“Patria senza mare” di Marco Valle. LA GRANDE SFIDA DEL “MARE NOSTRUM” – di Mario Bozzi Sentieri

“Vivere non necesse, navigare necesse est”:   l’esortazione che, secondo Plutarco,  Pompeo
pronunciò per motivare i suoi marinai e che spicca, a Genova,  sul Monumento al Navigatore (1938) di Antonio Mario Morera,  può essere presa come il filo conduttore del recente libro di Marco Valle “Patria senza mare” (Signs Publishing, pp. 554, Euro 25,00).
Quello di Valle  è  un saggio importante, non solo  per dimensioni e per ricchezza di  notizie, citazioni, richiami storici, quanto soprattutto per la sua visione d’assieme, per la sua capacità di suggerire sguardi e progetti al futuro.
In ragione di questa “visione” più che di una “recensione” crediamo che “Patria senza mare” meriti un’attenzione speciale, proprio per la sua capacità “prospettica”, critica e programmatica insieme, storica e politica, di una politica vista quale  arte di governare, di dare una direzione alla vita pubblica, all’organizzazione, anche economica e sociale, dello Stato.
Non a caso  Valle cita  - in premessa - Napoleone, il quale amava ripetere che “la politica degli Stati è nella loro geografia”, con ciò confermando una verità senza tempo, laddove da sempre  ogni realtà statuale — minuscola, media o grande — per potersi rapportare al mondo e svilupparvi una presenza significativa inevitabilmente deve ragionare sugli scenari fisici e umani in cui è fissata e confrontarsi con le molteplici dinamiche che la circondano.
La dimensione marittima è  ineludibile per l’Italia,  bagnata com’è da tre mari, con 7.551 chilometri di linea di costa, e proiettata nel cuore del Mediterraneo. Fare finta di nulla di questa “dimensione” pare impossibile. Eppure - ormai da decenni – è così.  Occorre allora prenderne coscienza ed invertire, culturalmente, economicamente, e politicamente la rotta. 
A partire intanto – grazie proprio  alla puntuale documentazione di  “Patria senza mare” -  dalla consapevolezza rispetto ad una grande tradizione, che ci consegna l’epopea splendente delle Repubbliche Marinare – con in testa   Venezia e Genova – e le figure straordinarie di imprenditori, mercanti, avventurieri, capitani e politici: Colombo, Vespucci, Verrazzano, i due Caboto, i liguri  Benedetto Zaccaria, i fratelli Vivaldi, Lanzarotto di Maloncello, Nicoloso da Recchia, Antoniotto Usodimare; e poi i veneziani Nicolò e Antonio Zen, che alla fine del Trecento arrivarono in  Islanda e Groenlandia;  Nicolò de’ Conti che raggiunse, tra il 1419 ed il 1444, l’India, la Birmania e l’Indocina; Antonio Pigafetta e Leone Pancaldo.
Quanto – chiediamo noi –  quella Storia è conosciuta ed esaltata nei nostri programmi scolastici ? Quanto ne sanno le nostre  , spesso disincantate , giovani generazioni ? E cosa rimane, nella nostra memoria collettiva,  di quelle grandi, mitiche figure di “uomini di mare” che hanno segnato la  Storia del mondo ? Qualche lapide sbiadita nella toponomastica delle nostre città e qualche isolato monumento, a rischio “censura” da parte delle schiere della cancel culture. Eppure la marittimità dovrebbe essere una priorità della nostra narrativa nazionale, ritrovando nel Mediterraneo il “segno del proprio destino – come ricordava Ferdinand Braudel – poiché ne costituisce l’asse meridiano e le è dunque naturale il sogno e la possibilità di dominare quel mare in tutta la sua estensione”.
Un secondo elemento da fissare  -  seguendo il percorso  di “Patria senza mare” -  ci viene dalla figura di Camillo Benso Conte di Cavour – “uno dei più grandi padri della Patria” come lo definisce Valle – che ebbe ben chiara la “questione marittima”, persuaso che “il commercio segue sempre la bandiera”, considerando la marina mercantile uno strumento essenziale per la politica economica del Regno e comprendendo  la valenza geostrategica legata alla realizzazione del Canale di Suez.
