Pubblichiamo la postfazione di Guglielmo Peralta al volume "Il retaggio dell’ombra" di Rossella Cerniglia (ed. Guido Miano)

L’ombra, ovvero, l’illusione di credere che la realtà sia quella che si vede. Siamo usciti da più di due millenni dalla caverna platonica, e con la saggezza della filosofia, che ha sempre cercato di riportare le cose al loro posto, di rischiarare la ragione e la coscienza umana fugandone più di un’illusione, siamo stati proiettati in un’ombra ancora più lunga, invisibile e assolutamente inconoscibile, perché imparentata strettamente con la verità dell’essere: delle cose, dell’uomo e del mondo, e con una realtà altra, trascendente i limiti dell’esperienza sensibile e ogni possibilità di comprensione. È, questo, il retaggio antichissimo, di matrice speculativa, metafisica, ma c’è un’“ombra” più reale che fa onta all’intelligenza umana e all’enorme bagaglio di conoscenze e verità accumulate nel lungo, infinito progresso delle arti e delle scienze. Essa è il tragico “retaggio”: il carico di odio, di crudeltà, di violenza di ogni genere, che affonda le radici nel fratricidio di biblica memoria ed “ereditato” dall’uomo della preistoria e della storia e divenuto ormai insostenibile in questo nostro tempo della “povertà”, in cui la fuga degli dei, di hölderliniana memoria, sembra irreversibile. Anche il nostro Dio non è più quello antropologico, da trasmettere di padre in figlio, né quello teologico, che non dimentica il suo popolo nonostante il peccato. Il suo silenzio è inaccettabile e mortale per l’uomo, irrimediabilmente caduto, che ha perduto ogni speranza di salvezza. Questa condanna così amara è il tema che occupa la prima parte del libro di Rossella Cerniglia, costituito da cinque sezioni e che ha come titolo “Il retaggio dell’ombra”. Si tratta di un’opera in versi, e questa prima sezione, intitolata Apocalypse, somiglia a una cantica, che, per la materia trattata e soprattutto per il linguaggio e il realismo della “narrazione”, richiama l’inferno dantesco. Ma è l’Apocalisse di Giovanni il riferimento principale. Al Libro neotestamentario, o della Rivelazione, la Cerniglia riconosce una verità escatologica, che sembra prefigurare la terribile crisi dell’attuale società mondiale, la quale sembra precipitare, inesorabilmente, in un tempo senza futuro. I versi erompono dall’animo della nostra poetessa come uno sfogo e una protesta dai toni accesi, e, al tempo stesso, mesti, dolenti. Perché ciò che “vediamo” e tocchiamo con mano, fuori da ogni speculazione filosofica, è la realtà sociale: quella che vorremmo fosse solo apparenza, ombra inconsistente, passeggera, da dissolvere e sostituire con una realtà vera, divinamente umana. Ma questo è un sogno, una speranza e un’altra illusione, ed è il risvolto, l’altro tema qui presente e connesso con quello apocalittico. Sì che la Cerniglia vive la contrapposizione tra il sentimento tragico del tempo della crisi irreversibile e il desiderio fideistico, la volontà di credere nell’intervento di un dio, di una forza soprannaturale che “invertirà la rotta / e la navicella condurrà sbattuta dai venti nella tempesta”. Dunque, ella disconosce, rifiuta quel Dio di Giovanni, “terribile e tuonante / che non ispira amore, un Dio non indulgente / che ignora l’infinito strazio della terra”, perché, nonostante tutto, c’è bellezza su questa terra, anche nelle piccole cose viventi della natura, in cui il buon Dio si rivela: “Eppure … a qualcuno devo grazie del verde ramo / che su me ora si china col vento, voglioso di sfiorarmi / e m’illumina lo sguardo un istante / con la sua dolce chiarità e bellezza”. Questo splendore è sufficiente per fugare il dubbio, per offuscare la “luce bieca” e allontanare il tremendo “scenario” del “Dies irae”. Forse la “redenzione” dell’uomo è ancora possibile, la “scintilla divina” non è del tutto spenta ed è possibile invertire la rotta, interrompere, spezzare “l’inesorabile catena degli eventi”: quel “retaggio dell’ombra” che tanto somiglia a un karmico destino, dal quale l’uomo non è riuscito, fin qui, a liberarsi. La visione apocalittica non è “gratuita”, perché rispondente alla realtà umana dove il male ha messo radici inestirpabili. La Poetessa, anche se parla in prima persona, partecipa del tragico destino dell’uomo, non più “fabbro di se stesso” come agli inizi della sua storia, attento a costruire, a formare un ambiente adatto alla vita, ma vittima delle proprie azioni, e, dunque, anche carnefice di sé stesso e distruttore della natura fino a rendere sempre più precaria la propria residenza in un mondo e in tempo senza futuro. Ella, perciò, si fa interprete dell’angoscia che attanaglia gli umili e i più deboli, in nome anche dei quali leva a Dio la sua preghiera e lo invoca “a testimone dell’umana sventura”. È, dunque, un «io» corale che patisce per la tragica condizione esistenziale e che spera nel cambiamento, in una svolta positiva per intervento divino.  

      Nella sezione che segue, il cui titolo è “Dai margini oscuri”, Rossella Cerniglia si piega su sé stessa, dà sfogo al proprio io adombrato dal male di vivere, dalla solitudine e dal vuoto e s’interroga sulla morte, sul senso di tanto dolore, di tanto peregrinare senza meta in questo mondo, dove regnano il caos, l’indifferenza, il consumismo e dove perfino il Natale è dissacrato e “il piccolo Bambino / attende la sua nascita”. Unica nota positiva è, anche qui, la natura, nella quale la Nostra trova quiete; ella si sente ripagata dal gatto che riposa acciambellato tra le sue gambe, e nell’osservare “nello sterrato viale / della villa barocca / “cigni assopiti / sul bordo della vasca”. Dai “margini oscuri” può nascere la “luce purissima (…) il giglio di bellezza / e candore” ed è, questo, il miracolo della poesia che può squarciare le tenebre e allontanare il pensiero del Nulla, dell’assoluta mancanza del senso dell’esistenza.

