Leonardo Sciascia, “Quel mare colore del vino” - di Maria Nivea Zagarella

A cento anni dalla nascita di Leonardo Sciascia (8 gennaio 1921) lo si vuole ricordare attraverso un’opera minore e meno frequentata, la raccolta narrativa Il mare colore del vino. Sciascia vi riunì nel 1973 tredici racconti, scritti fra il 1959 e il 1972, presentandoli come “un sommario” della sua attività fino a quel momento. I testi toccano infatti temi e fasi  storiche già affrontati ne Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, La morte dell’inquisitore, Il contesto, e nella loro autonomia strutturale evidenziano il tipo di narrativa ibrida caratteristica dello scrittore. Un “narrare” in cui l’invenzione letteraria volta a volta si contamina di storia, cronaca, umori saggistici, risentimenti da pamphlet, analisi documentarie, verbali giudiziari, inchiesta poliziesca. Né manca in questo volumetto anche la presenza della più pura tradizione popolare siciliana con eroe l’immortale, millenario, Giufà, vivo dai tempi degli arabi e del quale non si può tenere il conto degli anni e dei secoli, del prima e del dopo. Nel racconto che lo riguarda Giufà, fra malizia e stupidità (poiché la stupidità va d’accordo con la malizia sempre, e stupido com’è Giufà sa essere maliziosissimo), giocando sull’equivoco dell’uccello cardinale di colore rosso vivo, uccide un cardinale, ma sfugge alla giustizia perché, avendo gettato nello stesso pozzo il cardinale ucciso e un montone, attua nel dialogo con gli sbirri che tirano su la carcassa dell’animale, un continuo, malizioso appunto, scambio fra montone e cardinale (fra bestia e uomo), beffando il Potere, mentre ne viene smascherando le colpe. Sto toccando una cosa pelosa -dice- una cosa lanosa… voglio sapere se questo che cerchiamo piedi ne aveva due o quattro… il cardinale aveva le corna?... Allo stesso modo in un’altra occasione, per ammazzare una mosca posatasi sulla faccia di un grosso giudice, Giufà gli da un tale schiaffo che il giudice fa tre giri su se stesso, cadendo a terra tramortito! La passione morale e civile dello scrittore vivacizza, come si vede, costantemente le pagine di un “realismo” polemico e ironico, ora più divertito e frizzante, ora più pensoso e dolente. E in un ambiente che è (tranne nel racconto Processo per violenza) una Sicilia-realtà storica e “metafora” a un tempo della ricerca di un punto di vista e di una azione non compromessi, non conformisti, viene tessendo e svelando concreti e sottili raccordi fra Potere e menzogna, prevaricazione e inganno, interesse e mascheramento. La Sicilia borbonica e il paese di Racalmuto fanno ad esempio da sfondo a un tipico matrimonio borghese e coatto fra una giovinetta di 16 anni e un vecchio procuratore sessantenne, per liberare da un mandato di arresto, con il sacrificio della giovane (un corpo che ne riscatta un altro nella straziante religione della famiglia), il cognato reo di avere ucciso con un calcio un villano. La narrazione è un intreccio serio e gustoso di motivi politici, anticlericali, antiborghesi (Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un contadino.) e di sapida irrisione erotica, della quale fa le spese ovviamente l’anziano procuratore, illustre giurista e poeta, ma anche vecchio gatto in amore. La Sicilia ancor più tipicamente brancatiano-pirandelliana delle corna, della finzione sociale, di un amore tramato di insicurezza affettiva, pettegolezzi e fantasie compensative, è di scena in Un caso di coscienza dove una storia di adulterio, confessata in una rubrica del settimanale di moda, casa, attualità “Voi”, scuote drammaticamente mariti e amanti dell’ipotetico paese di Maddà, perché gli scapoli i vecchi i fortunati… si stavano divertendo, mentre negli altri cominciavano a rameggiare e stormire l’inquietudine, il dubbio, l’apprensione, in un misto di ilarità narrativa e segreta tragedia coniugale. In generale le donne non fanno una bella figura nelle pagine di Sciascia. Appaiono ora schiacciate o semiridicolizzate, secondo gli stereotipi della mentalità e del costume correnti (discutere con una donna è come lavare la testa all’asino), nel ruolo domestico-casalingo quale abituale oggetto e zimbello della routine familiare (tutta trine ed amore… irta di bigodini e lucente di creme… gettando manate di cavoli nella pentola che bolliva... il parroco le presentava con garanzia della buona osservanza delle leggi