“Religioni e spazio pubblico in età (post)secolare” di Irene Luzio

 

 

L’inatteso fenomeno di “rinascita” delle religioni a livello mondiale, dagli anni ’90, ha attirato l’attenzione di svariati accademici, provocando accese controversie: la perdurante espansione missionaria delle fedi tradizionali, la loro radicalizzazione fondamentalistica e l’influenza (reale o pretestuosa) giocata nei conflitti geo-politici così come in quelli interni alle società civili nazionali – il tutto entro un orizzonte sempre più globalizzato – domandano una revisione della teoria classica della secolarizzazione. È necessario tener conto dei paesi del Vicino Oriente, dell’Africa e del Sud-est asiatico, in cui la modernizzazione capitalistica non è accompagnata dalla laicizzazione della società ma anzi, produce squilibri sociali e culturali che rinvigoriscono il ruolo pubblico delle comunità religiose; del caso degli Stati Uniti, in cui la modernizzazione si è accompagnata ad una fervente e differenziata pratica religiosa della popolazione, che non solo non accenna a ridursi, ma tende sempre più a dare i suoi effetti anche sul piano politico; del fatto che la modernizzazione sembra essere stata accompagnata dalla laicizzazione della società soltanto nei paesi europei, il che renderebbe l’Europa, col suo razionalismo, non un modello universale ma un caso marginale[1]. Nelle seguenti pagine saranno brevemente esposte la teoria classica della secolarizzazione e le due possibili riformulazioni proposte da C. Taylor e J. Habermas (primo paragrafo); saranno confrontate le posizioni dei due autori riguardo all’eventualità di un fondamento “politico” dello Stato (post)secolare e del conseguente spazio pubblico disponibile per le religioni (secondo paragrafo); saranno infine delineate le due diverse posizioni – habermasiana e tayloriana – intorno al principio di “neutralità”, a cui lo Stato (post)secolare è tenuto per poter governare legittimamente su tutte le componenti della società indistintamente.

 

1.

«Per potersi definire post-secolare, una società deve prima essere stata secolare»[2]. Ma che bisogna intendere per ‘post-secolare’ e, ancor prima, per ‘secolare’?

Il paradigma sociologico classico della secolarizzazione, di matrice weberiana, prevede che la modernizzazione della società sia intimamente correlata al “disincantamento” della società stessa – cioè alla sua emancipazione da una visione teologica, metafisica o magica del mondo in virtù della conoscenza empirica e tecnico-scientifica del reale – la conseguente razionalizzazione e laicizzazione di istituzioni politiche, economiche, giuridiche e sociali, ricondotte a propri principi interni e sciolte dalla subordinazione gerarchica alla religione, nonché la diminuzione delle professioni di fede e pratiche di pietà tra i cittadini, attribuita al generale miglioramento delle condizioni di vita, in seguito all’industrializzazione. Possono dirsi secolari, in tal senso, tutte le società dell’area nord-atlantica: quelle europee, assieme a Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda (etc). Charles Tayor, tuttavia, nella sua più celebre opera – L’Età Secolare – insiste su un’ulteriore accezione del termine, per cui la secolarizzazione si dà «nella comparsa di nuove condizioni della credenza, in una nuova forma dell’esperienza che ci sprona alla credenza ed è definita da essa, e in un nuovo contesto entro cui deve procedere qualsiasi ricerca della dimensione morale e spirituale»[3]. Una società diventa secolare in tal senso quando si verifica un mutamento dello “sfondo” – paradigma, cornice di nozioni e simboli tacitamente condivisi, supposti, dati per assodati – da “ingenuo” a “riflessivo”, vale a dire da uno in cui la trascendenza e il sovrannaturale sono assiomatici, ad uno in cui la pura immanenza diventa prevalente e, per l’esperienza spirituale o morale, si dischiude una pluralità di opzioni possibili, di nuovi “luoghi di pienezza” esistenziale. La chiave di tale mutamento nella storia è l’emergere di un “umanesimo autosufficiente” dal seno della cristianità: il “disincanto” dell’ordine cosmico naturale, dell’ordine socio-politico e dell’ordine morale comporta una certa “perdita” di Dio e la migrazione della “pienezza” esistenziale verso i lidi della prosperità umana. Progressivamente l’uomo sviluppa una nuova identità, una nuova forma di autocoscienza: si concepisce ed esperisce come Sé “schermato” (non “poroso”, non soggetto alle suggestioni – buone o malvage – di entità spirituali esterne, e quindi referente unico dei propri moti interiori), “disciplinato” (capace di gestire i propri istinti e di adeguare il proprio comportamento a un contesto sociale differenziato, pubblico-privato), “individuale” (distinto dagli altri, responsabile di sé davanti a sé, a Dio e agli uomini, ma anche destinatario di diritti personali inalienabili), “strumentale” (capace di impiegare razionalmente spazio e tempo, assieme ad altre risorse, in modo da massimizzarne l’utilità e il beneficio). Si tratta di un quadro che si va delineando sotto vari influssi: dai rivolgimenti interni al cristianesimo (nominalismo, Riforma e Controriforma, guerre di religione, etc.), alla rivoluzione scientifica, alle rivoluzioni in Inghilterra, in America, in Francia (etc.), a Illuminismo, Romanticismo e Positivismo. Solo alla fine del XIX secolo l’“umanesimo autosufficiente” diventa un’opzione effettivamente disponibile, giungendo infine a porsi oggi come “sfondo”, come “cornice immanente” che consente – ma non esige – la chiusura a un termine ultimo che la trascende.