      Nell’“Ipogeo della notte”, titolo della terza sezione, la morte, qui “trasfigurata” poeticamente ed eufemisticamente nell’immagine del sotterraneo notturno, o della notte sotterranea, non è più soltanto quel tragico pensiero invasivo, nichilistico, ma è anche l’evento reale, che ha la sua rappresentazione, ormai quotidiana, nelle guerre, nei naufragi dei migranti, negli omicidi e nelle varie tragedie imputabili alla follia dell’uomo, la quale ha reso il mondo inabitabile, desolato e, dunque, da negare, “elidere”, dimenticare, “mai più vederlo”. A questo sentimento negativo perviene la Cerniglia, la quale sente che questo mondo non le appartiene e ne prenderebbe volentieri le distanze perché ciò le consentirebbe di negare, a sua volta, “l’orrore di una vita / disumanata da una razza / non più umana”.

      In “Dissonanze dell’ora”, quarta sezione, al sentimento negativo verso il mondo e verso l’uomo   subentra nella Poetessa, che sente di non appartenere più “alla razza homo”, il duplice atteggiamento nei confronti del mondo che, se da un lato, le è “in odio”, dall’altro lato la dispone all’attesa, ravvivando in lei la speranza e il desiderio di potere vivere una condizione migliore in una società rigenerata dall’amore. Al “mondo freddo e grigio”, senz’anima, “senza speranza”, la Cerniglia contrappone il mondo del sogno, della luce, della bellezza: quello dell’interiorità, “dove l'Essere parla nel profondo e vi canta l'immanente verità” e su cui costruire un nuovo mondo, nel quale sia possibile “ritrovare”, senza più doverlo rimpiangere, il “tempo dorato” dell’infanzia e della giovinezza; dove nessun popolo sia costretto alla diaspora; nessuno debba abbandonare la propria casa, la propria terra in fuga dalle guerre o per cercare lavoro; dove le città colpite dal degrado e in decadenza – “la città eterna”, su tutte – tornino a nuova fioritura, a rinascere, e nel quale anche gli animali non siano abbandonati e abbiano un posto sicuro. È la grande speranza. Contro il pessimismo, che fa scrivere alla nostra poetessa versi, in cui “sono scomparsi gli uomini / (svaniti evaporati eclissati)” perché “sono scomparsi qui / nel mondo intero”. È l’illusione contro il tarlo di un’affettività negata, di una vita di sofferenza e di angoscia che ella crede segnata fin dalla nascita: “una beffa crudele” del destino, per cui non sarebbe nata alla vita “ma a una morte”.

      Dopo questo tristissimo “acuto”, il canto della Nostra si fa meno mesto. Siamo nell’ultima sezione del libro, intitolata “Paesaggio andante”. Ed è quasi un “andante” musicale, un procedere  con toni alti e bassi, tra cadute e rinascite, che è un errare alla ricerca “dell’eterno passaggio” alla “nota” più eccelsa “di un’Amore / che ogni cosa pervade / e Tutto muove”. Il linguaggio della Cerniglia, inconfondibile, dalla cifra così personale da costituire quasi il suo identikit, da sempre caratterizzato da grande qualità poetica e da spessore contenutistico, in questo libro è un crescendo d’immagini, di figure di significato, di toni da realismo tragico, che rendono la forma ricca, di un’eleganza quasi classica. Esso è l’espressione di un pensiero poetante, o di una poesia pensante, che intrattiene un rapporto essenziale con la verità e che, perciò, è in grado di accostarsi all’essenza delle cose, al grande mistero della natura, largamente rappresentata e traslata in simboli. Con quei versi “danteschi” sopra riportati e posti dalla nostra poetessa quasi alla conclusione del suo cammino, che possiamo definire poetico-speculativo, il linguaggio approda alle sfere celesti. E con esso, quell’ombra, legata alla crudeltà del destino, da cui la vita sembra avere ricevuto al suo nascere il “marchio” della morte, acquista una luce, proprio in virtù del dolore: “il dolore (…) oggi m’insegna / a vivere / con poca luce /con poca speranza”. È la rinascita, simboleggiata dalla rosa, che “lentamente / si sfoglia / (…)  e la morte / che la vince / è il suo eterno / fiorire”. Con questa bella e potente immagine del fiore si annuncia la “nuova stagione”, e come “per un divino dono / per un sogno sognato / nello sguardo / che sempre attende / eterna fioritura” si apre il cielo. Si affievoliscono allora i toni, si allontanano i temi drammatici e l’anima della Cerniglia si dispone a liberarsi dall’angoscia esistenziale e dalla sofferenza che le arreca l’umanità, impotente contro il male che ha ricevuto in eredità. Ed ecco!... “oggi il cielo / è un ricettacolo di virtù / il sole è speranza / e l’azzurro è l’Immenso / (…) e la vita è tranquilla”.  L’esito, che sa di miracolo, è la “metamorfosi”, l’unione panica con la natura e il senso di beatitudine: “mi beo / in quest’oasi improvvisa / sono sole / azzurra aria senza vento / immenso luccicore”. Sublime alfabeto è questo che annuncia una nuova alba, e che, salvo ricadute improvvise, mostra di potere fugare l’ombra ed essere cura, rimedio efficace di “guarigione”.

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