“La storia infinita” di Carmelo Fucarino

È mia convinzione, solida come un articolo di fede, che qualsiasi scritto, pensiero o semplice comunicazione, è degno di essere letto, dal trafiletto di un annunzio alla sintesi dell’umana esistenza, I fratelli Karamazov. Pertanto non consiglierò mai di abbandonare un libro, perché nell’approccio risulta noioso, arido o oscuro, secondo quella falsa teoria dell’incipit perfetto, spia di tutto il testo. È sempre espressione di un’anima, il pensiero che si fa vita. C’è un’altra ragione di grandissimo peso: capita che l’abbrivio sia stentato e si riveli poi lo slancio fulminante, la profondità abissale. Le ricevute del cuneiforme o l’onomastica del lineare B sono storia del pensiero quanto Il libro dei morti. Questo volevo premettere, a scanso di scelte elitarie e perciò velleitarie. Credo poco all’aureola di bestseller e reputo che i capolavori sono soggettivi come il concetto di bello e di brutto. Eco docet.

Ma andiamo al libro di Gino Pantaleone, Lĭbĕr (Edizioni Ex libris, Palermo, 2020), titolo in moderna trascrizione ortografica latina, con il segno della quantità delle sillabe. Per chiarire che il riferimento pratico è a quell’invenzione occidentale che ha inizio e completa realizzazione a Roma. Più esattamente chiarito ancora dalle successive indicazioni della radice. La coincidenza, ritengo casuale, è la casa editrice che presenta il logo di una invenzione connotativa ed oggi preziosità del libro, gli ‘ex libris’, con la rappresentazione grafica di una stamperia antica. La copertina bianca si fregia della trascrizione a forma di clessidra della lettera del 31 marzo 1468 al doge Cristoforo Moro del cardinale Bessarione (forse Basilio) di Trebisonda, protagonista dell’illusione di una unificazione cristiana al Concilio di Ferrara e Firenze. È il più alto e completo encomio-inno dei libri. Sempre ad illustrazione del saggio il sottotitolo ne dichiara in sintesi la partizione degli argomenti.

Al primo posto, tema fondamentale e dominante, ritengo, la ‘storia della scrittura’.

Evidente il proposito di Gino Pantaleone, quello di voler tracciare la storia eccezionale, il passaggio dell’homo sapiens, per dire più precisamente ed intrinsecamente, la storia dell’Uomo, quando diventa soggetto di episteme in amplificazione della semplice doxa, che poi è la sua complessa sintesi esistenziale. Certo anche l’empeirìa, la creazione pratica, per dire i manufatti, in sintesi, dalla banale scheggia di ossidiana dell’età della pietra, alla scoperta del ferro e poi del bronzo, all’invenzione della ruota, anche essi hanno segnato la storia dell’uomo, dalla pelle dei mammiferi all’abito Armani, dalla penna di uccello al lampo di un bit. Ma sempre come strumenti, come techne al servizio dell’uomo razionale, alle sue sinapsi neuroniche.

Perciò Pantaleone apre con la sbalorditiva scenografia di quei magici arcani che l’uomo ha lasciato nelle sue primitive abitazioni offerte dalla natura, quelle grotte che dall’Addaura di Palermo a Levanzo, alle più famose e complesse a Lascaux e ad Altamira, fino alla Cueva de la manos in Argentina, le figure scalfite che ci rimandano alla vita di allora e a misteriosi rituali, la forma più primordiale di iniziazione e misticismo. L’imago, quasi il segno inconscio del bambino della psicanalisi junghiana. Da esse il passo naturale del processo evolutivo con lo stacco di millenni fu il segno, che Pantaleone analizza nelle sue forme evolutive e nelle sue caratteristiche formali e concettuali, dal cuneiforme con i suoi strabilianti passaggi di ricevute fino alla vera e propria narrazione, ai più noti geroglifici, alla recente traslitterazione del lineare B. Ancora qui l’immagine che si eleva a rappresentare idee, perciò ideogrammi. Si vuole trascrivere l’oggi per il futuro, la legge del re o faraone per tutti i sudditi. Il vocabolario cinese di 46 mila ideogrammi, dall’origine  con i pittogrammi agli odierni logogrammi, dimostra la difficoltà dell’apprendimento, se ad uno studente si richiede la conoscenza di almeno solo 5 mila simboli. Tacciamo della estrema difficoltà delle tre forme di scrittura giapponese.

