Rossella Cerniglia, "Il retaggio dell'ombra" (Ed. Miano)

di Ester Monachino

 

Con una sorellanza cordiale, di quelle che legano i cuori con fili d’erbe invisibili, e ribelle, di quelle ribellioni che riconducono al bello di terra e d’anima, ho seguito la scrittura di Rossella Cerniglia fin dalle sue prime pubblicazioni. Ne ho respirato l’andatura, le evoluzioni, il sotterraneo inoltrarsi in cunicoli di terrestrità odorosi d’humus e speculari all’interiore sentire, e anche gli svoli con tutte le aeriformi famiglie dei pensieri che si sganciano dal piombo della gravità quotidiana  verso metafisici e imponderabili lidi. Un dettato mai frivolo, mai effimero ma sempre inseminazione d’interrogativi, di ricerca per una fruttificazione  responsoriale del senso, del sapere in verità o nelle verità,  per un barlume, un singhiozzo di luci oltre i dubbi. Oltre i silenzi.

Leggendo la raccolta di versi “Il retaggio dell’ombra” , fruttuoso come un paniere di primizie,  ho trovato la radice del dettato nella nota dell’autrice al suo volume “Mito e Eros”: “Tutto è remoto, non restano che quiete e nostalgie. Non restano se non i fantasmi che un tempo bruciarono l’anima, le sirene che incantarono i nostri sensi, i miti cui si ancorava il nostro destino per non sfaldarsi e non precipitare”.

Invero, nella metaforica fluività vitale, le turbolente acque torrentizie non sono che ricordo o forse neppure questo: sono quietissimo e profondo andare nella piena consapevolezza che la foce c’è, comunque sia, qualunque sia.

Il volume si articola in quattro sezioni che, già nella titolazione, sono indicatori di dettato, di tragitto poetico: “Dai margini oscuri”, “Ipogeo della notte”, “Dissonanza dell’ora”, “Paesaggio andante”: una  ben visibile tessitura d’oscure atmosfere dove il piano temporale e d’anima notturni inseguono ombre spesso acquattate ma con barlumi di sprazzi, di guizzi, di impercettibili movimenti verso l'altrove che comunque sussistono, ci sono. Basta cercarli, E trovarli.

 Nell’incipit del volume leggiamo il poemetto a se stante “Apocalypse”, in cinque composizioni, che riconduce al profondo dettato ispiratorio di Rossella Cerniglia, il mitologico. Qui, in un Caos di respiro primordiale, la scrittura biblica giovannea dell’Apocalisse si amalgama con respiri danteschi e mitologici del profondo Averno dandoci il sentore di un dubbio metafisico della materia esistenziale, l’inafferrabilità del suo spazio; tutto questo con un timbro intenso, certamente intellettuale. Qui è “l’assenza di un senso che è smarrito” , e poi “perduta è l’anima/ nelle fumose stanze che simulano la vita”, e ancora “quale sarà l’andare, e per dove – e dove? Chi invertirà la rotta”.  Sembra un luogo  più che labirintico, un locus senza uscita. Ma c’è, l’uscita, anche se camuffata, anche se mascherata o nascosta: nella quarta composizione leggiamo: “a qualcuno devo grazie del verde ramo/ che su me ora si china col vento, voglioso di sfiorarmi”. C’è il movimento  -del vento-,  c’è il contatto  -che esorcizza la solitudine-,  c’è la gratitudine  -che è risposta alla Vita.

Anche la lettura delle quattro sezioni, intrise dello stesso sangue di pensiero e sentire, ci conduce verso uno svelamento del sé e del mondo assolutamente impietoso verso ogni certezza. Sembra che il poeta dia voce e corpo ad una natura esistenziale che non ha la forza dell’amore. Leggiamo: “…ti vedono estraneo/ gli alberi e il cielo/ eternamente grigio/  che passa tra rami e foglie/… gli itinerari di sempre/ sono chiusi in questo recinto/ di pioggia” ( da Autunno per i viali).  Sono come un nucleo, questi versi, che riguardano l’inevitabilità di un mondo (apparentemente, credo) condannato ad una sorte di immobile infelicità.

In questo universo di “ubriacatura di vuoto”, universo certamente teologico perché attraverso il sentore del nulla il poeta avverte la necessità del divino percorrendo in se stessa le tappe della presenza-assenza, le stesse immagini che fluiscono  cromaticamente oscure rimandano a fugaci e non ingannevoli speranze. Qui è sotterranea la vocazione a far esistere il sacro che si è negato. “Mi mette al mondo/ ad ogni istante/ il tuo puro sorriso/ il candore tremante/ di un biancospino” ( Il tuo sorriso); “E l’onda mi sovrasta/ infinita/ d’un mare che sorge/ in me, nell’anima/ acquietata/ in un riposo di grazia./ E torna/ l’oro del tramonto/ invade/ la visione interiore/ la sacra stanza inviolata/ del tuo eterno trascorrere” (Visione). E’ dunque possibile cogliere l’intima evoluzione tematica che è sottesa ai sofferti momenti di anelito alla trasformazione dell’esistente. Lo si intuisce anche dai tanti versi che indicano gli occhi come portale dell’anima:  vedi, tra le altre, le composizioni “Inarrivabile”, “Cos’era?”, “Ecco”.

Infine, eccola la mutazione. Nei versi di “Onda” leggiamo: “…in ogni dove/ il fluire fatale/ di un Amore/ che ogni cosa pervade/ e Tutto muove”.

Dalla ferita la luce si fa strada. Auguriamo cordialmente al poeta  che si sdipanino d’ora innanzi versi aggrovigliati soltanto in prismatiche luci che inondino di colore e che, come sempre, siano nella via d’immensa verità tra il pensiero e il cuore.

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