Nel saggio La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, Jürgen Habermas nota come «questa perdita di funzioni e questa interiorizzazione del fenomeno religioso non comportino affatto una riduzione della sua importanza: né sul piano della sfera politica o culturale, né su quello della condotta di vita personale. A prescindere dal loro peso numerico, le comunità religiose continuano ad avere un loro “posto” anche nella vita di società ampiamente secolarizzate. Possiamo perciò definire la coscienza pubblica europea come “post-secolare” nel senso che, almeno per il momento, essa accetta “il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”»[4]. Si tratta di una rilettura della teoria della secolarizzazione – vicina, per certi versi, all’accezione del termine cara a Taylor – che non ne tradisce l’essenza, ma induce ad adottare una nuova mentalità riguardo al ruolo spettante alle religioni nelle società postmoderne, sotto tre aspetti: 1. l’abbandono della convinzione laicistica che la modernizzazione delle società debba comportare la scomparsa delle religioni sul piano globale; 2. l’accettazione del fatto che le religioni ricomincino o continuino ad influire nelle diverse sfere pubbliche nazionali, in particolar modo per quanto concerne la formazione dell’opinione e della volontà pubbliche rispetto alle questioni eticamente sensibili; e 3. il riconoscimento della problematicità delle tensioni religiose nella gestione del fenomeno migratorio, per quanto riguarda l’integrazione efficace d’immigrati provenienti da paesi con culture premoderne, nel rispetto del “pluralismo delle forme-di-vita”. Secondo Habermas, dunque, una società diventa post-secolare senza cessare con ciò di essere secolare. E si può dire che ciò sia tanto più vero per Taylor, il quale non tematizza affatto una differenza concettuale tra “secolare” e “post-secolare”, anzi afferma: «pensiamo che il secolarismo (o laicità) abbia a che fare con la relazione tra Stato e religione, mentre, di fatto, ha a che fare con la risposta (corretta) dello Stato alla diversità. […] In effetti, il punto della neutralità statale è precisamente quello di evitare di favorire o sfavorire non solo posizioni religiose ma ogni posizione fondamentale, religiosa o non religiosa»[5].

2.

