Storia di un amore platonico La donna angelica dallo "stil novo" alla Vita nuova di Dante

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Beatrice - opera di  Marie Spartali Stillman

 

 

«Io voglio del ver la mia donna laudare»

 

È il tipico sonetto che esprime la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli, in cui la lode della bellezza e della virtù della donna amata si accompagna al valore "salvifico" del suo saluto, che acquista l'importante significato religioso di convertire alla fede cristiana chi non crede in essa. Tra le immagini con cui viene descritta la donna vi sono quelle classiche dei fiori (la rosa, il giglio) e dei corpi celesti, nonché tutte le bellezze del mondo naturale, in maniera analoga al Cantico dei Cantici.

 

















 

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra fé se non la crede;

e no·lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.

 

 

«Lo vostro bel saluto»

 

È, invece, il sonetto della nuova maniera inaugurata da Guinizzetti, in cui tuttavia l’attenzione

non si concentra tanto nella “gentilezza” della donna o sulla lode della sua bellezza,

quanto sugli effetti devastanti che il saluto di lei e l’amore provocano nell’animo del poeta,

 che ne prova sofferenza e ne è quasi ucciso.

Il tema sarà ripreso e ampliato anche dagli Stilnovisti fiorentini, in particolare da Cavalcanti

che farà dell’amore “tragico” uno dei temi fondamentali della scuola.


 

















 

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha reguardo
s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo
ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,
che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende;

remagno como statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende.

 

 

«Tanto gentile e tanto onesta pare»

(Vita nuova, cap. XXVI)

 

 “A Beatrice”è il sonetto più celebre di Dante, nonché il testo tra i più famosi di tutta la poesia lirica delle origini, in cui l'autore semplicemente esprime la lode della bellezza e della virtù di Beatrice e le reazioni di ammirazione che provoca in chi la vede camminare per strada, riprendendo vari motivi propri dello Stilnovo e proseguendo le "nove rime" inaugurate con la canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore" (cap. XIX).  Un altro sonetto che loda Beatrice col dire che, grazie a lei e alla sua umiltà, molte altre donne vengono onorate e ammirate è:Vede perfettamente onne salute …”  [Vita Nuova XXVI 10-13]

 

 

A Beatrice

















 

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi non la prova:

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

 

 

 

 

 
















 

Vede perfettamente onne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che vanno con lei son tenute
di bella grazia a Dio render merzede.

E sua bieltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a l’ altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza, d’amore e di fede.

La vista sua fa onne cosa umile;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.

Ed è ne gli atti suoi tanto gentile,
che nessun la si può recare a mente,
che non sospiri in dolcezza d’amore.

[Vita Nuova XXVI 10-13]   (1)

  1. Dante, nella Vita nuova, attraverso il linguaggio simbolico dei numeri, può comunicare ai lettori che Beatrice non è come un angelo, ma è un angelo; non è un oggetto di meraviglia come se fosse un miracolo, ma è un miracolo. [...]

Beatrice, più che apparire, “opera”.  L’insistenza sugli effetti virtuosi che promanano da lei o dal suo saluto  mira a dare corpo alla dimensione divina del suo personaggio.  E tuttavia le azioni dirette o indirette di questa Beatrice, non dunque quelle topiche della fenomenologia amorosa, ma quelle che si avvicinano al “meraviglioso operare” di una donna angelica, possono essere catalogate sotto un piccolo numero di rubriche:

a) il suo “apparire” e la speranza di riceverne il saluto infondono nell’amante una “fiamma di caritade, la quale gli faceva perdonare a chiunque l’avesse offeso; e chi allora l’avesse domandato di cosa alcuna, la sua risponsione sarebbe stata solamente ‘Amore’ con viso vestito d’umiltade” (XI, 1); l’effetto è lo stesso anche sugli altri: “[...] cui saluta fa tremar lo core, / sì che, bassando il viso, tutto smore, / e d’ogni suo difetto allor sospira: / fugge dinanzi a lei superbia ed ira” (Ne li occhi porta, 4- 7);

b) chi è degno di “vederla” prova su di sé gli effetti della sua virtù: Beatrice, infatti, “l’umilia” [lo rende umile] al punto “ch’ogni offesa oblia” (Donne ch’avete, 40); ma il fenomeno è più generale, dal momento che “la vista sua fa onne cosa umile” (Vede perfettamente onne salute, 8);

          c) Beatrice sbigottisce i cuori villani e in alcuni casi addirittura li trasforma in nobili: “quando va per via / gitta nei cor villani Amore un gelo, / che onne lor pensero agghiaccia e pere; / e qual soffrisse di starla a vedere / diverria nobil cosa, o si morria” (Donne ch’avete, 32-36); nobilita tutto ciò che guarda; “per che si fa gentil ciò che la mira” (Ne li occhi porta, 2); d) chi ha avuto la fortuna di poterle parlare è certo della salvezza: “Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato / che non po’ mal finir chi l’ha parlato” (Donne ch’avete, 41-42).

 In realtà nessuna di quelle categorie può essere considerata un’invenzione dantesca. Al più, si potrebbe dire che la Vita nuova conferisce un ordine e una coerenza ideologica a una serie di immagini, di raffigurazioni e di motivi che  percorre come un grande fiume tutta la lirica romanza. (2)

  1. (M. Santagata, Amate e amanti, figure della lirica amorosa da Dante a Petrarca, il Mulino, Bologna 1999 6).

Quella che in Guinizzelli, nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, era stata solo un’ardita comparazione, ardita sino a sfiorare l’irriverenza nei confronti della divinità diviene per Dante l’intuizione di una verità superiore ed essenziale («Beatrice, loda di Dio vera»). Quella che per Guinizzelli era soltanto una verità ottativa [desiderata] nell’ambito di una suggestiva analogia diviene per Dante una verità ontologica [certezza religiosa], metafisica certezza. Così egli supera quell’insoddisfazione, e quell’inquietudine, che il Guinizzelli non riusciva, tormentandosene, a superare, e che il Cavalcanti, con irritata malinconia, teorizzava pessimisticamente insuperabile.

 

 

 

 

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