cristiane e delle domestiche virtù… ), ora confinate nel ruolo mondano-decorativo di una insanabile vanità (…una delle solite discussioni sui dispendi, le prodigalità, le spese folli), quando non sclerotizzate e fissate dall’autore in un comportamento cinico-profittatore (un piccolo tapis roulant di assegni il marito) o ingordamente consumistico, secondo più aggiornati modelli comportamentali anni ’60 (…adoriamo le cose, abbiamo messo le cose al posto di Dio dell’universo dell’amore. Le vetrine sono il nostro firmamento, gli armadi a muro e le cucine americane contengono l’universo. Le cucine in cui non si cucina, abitate dal Dio dei caroselli televisivi). Sciascia oscilla nei racconti de Il mare colore del vino fra disinteressato divertimento inventivo, da scaltrito bozzettista di matrice rondista messosi alla scuola di Francesco Lanza e dei suoi Mimi, e punte invece sofferte di amarezza sociale, spesso fusi e confusi insieme, come nella Rimozione, dove fra i ripicchi di costume fra genero e suocera, o di maniera fra arciprete, carabinieri, comunisti, la delusione esistenziale e l’ironia si misurano con il traumatico disincanto religioso e ideologico dei devoti di due opposte fanatiche fedi/Chiese, i quali vengono a trovarsi improvvisamente e parimenti depauperati di “miracoli” e di “santi”. Le donne, di Santa Filomena, depennata dal martirologio cristiano, perché mai esistita; i comunisti, perché al XXII Congresso del PCUS (1961) sarà approvata all’unanimità , come conseguenza del processo di destalinizzazione avviato nel 1956, la rimozione della salma di Stalin dal mausoleo monumentale. Ferocemente ironizzato invece, e senza filtri attenuanti, risulta il fascismo nel racconto Apocrifi sul caso Crowley (al quale si ispirerà negli anni ’90 anche Vincenzo Consolo). In esso Sciascia, riscrivendo dei verbali di polizia (lezione di “scrittura” proficuamente raccolta da Andrea Camilleri), verbali che indagavano nel 1924 sull’eccentrico cittadino inglese Edward Alexander Crowley che viveva misteriosamente secondo natura in una villa di Cefalù con 5 donne e tre bambini, denuncia con iroso sarcasmo del regime sia le violenze sanguinarie (assassinio/sacrificio di Matteotti) che le ipocrisie sessuali. E così  -precisa il commissario Caminiti nella sua relazione al Capo della Polizia gen. E. De Bono in rapporto diretto con Mussolini- [Crowley] è passato a dichiararsi ammiratore del fascismo e del suo capo… ché, in questo momento, grazie al fascismo l’Italia gli sembra il Paese in cui più trova elementi di riscontro alla sua visione della vita, [quella] religione del sole e del sangue (sic!) da lui fondata in cui il piacere è frutto del dolore. Relazione che fa scattare da parte dello “smascherato” Mussolini il provvedimento di espulsione dall’Italia di Crowley e per il commissario di Cefalù la qualifica di cretino. In altri racconti è focalizzata dallo scrittore la Sicilia della miseria nei feudi e dell’emigrazione, con immagini e toni antichi e noti, ma sempre attuali. Ora è la truffa feroce subita da un gruppo di emigranti dai sogni traboccanti di dollari e benessere americano (calde ricche abbondanti case, automobili grandi come case), i quali vengono imbarcati in una notte di oscurità cagliata, in un tratto di costa fra Gela e Licata, apparentemente per l’America, e sbarcati dopo 11 notti di navigazione (contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroci promiscuità, soffocanti… immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume…)  presso Santa Croce Camerina a poca distanza da Gela. Truffatore un certo signor Melfa per il quale la differenza fra quei contadini zaurri…villani e i fagotti che si trascinavano dietro stava solo nelle 250.000 lire che portavano cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Ora è il reclutamento di giovani donne dai 18 a meno di 30 anni per una fabbrica svizzera di cose elettriche da parte del signor Blaser che ha verso la loro terra (Paese selvaggio -disse) lo stesso disprezzo razzista dei tedeschi verso i siciliani emigrati in Germania quale lo esprime il giovane appena rientrato da essa: l’uomo non è un cane… non ci vedono, ecco, non ci vedono… E uno si sente come una mosca appesa a un filo di ragno a dondolare su quei loro bicchieri di birra… Una Sicilia dell’immobilismo e dell’abbandono, passata dai delitti dei Vicerè e dalle trame dell’Inquisizione (la