«Il movimento cruciale che osserviamo nell’Occidente moderno a partire dal XVII secolo, il movimento che ci porta al di fuori delle concezioni cosmico-religiose di ordine, stabilisce una nuova visione “ascendente” della società, secondo la quale la società è fatta per la protezione ed il beneficio reciproco dei suoi membri [...]. Vi è una visione normativamente forte legata a questa nuova concezione, che io ho chiamato “ordine morale moderno”. Essa racchiude fondamentalmente tre princìpi […]: 1) i diritti e le libertà dei membri; 2) l’uguaglianza tra essi [...] e 3) il principio che il governo sia basato sul consenso»[6]. La “trinità rivoluzionaria” – liberté, egualité, fraternité – definisce l’unica “filosofia della civiltà” intorno alla quale, necessariamente, una società democratica deve organizzarsi. Lo Stato (post)secolare trova dunque la sua legittimità – non più religiosamente e metafisicamente fondata – nell’etica liberale e nella norma basilare della sovranità popolare. Il rigetto dell’“incorporamento cosmico-religioso” si risolve in una trasfigurazione del “politico”: è quanto sembrerebbe sostenere Taylor, a differenza di Habermas. Il “politico” è un concetto (schmittiano) che indica la «rappresentazione simbolica e auto-comprensione collettiva di una comunità che, avendo effettuato il passaggio riflessivo a una forma di integrazione sociale cosciente piuttosto che spontanea, si differenzia dalle società tribali. […] L’ordine simbolico dell’auto-rappresentazione collettiva delle comunità politiche era l’immagine riflessa del governante, la cui autorità è legittimata da qualche potere sacro»[7]; tale concetto, in breve, designa l’immaginario collettivo mediante cui una società statalmente organizzata definisce la sua identità, rappresentando le proprie origini e la propria posizione all’interno di un ordine universale materiale e spirituale, e garantisce la propria coesione interna, in virtù della forza unificatrice dell’autorità politica e della sua legittimità “sacrale”.  Habermas ritiene che il processo di secolarizzazione, si sia avviato agli albori della modernità – con la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali e la burocratizzazione del potere politico –  in risposta al capitalismo emergente e alle guerre di religione e sia stato poi “ratificato” dai movimenti rivoluzionari di fine XVIII secolo e da tutti gli altri regimi liberali e/o democratici che hanno caratterizzato la storia politica dell’Occidente dal XIX secolo ad oggi. Nel nuovo scenario, il “politico” – nella sua tradizionale configurazione mitologica (arcaica), filosofica (greca) e teologica (cristiana) – avrebbe perduto il proprio ruolo di fondazione e giustificazione dell’autorità politica. Habermas afferma esplicitamente che «la legittimità democratica è l’unica a disposizione oggi. L’idea di rimpiazzarla o di completarla in modo generalmente vincolante mediante qualche fondazione presumibilmente “più profonda” della Costituzione conduce all’oscurantismo. [...] L’unico elemento che trascende la politica amministrativa e la politica del potere istituzionalizzato emerge dall’uso anarchico della libertà comunicativa che mantiene in vita l’alta marea dei flussi informali della comunicazione pubblica provenienti dal basso»[8]. In altre parole, per Habermas, la legittimità del sistema democratico è garantita dalla procedura democratica in sé, quale fondazione autonoma dei princìpi costituzionali che esigono di essere accettati da tutti i cittadini perché razionali (à la Kant). Il “politico” non può più sussistere che entro i confini della società civile, dove trova il suo ruolo nella costruzione discorsiva del consenso, nella formazione democratica dell’opinione e della volontà pubblica (e sovrana) dei cittadini; lo Stato, nei suoi elementi costituzionali essenziali e in tutti i suoi ambienti istituzionali, deve invece mantenere una posizione “neutrale” rispetto alla pluralità di “visioni del mondo” che si fronteggiano tra loro nell’arena pubblica. Habermas ammette, tuttavia, che il sussistere della democrazia richieda – come presupposto “pre-politico” – «l’acquisizione delle pratiche e della mentalità di una cultura politica liberale»[9] da parte del popolo. Taylor, di contro, sostiene che gli Stati secolari moderni non possano prescindere dal riferimento – quantomeno analogico – al “politico”. Se il “politico” indica il