Questo per esplicitare la rivoluzionaria invenzione della scrittura fenicia, che riconobbe il metodo della trascrizione grafica convenzionale dei semplici fonemi. Solo in quell’intuizione geniale la storia del pensiero e della sua trasmissione divenne una realtà e rese tutto più semplice, nell’adattamento al complesso fonetico degli Elleni e della loro trasmigrazione nell’etrusco e nel romano, detto per estensione latino. Questo il travagliato iter di adattamento che segue Pantaleone, fino agli usi moderni e alla particolare scelta del cosiddetto cirillico. È un viaggio nel mondo della trasmissione del pensiero attraverso la trascrizione dei fonemi, e nella tradizione letteraria delle opere di ingegno.

Tutto quello che segue fino alla rivoluzione di Gutenberg e alla stampa nella sua evoluzione fino ai lucidi di stampa odierni è solo questione tecnologica. In occidente la storia della trascrizione del pensiero comincia con il liber, un oggetto che ha un nome magico e plurivalente, sul quale si potrebbe scrivere un libro. La radice etimologica riprende l’indoeuropeo *hleud, che come il proto-italico *leupero, rimanda al valore semantico di “libero”. Uno spiraglio storico lo dà Cicerone, ove riferisce la comune consuetudine umana di elevare al cielo degli uomini eccellenti per i loro benefici: assieme ad Ercole, Castore e Polluce, Esculapio cita anche Liber, «questo Liber dico nato da Semele non quel ‘Liber’ che i nostri antenati venerarono con solennità e devozione assieme a Cerere e a Libera, culto che si può comprendere quale sia dai misteri, ma anche dal fatto che chiamiamo ‘liberi’ i nati da noi» (de nat. deor. II, 62). Era dunque una divinità agreste celebrato nei Liberalia, il 17 marzo, giorno di grande rilievo sociale, in quanto i giovani che erano ancora senza praenomen, il nostro nome di battesimo, diventavano viri, acquistandolo e indossando la toga virilis. Il termine era quindi mistico-religioso e si estendeva alla fecondità e alla generazione dei figli, ma cosa di estrema importanza ampliava in modo stupefacente il campo semantico a ‘Libertà’. E come non essere d’accordo con questa radice di una profondità allucinante. Gli Elleni si erano limitati ad indicare meccanicamente il libro con il materiale scrittorio usato, il byblos (βύβλος), cioè il “papiro” (Cyperus Papyrus).

Oggi non conosceremmo Omero se in assenza della rivoluzione fenicia della trascrizione dei fonemi fossimo rimasti alla trasmissione aurale, come continuò ad avvenire per l’epos dei cosiddetti “primitivi” moderni (termine razzista e discriminante dell’etnologo Cocchiara, di reminiscenza rousseauiana). Ma non ci sarebbe neppure Platone che pure aveva escluso la scrittura nella celebre delucidazione del mito di Teuth:  «la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria» (Fedro, 274c - 275b, trad. it. Giovanni Reale). Nella storia umana si è proceduto per acquisizioni ed invenzioni, ma sicuramente la più straordinaria fu questo passaggio di trascrizione dei fonemi. Imperfetta per quanto si vuole, anche con l’invenzione alessandrina dei segni diacritici, ma pur con un’accettabile approssimazione al suono reale che non è trascrivibile nel suo ritmo tonalità versatilità espressive. In confronto alla scrittura tuttavia, nonostante questi limiti di perfetta trascrizione di atteggiamenti umorali e sonorità e inflessione mantiene il merito insostituibile della eternità della trasmissione del pensiero. Il fonema, la glossa, la lingua, segna il nunc che svanisce con la stessa evanescenza del suono, la scrittura ci propone il semper. La storia della tradizione dei testi sa di miracoloso e di magico. Basta pensare alla fuga dei saggi da Costantinopoli e all’arrivo dei codici greci o all’impensabile traduzione islamica di Aristotele da parte di Avicenna ed Averroè.

