicchi” d’estate vissuti fra giochi e gelsi centenari nella campagna paterna di Muffoletto, ex Colonia Agricola del Beato Giacomo Cusmano, con la nonna Maria e la zia Giannina sorella del padre, pittrice delicata della scuola di Luigi Di Giovanni, che gli trasmise l’amore per l’arte e la pittura, e le cui “lezioni” proseguivano poi nella sua casa-giardino a Corso Calatafimi; un esempio di vita e di saggezza lo zio Orazio, fratello della madre; esuberante, appassionata la zia Maria, attrice indefessa del teatro amatoriale palermitano sviluppatosi fra le due guerre, guardata dai piccoli Tommaso e Marinella come una star holliwoodiana; gioiosi e/o luculliani i pranzi parentali, al mare, in campagna, a Natale con gli immancabili buccellati di casa Romano. Ancora intatti nel gusto/ricordo -sottolinea l’io narrante- affiorano quei sapori fanciulli, quei sapori antichi legati anche alle soste, durante le passeggiate pomeridiane con la madre e la sorella Marinella o durante quelle con il padre, “insaporite” da dolci, gelati, spuntini salati consumati nelle pasticcerie storiche di Palermo, come il gelato di caffè verace nel noto Caffè Mazzara frequentato da Tomasi di Lampedusa. Le figure soprattutto del padre Ignazio e della madre Cecilia fanno da filtro e supporto alla formazione e socializzazione del bimbo e dell’adolescente Tommaso fra tabelle di marcia implacabili (come l’olio di fegato di merluzzo) e spazi relativi di libertà: le prolungate ad esempio divergenze fra il padre risorgimentalista e un po’ fanatico di Garibaldi e il figlio invece, fin da ragazzo, borbonico e critico della malaunità; il figlio tifoso accompagnato allo stadio da un padre che, disinteressato al calcio, sugli spalti sprofonda nella lettura della Domenica del corriere, e che con la stessa benevolenza (e disinteresse) ne asseconderà pure la voglia di dipingere e ne finanzierà l’organizzazione di mostre a meno di 13 anni. Scorreva impetuoso -commenta l’io narrante- il fiume della fanciullezza con divenire incosciente e giocoso e con pieno -alla Leopardi- spargimento di cuore! Dei genitori lo scrittore ricorda con entusiasmo l’organizzazione ogni estate del viaggio in treno di un mese che permetteva ai figli di scorazzare, utilmente per la conoscenza, attraverso città e borghi d’Italia e d’Europa con sosta finale in una località italiana di montagna. E della madre rievoca il rito gioioso delle visite quotidiane pomeridiane con al seguito lui e la sorella, coinvolti in quei pellegrinaggi/iniziazione per la città verso la casa di parenti, amici e vicini (spesso vedove, zitelle, famiglie patriarcali di medici e avvocati), talvolta anche presso indigenti e malati, o dal venditore di tappeti e cose antiche, dalla profumiera, in negozi vari (molti non più esistenti), o dalla madre di un musicista di successo o da un onorevole vecchissimo. Una tranquilla routine borghese, in cui rientrano: l’amata scuola elementare “Rosolino Pilo”, seria e formativa, con un maestro rigoroso (anche se troppo), con uno studio continuo, serio, efficace, e scadenze di applicazioni precise nelle quattro ore, nella quale ancora la figura del “maestro“ era in linea con il magistero dei padri, mentre i docenti di oggi sembrano burocrati disorientati al sevizio di teoricismi extrascolatici;  e la “scuola media”, con le prime passioni per la pittura, la lettura onnivora (anche a 38 gradi all’ombra sotto gli ombrelloni di Mondello), e le prime trasgressioni (le nazionali senza filtro, il film proibito ai minori di 14 anni…) fino allo shock/svolta brusca verso la vita adulta del frizzo lanciatogli nel ‘68 da un giovanotto (allongati i cavusi), perché lo ha visto abbracciato con i calzoni ancora corti alla