complesso di rappresentazioni simboliche attraverso cui una società statalmente organizzata dà forma alla sua identità collettiva e si auto-comprende rispecchiandosi nell’immagine del suo governante – la cui autorità è ritenuta legittima in virtù di un qualche fondamento “sacrale” o “meta-sociale” – allora si può dire che la secolarizzazione abbia provocato una trasfigurazione del “politico”, i cui riferimenti “ingenui” a un ordine naturale, morale e sociale “incantato”, proteso verso un termine trascendente, mutano in riferimenti “riflessivi” ad un ordine naturale, morale e sociale immanente e “disincantato”, volto al fine di massimizzare la libertà e la prosperità umana. Il processo di secolarizzazione di matrice francese si è esplicitamente configurato in tal senso, intendendo fondare lo Stato su «“una moralità indipendente da tutte le religioni” [...]. La base di questa morale è la libertà. Per affermare se stessa contro la religione, la moralità sottesa allo Stato deve basarsi su qualcosa di più della mera utilità o del sentimento; essa ha bisogno di una vera “théologie rationnelle”, come quella di Kant»[10]. Benché oggi la laicità delle istituzioni costituisca la risposta dello Stato all’irriducibile pluralità di “posizioni fondamentali”, sia religiose che a-religiose, è ancora possibile rintracciare un retaggio – pur mitigato e sfumato – di tali argomentazioni in pensatori che, come Habermas, non hanno abbandonato del tutto il “mito illuminista” di una “pura” ragione, neutrale e universale, quale fondamento stabile da cui far derivare normativamente i princìpi etico-politici fondamentali, mediante il tipo d’argomento «convincente per qualsiasi pensatore onesto e non confuso»[11]. Tale tipo d’argomento in realtà – sostiene Taylor – non è applicabile ai princìpi etico-politici, intorno ai quali tuttalpiù può prodursi un “consenso per intersezione” a partire da diverse visioni basilari del mondo, religiose e non. Tuttavia bisogna notare che, in una società già secolarizzata, le varie visioni del mondo si danno come mere opzioni compossibili, situate entro il medesimo “sfondo” immanente ed entro una “filosofia della civiltà”[12] comune, normativamente forte, considerabile come il nucleo “politico” intorno a cui si organizza la società democratica e liberale. Questa “filosofia della civiltà” si regge su tre norme essenziali – 1) diritti umani; 2) uguaglianza e non discriminazione; 3) governo basato dal consenso – e su un fondamento della legittimità dell’autorità politica riducibile alla nozione di “sovranità popolare”. Ma, «per diventare sovrano, un popolo ha bisogno di formare un’entità e avere una personalità […], un nuovo tipo di agire collettivo. È un agire con il quale i suoi membri si identificano […]. Nell’età democratica ci identifichiamo in quanto agenti liberi. Questo è il motivo per cui la nozione di “volontà popolare” gioca un ruolo cruciale nell’idea di legittimazione» [13]. In altre parole, un popolo che si è dato un ordinamento statale democratico non può avere un’identità politica che prescinda dal suo auto-comprendersi come unica legittima autorità sovrana, alla luce di un immaginario liberale condiviso; le “norme basilari” liberal-democratiche rientrano dunque tra i fattori identitari di un popolo, accanto alle sue tradizioni storiche, linguistiche e religiose. Questa “filosofia della civiltà” potrebbe trovare una “fondazione più profonda” in una religione civile, come in qualche ideologia non-religiosa o anti-religiosa, capace di giustificarne i princìpi e fungere da fattore di unificazione e stabilizzazione sociale – laddove il consenso per intersezione appare ancora come una soluzione instabile e relativamente non sperimentata – sennonché «una democrazia realmente diversificata non può ritornare a una sola religione civile, o a un’anti-religione, per quanto questo possa essere fonte di conforto, senza tradire i propri princìpi. Siamo condannati a vivere in un consenso per intersezione»[14]. In altre parole, per Taylor, sussiste un nucleo – almeno analogicamente – “politico” a fondamento dello Stato, dei suoi elementi costituzionali essenziali e degli ambienti istituzionali, che va rintracciato in una “cornice” liberal-democratica ch’è normativamente forte, mentre la pluralità di “visioni del mondo” si fronteggia nella sfera pubblica, rispetto a cui lo Stato stesso deve restare neutrale.