Il saggio di Pantaleone vuole percorrere questo lungo iter della trascrizione, dai primi segni lasciati migliaia di anni fa nei graffiti delle grotte del neolitico fino alla standardizzazione della stampa moderna. È un percorso avvincente che segue questo lungo amore dell’uomo per la eternità esistenziale. Contro la sua capacità di diffusione e di penetrazione, per la tradizione e la continuità del pensiero le ricorrenti fiamme dei roghi, falò ad assassinio dell’uomo-libro, alla stregua degli eretici e delle streghe. Perciò i capitoli VI e VII, per ben 23 pagine si occupano dell’altra sezione annunziata dal titolo, le biblioclastie, fortuite o volontarie, opera di fanatici incendiari o in nome di un dio. Perciò la distruzione del pensiero ‘indesiderato’, quei miliardi di papiri e pergamene, dalla celebre Biblioteca di Alessandria, a Savonarola, all’Inquisizione, fino ai recentissimi indici dei libri proibiti e alla scure della censura.

È evidente l’importanza dell’analisi di Pantaleone, per dare un punto fermo a noi che viviamo in un’altra fase di trapasso della trasmissione della cultura. Eppure io, come tanti altri, sono rimasto alla nostalgica e antistorica, se volete, emozione della carta stampata, al suo profumo, odore di nuovo e di vecchio, al suo colore dal giallo dei secoli allo splendore bianco dell’oggi.

Come se non bastasse la brutale crasi ideologica, è sopravvenuta l’era della codificazione e trasmissione digitale, che ha cancellato quel secolare mezzo scrittorio, comunque fosse fatto, di stracci o di cellulosa pura o pergamena. Anch’io per ragioni pratiche sono entrato nell’era del bit, a cominciare dall’Olivetti ancora con tastiera, ma registrazione visiva. Ora, amici, mi ritrovo con i miei scritti nei memorabili, rivoluzionari floppy disk, cimeli di un passato, ermeticamente e cripticamente esclusi alla mia lettura. Tanti anni di memorie, di scritti, per i quali nessuno mi disse che dovevo trascrivere con altre tecnologie avanzanti. Una parte della mia vita resta chiusa in dischetti di plastica indecifrabili. E li custodisco e li guardo con pena, come un sepolcro. Eppure diversa fu la sorte di cuneiforme e geroglifici che essendo scolpiti si sono resi eterni e decifrati. Il disk rimane una tomba senza possibilità di ritorno. Così dal floppy al CD e al DVD. Tecniche e codici nuovi e montagne di plastica indecifrabile, che non riesco più a far parlare, come il cimitero di cassette filmiche con racchiuse mie esaltanti esperienze.

In questa catastrofe l’unica mia salvezza la stampa che ha salvato almeno una parte di me.

La biblioclastia ebbe sempre una base ideologica, la ha tuttora. La scienza moderna lo sta facendo inconsciamente o consapevole attraverso la sua metodologia che mira al superamento di standard considerati obsoleti, ma in parte sorretti da un fattore economico. Rinnovare per aprire un nuovo mercato. E l’anima umana? Si salverà nel cloud?

Riuscirà la carta stampata a vincere l’impari lotta di smartphone e tablet? Propiziatoria una parvenza di rifiuto dell’effimero. Augurando che il tuo lavoro, Gino, sia guida che indichi la strada.

 

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