Pubblichiamo l'introduzione di Tommaso Romano al nuovo numero della Collezione del Mosaicosmo "Marginalia" (Ed. CO.S.MOS.)

 

Un titolo di una raccolta di testi più o meno brevi, dovrebbe evocare, dare conto di una visione, di un assunto da svilupparsi nelle pagine.

Una sintesi insomma che, riassumendo, proponga.

Secondo il Devoto-Oli (Dizionario della lingua italiana, ed. Le Monnier, 2007) per Marginalia, si devono intendere una “serie di brevi considerazioni in margine a un fatto; note marginali”. Tale falso latinismo, già usato per un’opera di Edgar Allan Poe, ha una sua veritiera architettura virtuosa ai miei occhi: consegna, (come già da molti anni, con la “Collezione del Mosaicosmo” della presente serie) riflessioni, interventi, studi, valutazioni critiche, biografie essenziali che, pur essendo formalmente autonome, in realtà sono, come auspico da sempre, tasselli di uno stesso tappeto musivo che è costituto da interessi, occasioni, opportunità, che sono rimasti impressi e pubblicati, o che propongo come totalmente inediti, come nel caso della prima parte dei “Pensieri”.

Senza curarmi di ingabbiarli in schemi preordinati e/o rigidi, i testi che seguono vivono quindi una loro autonomia, che vorrebbe tendere, però, alla polifonica cromia dell’organicità. In Marginalia, allora, come condizione di e in margine rispetto al centro, di limite, fra il mare e la terra, di confine, di corsia di emergenza, anzitutto esistenziale.

Quanto alla possibile influenza e accoglienza delle mie considerazioni e opinioni, ho superato da tempo, ormai, l’ansiosa ricerca del consenso e dell’eco. Mi basta la consapevolezza dichiarata dei miei limiti e la discreta e fedele attenzione dei miei lettori.

Nessuna voglia di consegnare testi memorabili, soltanto il voler raccogliere cocci, studi, lampi, illuminazioni e disincanti. Marginalia di punti e spunti, senza coltivare alcun proposito redentivo, pedagogico, di giudizio ultimativo, di progetto avvenire.

Non marginalità, sia ben chiaro, né tantomeno autoemarginazione!

Pubblicare è comunque trasmettere idee, un documento, non uno sterile parlarsi addosso, alla ossessiva ricerca di una perfezione, tanto auspicabile quanto irraggiungibile.

Ai bordi si può stare e osservare meglio sia ciò che si svolge al centro, sia ciò che l’universo ci fa intravedere dell’oltre e immaginare ciò che è a noi ignoto. Ne consegue una rinnovata coscienza che, senza arrendersi, si ripara laboriosamente dal turbinio, come può, senza abdicare e senza nutrire velleitarismi sterili e sostanzialmente insidiosi.

Se la scrittura è anche terapia, come credo, anche la visione che viene a trarsi può essere di qualche lenimento, conferma o dissidenza che può ulteriormente provocare. Diceva Marcel de Corte - che ho avuto il privilegio di incontrare a Roma ai convegni degli anni Settanta della Fondazione Gioacchino Volpe, insieme ad un altro maestro di formazione, Gustave Thibon - che l’intelligenza è in pericolo di morte. Senza catastrofismi, il rischio va denunciato e affrontato. Tuttavia, queste note a margine senza ambizioni potrebbero, con Pascal, farci continuare a scommettere sul senso che ogni esistenza ha di non annegare oltre i margini. Compresa la mia.

 

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