3.

Uno Stato (post)secolare è uno Stato neutrale rispetto alla pluralità di visioni del mondo non fondamentaliste, sia religiose che laiche. La questione nodale è, a questo punto, la seguente: definire la “neutralità” dello Stato; risalire ai suoi presupposti epistemici, derivare i modi e i “luoghi” in cui si realizza concretamente.

Secondo Habermas, la neutralità dello Stato si dà nel fondamento razionale “puro” dei suoi elementi costituzionali essenziali, espressi in un linguaggio “pubblico” o “ufficiale” laico – perciò “condiviso universalmente” – e ratificati da un pur “astratto e vago” consenso di fondo tra cittadini[15]. Si dà anche, conseguentemente, nelle sue istituzioni pubbliche – parlamenti, tribunali, corpi amministrativi – i cui atti, collettivamente vincolanti, vanno giustificati da ragioni espresse nel medesimo linguaggio “pubblico”. «Ma, fino a quando le comunità religiose rivestono un ruolo vitale nella società civile e nella sfera pubblica, la politica è un prodotto dell’uso pubblico della ragione tanto da parte dei cittadini religiosi quanto da parte di quelli non religiosi»[16]. Ne risulta che, per prendere parte alle deliberazioni democratiche, i cittadini credenti devono «accettare che i possibili contenuti di verità degli enunciati religiosi siano tradotti in un linguaggio generalmente accessibile»[17], cioè nel linguaggio “pubblico” laico, epurato da riferimenti e giustificazioni che non possono essere condivisi da tutti i cittadini indifferentemente; di contro, i cittadini secolari devono tenere in conto i contributi religiosi “tradotti”, senza bollarli aprioristicamente come assurdità indimostrabili. Le comunità religiose sono chiamate ad introiettare i valori liberali, adeguandovi i propri articoli di fede – sebbene siano «le stesse comunità religiose a dover autonomamente decidere se nella fede riformata esse possano riconoscere la loro fede “vera”»[18], com’è stato fatto dal cattolicesimo durante il Concilio Vaticano II e dalle chiese protestanti a partire dagli anni ’60, come alcuni si aspettano che accadrà nell’Islam europeo – è richiesta loro inoltre la non-interferenza nell’ambito delle scienze “mondane”. Dai cittadini laici invece si aspetta l’accettazione di possibili contenuti veritativi insiti nelle tradizioni religiose – in continuità col plurisecolare processo di appropriazione dei contenuti semantici giudaico-cristiani da parte del pensiero filosofico occidentale – nonché il riconoscimento del prezioso contributo sociale assicurato dalle comunità religiose grazie alla loro peculiare sensibilità solidaristica verso le forme di vita più fragili o problematiche. La relazione tra la componente religiosa e quella secolare della popolazione si configura dunque come un “processo di apprendimento complementare”, scaturente dal principio etico-civico di “riconoscimento reciproco”, per cui ci si sa tutti membri di «una comunità inclusoria di cittadini giuridicamente equiparati: una comunità nella quale ciascuno è (responsabilmente) debitore verso l’altro delle proprie opinioni e iniziative politiche»[19].

