"Sulla destrezza. Sul corpo" Introduzione di Aldo Gerbino a "Fine dei giochi [ 2015 - 2018 ]" di Francesco Maria Cannella (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

Essere poeta della ‘ricerca’ ci segnala subito un essere posti nella cerchia del caos, un caos in cui cercare le proprie sconfitte, le apparenti concessioni forniteci dal destino; ed è quanto il poemetto di Francesco Maria Cannella, Il Battello per Bedlam (otto step ed un epilogo) ci racconta. Ed in parte sembra suggerirlo – in parallelo con le parole appartenute ad Amelia Rosselli – nel momento in cui si sottolinea che «quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive», da intendere come Egli scriva accumulando dal mondo circostante (dal brusìo di tale mondo) quanto poi troveremo vergato nel bianco, soltanto in apparenza omogeneo, della pagina. Ricerca d’idee, d’interrogativi sul proprio essere, sul corpo e il suo dialogo amoroso, ma anche in quella misura indicata da Angelo Maria Ripellino il quale, scrivendo in Oltreslavia di Rossana Ombres, l’autrice de L’ipotesi di Agar, evidenzia con forza il ‘nuovo’ che una tale poesia è in grado di consegnare; «c’è qualcosa di nuovo nel libro di Rossana Ombres che soprattutto ci piace», sottolinea lo slavista e poeta, ed «è la nausea della vita quotidiana, ciò che vien definito dalla poetessa “qualunquemente nel più qualunque dei giorni”». Ed infatti la nausea, il senso di vertigine, lo scollamento gesto/corpo, vigono in questi versi segnati profondamente dalla ‘ricerca’. Così, sempre per Ombres, è Ripellino ad affermare che in tale scrittura «il senso del quotidiano… è ‘cisposo’, triviale, scurrile, disperatamente sconcio, in questo mondo demente per troppa banalità, distorto, tumido, sebbene inorpellato». Si tratta, in effetti, di quella demenza calata nella baraonda di Bedlam, manicomio non esclusivo della nota struttura londinese: una madhouse della nostra inerzia, del nostro comune popolarsi di sedimenti pronti a soffocarci, o a trasportarci fin oltre la tragica soglia della ragione comune. Ed allora, in tale scenario, la contemplazione può rappresentare una lama a doppio taglio; s’invoca la valenza metaforica del ‘Rasoio di Occam’ per seguire una più serrata logica contro ogni eccesso di varianti, fuor dalle dicotomizzazioni, affinché non vadano perduti i semplici e fondanti supporti acquisiti, le necessarie sostanze atte al nutrimento del proprio punto di vista. Ecco, quindi, – scrive Francesco – che «cominci a contemplare la crescita di tuo figlio / senza più considerare lo scemare / degli anni che ti renderanno vecchio. / Un’immagine fissa, riflessa nel tempo, / come un occhio vitreo di scandita resa / scruta sempre ad ogni angolo / la tua destrezza»; e da tale essenziale osservazione ordunque tutto il superfluo può esser tagliato, scrostato della sua eccedenza. Il dolente incedere del deserto affettivo e sociale diventa così il lètto per consentire l’affioramento d’altra doglianza: uno scollarsi della propria corporeità per toccare, con i sensi, l’altrui sofferta condizione: «Quello che sento è la mia pelle sulle tue cicatrici», si afferma; quella pelle “inodore” divaricata alla recezione del mondo, al tocco della ferita, al lambire d’un sentimento. Si tratta di scorgere, impotente (citando Jack Kerouac) «il desolato stillicidio del diventar vecchi», l’incomprensibile gestazione dell’esistenza, il suo scatto che qui vive nel taglio dei versi, nella loro partitura metrico-simbolica, nel loro esautorare la stessa letterarietà del testo consentendo, anche con l’aiuto di inserti idio-dialettali, una tracimazione del campo semantico, una rigenerata nominazione di anime, corpi e oggetti che alle anime appartengono. In epilogo, infatti, è la mano che «usa comprendere altre mani e compassione, cupidigia ed estranea equità»; con essa si accenna alla sua polimorfìa di comportamento, di esistenza, ma su cui vige un sostantivo che si tinge d’uno smalto caro a Ceronetti, la compassione, capacità del soccorso sita in un lacaniano «occhio obliquo»; mano, dunque, come parola. Parola compassionevole, non altro che: poesia che lenisce.

 

I

La compresenza


    Inizia così. Cominci a contemplare
la crescita di tuo figlio
senza più considerare lo scemare
degli anni che ti renderanno vecchio.
    Un'immagine fissa, riflessa nel tempo,
come un occhio vitreo di scandita resa
scruta sempre ad ogni angolo
la tua destrezza -
nel dirsi paziente e tenace -
ed esteso in cadenze di giorni o moti...

    Concentrata richiesta di abbandono
per ciò che hai fatto e ciò che non sai
possa ancora redimere in un sorso
un bicchiere mezzo vuoto:
tra il «tuo» che è adesso
e il pur presente
disimpegnato nascere
e poi tacere –
 
                    Così inizia
contemplandosi in un amplesso –
e di lì a poco decifrando
caste involuzioni momentanee
e sguardi aggrottati o altri accigliamenti
per dove non eri,
e in stato d'alter ego,
la memoria concede al tuo eventuale
e al tuo niente
                    un nuovo ristoro...
 
 
 
 
 

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