cronachetta cinquecentesca rivisitata di Eufrosina) ai soprusi e all’incuria di Ferdinando II di Borbone e di Mussolini, agli arbitri e alla iattanza delle mafie locali, colluse con il potere politico e allenate alle faide reciproche (Una media di due morti al mese. E ogni volta tutto il paese sa da quale parte è venuta la lupara e a chi toccherà la lupara di risposta). Nel racconto Filologia la dotta dissertazione filologica sulla parola mafia, con citazione di dizionari e di linguisti, snocciolata da un anonimo deputato a indottrinamento di un mafioso, che dice di conoscere solo la scienza del portafoglio e della schioppettata e ultimamente della dinamite, vuole illuminarlo a destreggiarsi davanti alla Commissione antimafia (1963) e a sapere usare finemente la discrezione (saggezza, studio,  tatto…). Commissione dalla quale pure il deputato chiederà di essere “sentito”: …Ho anch’io da dare il mio piccolo contributo -precisa- Un contributo alla confusione, si capisce… Talora lo scrittore sembra attratto dal meccanismo in sé di un delitto, quale occasione per una stravagante “sperimentazione” narrativa (come fa ipotizzare la “voce gorgheggiata” e gorgheggiante della donna protagonista di Gioco di società), o dall’articolarsi improprio, stupefacente in accezione negativa, per stratificazioni successive e tardive (A questi fatti...tanto tardivamente emersi e riuniti…) delle fasi di un Processo (vedi Processo per violenza); ma anche in questi casi la sua attenzione mira a spaccati di costume, indugiando su suggestioni e/o pregiudizi individuali e collettivi (Processo per violenza), o su mentalità contorte, da “bella società” (Gioco di società). Un efficace quadro di costume, una Italia/Sicilia anni ’50/’60, viene fuori pure dal racconto Il mare colore del vino che dà il titolo alla raccolta, descrizione di un viaggio in treno (in vettura di prima classe Roma-Agrigento del diretto per Reggio Calabria e Sicilia) di un ingegnere petrolifero del nord in (casuale) compagnia di cinque persone, tre adulti e due bambini di Nisima; gli adulti loquacissimi (padre, madre e una giovane che li accompagna), e maleducati i bambini. Dai discorsi e dai gesti di occasionale cortesia degli adulti (compreso un abbozzo di idillio amoroso fra l’ingegnere e la giovane subito sfumato all’arrivo a Canicattì) e dalle intemperanze e liti dei due fratelli, che fra l’altro non fanno che chiedere e avere cibo e dolciumi (mortadella, banane, aranciata, sfogliate, fragole, tavoletta di cioccolato, granita, biscotti, briosce), emerge una società alle prese con il primo quieto benessere postguerra, soprattutto la categoria degli statali. Società incardinata sui cliché della famiglia (le buone regole della famiglia meridionale con beni ereditari annessi e attesi!), del matrimonio, della religione, del rispetto formale delle autorità (religiose e civili), timidamente avviata al progresso industriale (il petrolio di Mattei) fra ipoteca però della mafia, la cui esistenza è negata dal padre dei bambini (Che mafia? Fesserie!), e boom economico guidato dal nord (E così finisce col petrolio: una canna lunga da Milano a Gela e se lo succhiano). Un piccolo orizzonte, conformista come si diceva all’inizio, individualisticamente e familisticamente bloccato su se stesso, entro il quale però l’irrequietudine trasgressiva nei comportamenti, nel linguaggio, nei pensieri del piccolo ribelle Nené, irrispettoso, irreligioso, turbato dai poveri che dormono a terra davanti alla chiesa e mangiano la minestra nelle buatte (barattoli) del pomodoro e muoiono, introduce ogni volta che agisce e parla un punto di vista antitetico rispetto a quello corrente, libero, nuovo, come la sua irremovibile ostinazione nel dire che il mare di Taormina ha il colore del vino, anzi è vino. Il “contraddire” come sintomo/stimolo di libertà interiore!  E dove sarebbe “l’uomo”, o “l’individuo”, senza la libertà? Lezione/messaggio questa a cui Sciascia, nonostante le gravi successive delusioni storiche e esistenziali fino al trauma del delitto Moro, resterà fedele fino alla fine, se in una intervista, trasmessa postuma nel 1992, lo ascoltiamo dire con l’abituale combattività: “Dio è morto, Marx pure (sic!) e io mi sento bene, voglio continuare a vivere, a pensare, voglio vedere dentro le cose, voglio giudicarle per come sono e voglio essere libero”.

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