Secondo Taylor, la neutralità dello Stato si dà nei suoi elementi costituzionali essenziali e nei princìpi etico-politici che ne stanno alla base (libertà/diritti umani, uguaglianza/rule of law, fraternità/democrazia), in quanto tutte le componenti della società concordano intorno ad essi, pur differendo sulle ragioni profonde – religiose e non – con cui li giustificano. «Non c’è un set di princìpi eterni che […] possano essere determinati dalla pura ragione»[20]. Lo Stato è perciò neutrale se equilibra e massimizza tali requisiti, senza con ciò favorire o svantaggiare nessuna delle visioni del mondo, secolari o religiose che siano. Ne consegue che lo Stato deve consentire ai cittadini di utilizzare liberamente tutti i tipi di argomenti nell’ambito delle istituzioni pubbliche – parlamenti, tribunali, corpi amministrativi – purché gli atti finali, collettivamente vincolanti – leggi, sentenze, atti amministrativi – siano formulati nel linguaggio ufficiale “neutrale”. Taylor rigetta con forza la tesi di una differenza epistemica tra la ragione secolare e la ragione religiosamente informata, sostiene piuttosto che non sia possibile, in generale, disporre di argomenti “infallibili” da cui far derivare normativamente i princìpi etico-politici in modo convincente «per qualsiasi pensatore onesto e non confuso»[21], e giungere a delle soluzioni compiutamente discorsive, astraendo dalle obbligazioni profonde di ciascuna dottrina fondamentale, religiosa o meno. «Non si possono avere traduzioni di quei tipi di riferimenti [dottrinali] perché sono riferimenti che toccano realmente le vite spirituali di certe persone e non di altre»[22]. Lo Stato democratico dovrà dunque esprimere di volta in volta le convinzioni attuali dei suoi cittadini – nella misura in cui non contravvengano ai princìpi costituzionali essenziali – perché le sue decisioni non possono conferire speciale riconoscimento sulle altre a nessuna delle visioni del mondo.

 

Conclusione

Mi sembra che le considerazioni di Habermas e Taylor offrano degli spunti importanti per una corretta auto-comprensione della modernità, a partire dal significativo riferimento al nominalismo come matrice primitiva dell’intero processo di secolarizzazione. L’essenza del nominalismo sta nella negazione della sussistenza di un ordine metafisico quale fondamento della realtà naturale – che viene privata così della propria razionalità intrinseca e della propria intelligibilità – sostituito dalla volontà divina nella sua assolutezza. Il germe del nominalismo ha per fiore il Protestantesimo – con la negazione dell’ordine gerarchico della Chiesa, la contrapposizione tra fede e ragione, il volontarismo assolutistico implicito nel concetto di predestinazione – e per frutto la nascita dello Stato moderno – che, per far fronte al caos generato dalle guerre di religione, nega l’ordine sociale già costituito, abolendo tutti i corpi intermedi (ceti, ordini, corporazioni, etc.), e afferma l’assolutezza del potere politico sovrano, la cui volontà legiferatrice crea dal nulla il diritto, con cui riplasma l’ordine sociale. Si tratta di un passaggio cruciale, su cui credo sia bene soffermarsi un momento. Se il diritto non si fonda più su un ordine naturale e sociale preesistente – come in età antica e medievale – bensì sulla mera decisione, scompare il discrimine tra legalità e legittimità: «auctoritas, non veritas, facit legem»[23]. Mi sembra che questo passaggio non sia stato sufficientemente valorizzato da nessuno dei due pensatori di cui sopra. Eppure ritengo sia fondamentale, dato che i moti rivoluzionari del XVIII-XIX secolo hanno ghigliottinato il re e incoronato sovrano il popolo. Vero è che, contestualmente, l’affermazione dei princìpi etico-politici liberali ha quasi neutralizzato il concetto stesso di sovranità, postulando il “governo impersonale della legge” e una concezione del diritto normativista. Quel che vorrei evidenziare è che, tuttavia, la decisione sembra permanere nel diritto come elemento costitutivo, per quanto si cerchi di ridurlo a vantaggio della norma: un ordinamento giuridico può infatti entrare in vigore ed informare la realtà solo se viene istituito mediante un atto della volontà sovrana. Ed è perciò che il concetto di volontà popolare gioca ancora un ruolo sostanziale nella legittimazione dei fondamenti costituzionali di uno Stato: esiste un momento di arbitrarietà, connaturato all’atto decisionale, in cui vengono stabiliti i princìpi costituzionali essenziali. Tale momento ratifica la conclusione di un conflitto tra più istanze valoriali irriducibili e, in quanto tale, si definisce come un vero e proprio posizionamento. Neppure l’ordinamento liberal-democratico, dunque, è neutrale: la stessa laicità è una presa di posizione dello Stato, come lo sono libertà, uguaglianza e fraternità. Non esiste una ragione pura, non-posizionata, decontestualizzata. Perciò ritengo, con Taylor, che sia necessario mantenere un riferimento al “politico”, in quanto tale concetto esprime proprio la presa di posizione di un popolo statalmente organizzato rispetto a un universo sia materiale che spirituale, e tale nozione rimanda alla categorizzazione amico-nemico, vale a dire a un rapporto di opposizione esistenziale tra gruppi umani eterogenei, le cui posizioni (religiose, economiche, sociali, etniche, sessuali,...) sono virtualmente conflittuali e prospettano l’eventualità della guerra, tra Stati o civile. Tali dinamiche non possono essere semplicemente ridotte alla mancata o fallita comunicazione tra le parti[24]. Perciò concordo con Taylor anche per quanto concerne l’uso del linguaggio nella sfera pubblica.