Passato il Ventennio (contrassegnato dall’interventismo pubblico, che permise all’Italia di raggiungere il quarto posto al mondo per tonnellaggio navale, dopo Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone) e la fase della ricostruzione post bellica, per il nostro Paese è arrivata, tra Anni Sessanta ed Ottanta, la sonnacchiosa routine democristiana. Solo grazie al recupero d’attenzione dei governi Spadolini e Craxi – sottolinea Valle -  si posero le premesse per un nuovo protagonismo sul mare, rientrato purtroppo nel cono d’ombra determinato da Tangentopoli. E tutto questo nel momento in cui nuovi protagonisti si affacciavano entro lo spazio mediterraneo, giocando spregiudicatamente la loro partita geopolitica ed economica: la Turchia, con    una politica di ricostruzione di una grande Marina militare e attraverso la visione strategica del “Mediterraneo allargato”; la Cina,  affacciatasi   in Europa dalla porta del Pireo, uno dei principali porti sul Mediterraneo che la Grecia di fatto, dopo l’epoca delle sanzioni dure della Merkel & Co, è stata costretta a svendere letteralmente. Da lì le navi cinesi si sono mosse in modo capillare. Oggi – puntualizza Valle - le ritroviamo a Vado Ligure, Rotterdam… in pratica la Cina ha collocato un po’ ovunque i suoi avamposti commerciali, arrivando con i suoi treni nel cuore dell’Europa attraverso tratte che portano a Belgrado, piuttosto che a Budapest.
Stringente ed ineludibile è  la realtà economica. I numeri parlano chiaro. “Quasi il 50 per cento del Pil nostrano – si può leggere su “Patria senza mare”  -  passa attraverso l’acqua salata anche per merito di una flotta mercantile importante — l’undicesima del mondo — e di elevato livello tecnologico. Poi la pesca — abbiamo la terza flotta europea — i porti, la cantieristica, la nautica, il turismo. Prima della pandemia, come si evince dal “IX Rapporto sull’economia del mare” pubblicato dalla Federazione del Mare, il cluster marittimo tricolore   generava oltre 47,5 miliardi di euro all’anno che, per l’effetto moltiplicativo, attivavano altri 89,4 miliardi, l’8,6% del valore aggiunto prodotto nel 2019 dall’intera economia nazionale. Nel 2020 l’emergenza sanitaria ha colpito l’intera filiera (con una perdita complessiva di 10,7 miliardi) ma già l’anno dopo l’Istat ha registrato una crescita pari al + 4,7 per cento (+ 3,5 il dato Ue), un segnale di ripresa importante che conferma la vitalità del comparto. Su tutto veglia — virus o non virus, con molta professionalità ma con sempre meno navi — la Marina militare, un’eccellenza nazionale che, dallo scenario regionale sino all’Oceano Indiano e il golfo di Guinea (il “Mediterraneo allargato” o “Medio Oceano”), cerca di garantire presenza, traffici e interessi permanenti dell’Italia del mare”.
Il Mediterraneo insomma  rimane per l’Italia un’occasione, una prospettiva forte e, forse, l’unica percorribile. Se vogliamo restare una “media potenza a vocazione globale” solo sul mare e attraverso il mare possiamo difendere la nostra vocazione mercantile e rilanciare una proiezione d’influenza geopolitica autonoma.
Lucio Caracciolo, direttore di “Limes” ha scritto: “noi non siamo un’invenzione, non siamo all’ora zero, non veniamo dal nulla. Se c’è la persistenza della memoria, forse ci sarà anche la persistenza dell’Italia”.
L’invito di fondo – lungo le rotte tracciate dall’autore di “Patria senza mare”  – è di ritrovare con “la persistenza della memoria”,  il senso di una cultura identitaria, di destini geopolitici, di necessità economiche attraverso cui  tracciare una prospettiva di lavoro. A cominciare dalla ri-costituzione di un “Ministero del Mare” un passaggio significativo che può riaccendere un interesse nuovo sullo storico rapporto tra l’Italia ed il mare, ma che certamente – come invita a fare Valle – richiede di visioni e di pensieri lunghi per dare forza ed organicità all’opera di ricostruzione: impresa non facile e tutt’altro che scontata, per la quale è però decisivo impegnarsi, in una sfida insieme culturale, economica e politica.  Ne va dei nostri destini nazionali. Mai come oggi: “Navigare necesse est”.
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