sua fiamma ragazzina di allora. Ma i punti di riferimento ideali sono già tutti abbozzati o in itinere nell’animo del ragazzo Tommaso, perciò può nel ’68 e dal ’68 fare “resistenza” alle mode che si susseguivano, con un misto di ingenuità, di fanatismo, di poesia, di originalità… in minoranza (sic!) orgogliosa e solitaria, pure come scelte musicali (Aznavour, Ferrè). Formativa è già stata infatti per lui anche la frequentazione infantile dei cinematografi del suo quartiere con una scorpacciata di film opportunamente selezionati dal buon senso dei suoi genitori, e perciò adatti ai giovinetti (lui e la sorella): i migliori film all’italiana con i nostri De Sica, Fabrizi, i fratelli De Filippo, Mastroianni, la Loren, la Lollobrigida, la Magnani… e soprattutto Il Gattopardo di Luchino Visconti che fu -afferma Romano- stazione ineludibile per la sua crescita estetica e culturale: scene abbaglianti di eleganza e bellezzacampagne assolate e immense come la sua Muffoletto… lo splendore acerbo e intrigante di Claudia Cardinale… il fascino assoluto del Principe di Salina  divenuto da allora suo archetipo e modello. Una orma identitaria insomma quel film, perfettamente coniugabile, e coniugatasi, con la mitizzazione della “storia” della propria Famiglia, e con la passione politica trasmessagli senza forzatura dal padre, carichi come risultano appunto, da generazioni, di Eccellenze, Ministri plenipotenziari, Giuristi, antichi Legislatori, Giurati e Sindaci borbonici, Amministratori unitari del Regno. A partire dai capostipiti, originari di Positano, Capitani di Torre del Regno di Napoli, passati poi i discendenti in Sicilia nel 1794 con don Ferdinando Salvatore Romano e stabilitisi fra Marineo, la valle dell’Ogliastro e la valle dello Jato. Il quadrisavolo  dell’autore, don Camillo Romano, da sindaco del Regno Borbonico diventa nel 1860 capo storico del Comitato rivoluzionario di Santa Maria dell’Ogliastro, donde l’amore (non condiviso dal figlio) dell’avvocato Ignazio, uomo d’ordine e grave gentiluomo, per Garibaldi di cui teneva un bassorilievo ovale di bronzo nello studio di casa. Poiché il padre, nostalgico del ventennio fascista, cofondatore a Palermo della Fiamma dopo la partecipazione al movimento politico de L’uomo qualunque, è attivamente partecipe a conferenze, comizi, e spettatore attento di tutte le tribune politiche degli anni ’60 in cui si confrontano i laeder politici della Prima Repubblica, il ragazzo Tommaso, che da iscritto nel 1967 alla Giovane Italia, nel 1968 di sua iniziativa si iscriverà alla Gioventù Monarchica (donde la simpatia, nel libro, e il ricordo del bidello-barone irriducibile monarchico e suddito fedelissimo del Re di Maggio Umberto II), viene già a 12 anni impegnandosi a stampare in tipografia giornalini ciclostilati, manifestini, volantini, tessere di gruppi politici da lui fondati. E soprattutto va allenandosi a fare comizietti, imitando i toni ora paternalistici, ora massimalistici, ora melliflui degli uni e degli altri leader, quando ancora erano chiaramente individuabili nel Paese, a differenza di oggi, un centro, una sinistra e una destra. Concludendo, il testo sembra veicolare come messaggio una utopica, illusa (?) nostalgia di valori. Raccontare è raccontarsi, recita il sottotitolo del Tempo Dorato; è “conoscersi” e “riconoscersi” (come ha fatto e fa nei suoi romanzi Tommaso Romano) per andare con determinazione verso il futuro. Perciò equivale a una metafora l’ultimo capitolo del libro sul treno della buona vita, treno che tutti accoglie per il viaggio ulissiaco della Vita, dove ogni arrivo, finché appunto si “vive”, equivale a una nuova partenza.   

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