 

 

Bibliografia

  • Habermas J., Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico?, in Tra scienza e fede, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2006, (e-book formato ePub, 2016)
  • Habermas J., Religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’«uso pubblico della ragione» da parte dei cittadini credenti e laicizzati, in Tra scienza e fede, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2006 (e-book formato ePub, 2016).
  • Habermas J., Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in Micromega, 1/2013, pp. 3-18
  • Habermas J., Taylor C., in conversazione con Calhoun C., in Micromega, 1/2013, pp. 41-48
  • Habermas J., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2015, (e-book formato ePub, 2015)
  • Muscolino S., Il “ritorno del rimosso”. Carl Schmitt e l’ultimo Habermas, in Metabasis, XIII, n°25, 2018, pp. 36-52
  • Schmitt C., Le categorie del politico, (a cura di) Miglio G. e Schiera P, il Mulino, Bologna, 1972
  • Taylor C., L'età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 13-38, 41-45, 677-683
  • Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, pp. 19-40
 

[1] Cfr. Habermas J., Fondamenti pre-politici dello stato di diritto democratico, in Tra scienza e fede, Laterza, 2006, e id., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, 2015.

[2] Habermas J., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2015, (e-book formato ePub, 2015).

[3] Taylor C., L'età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, p. 26.

[4] Habermas J., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2015, (e-book formato ePub, 2015).

[5] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, pp. 21-22.

[6] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 31.

[7] Habermas J., Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in Micromega, 1/2013, p., 4; definizione sostanzialmente condivisa e ripresa da Taylor (cfr. Talyor C., Contro il mito dell’Illuminismo, Micromega, 1/2013, p. 30).

[8] Habermas J., Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in Micromega, 1/2013, pp. 14-15.

[9]Habermas J., Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico?, in Tra scienza e fede, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2006, (e-book formato ePub, 2016).

[10]Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 24

[11] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 38.

[12] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 31.

[13] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, pp. 27-28.

[14] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 32.

[15] Habermas J., Taylor C., in conversazione con Calhoun C., in Micromega, 1/2013, pp. 45-46.

[16] Habermas J., Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in Micromega, 1/2013, p. 14.

[17] Habermas J., Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in Micromega, 1/2013, p. 15.

[18] Habermas J., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2015, (e-book formato ePub, 2015).

[19]Habermas J., La religione nella sfera pubblica delle società post-secolari, in Verbalizzare il sacro: Sul lascito religioso della filosofia, J. Habermas (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2015, (e-book formato ePub, 2015).

[20] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 23.

[21] Taylor C., Contro il mito dell’Illuminismo, in Micromega, 1/2013, p. 38.

[22] Habermas J., Taylor C., in conversazione con Calhoun C., in Micromega, 1/2013, p. 44.

[23] Hobbes T., Il Leviatano, trad. it. cit., cap XXVI, p. 245 (da Schmitt C., I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del politico, (a cura di) Miglio G. e Schiera P, il Mulino, Bologna, 1972, p.263).

[24] Cfr. Schmitt C., Le categorie del politico, (a cura di) Miglio G. e Schiera P, il Mulino, Bologna, 1972.

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