“La Paura”, il capolavoro dell’ultimo De Roberto - di Maria Nivea Zagarella

A 160 anni quasi dalla nascita di Federico De Roberto forse non è inopportuno recuperare, date le molte guerre trascurate o dimenticate tuttora in corso in zone calde del mondo, un suo gioiello narrativo, il racconto La Paura (1921), “sfortunato” ai suoi tempi come tanta parte dell’opera dello scrittore, non ultimo l’incompiuto romanzo L’imperio, pubblicato postumo nel 1929. La Paura, fra i racconti di Federico De Roberto ispirati alla Grande Guerra (All’ora della mensa, Il rifugio, L’ultimo voto, La retata…) spicca su tutti, vero capolavoro dell’ultima fase della sua vita per l’avvertito psicologismo e il sapiente variare del registro stilistico. Nato a Napoli nel 1861, ma vissuto dal 1870 a Catania (esclusi i soggiorni più o meno lunghi a Firenze, Milano, Roma), De Roberto si era allineato con l’interventismo, ma senza toni accesi di nazionalismo, o peggio, di imperialismo, inclinando poi progressivamente al pacifismo (articoli de Al rombo del cannone,1918; All’ombra dell’ulivo,1920). Il racconto, dall’evidente contenuto anti-militarista e anti-istituzionale, ha per protagonisti gli umili fanti che si logoravano nei fossi delle trincee… sostenevano tutte le fatiche… affrontavano tutti i pericoli… pativano tutte le torture. L’autore vi scalpella un episodio emblematico ambientato nella desolazione della Valgrebbana, fra le ferree scaglie del Montemolon, le piramidi delle Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Folpola, un posto -scrive- spaventoso, dove le trincee erano state aperte spaccando il vivo masso con le mine, e si vedeva l’ossatura della terra messa a nudo, scarnificata, dislogata, rotta: né un albero, né un filo d’erba o di acqua, solo un caotico cumulo di rupi e di sassi. Nell’orrido incipit naturalistico-realistico è già inscritto il crudele destino del plotone di soldati confinato lassù in una posizione meno vantaggiosa rispetto agli austriaci, specie per quella piazzuola di vedetta che sorvegliava l’imbocco del canalone che finiva nella conca del Corbin, piazzuola scoperta in un tratto del suo accesso, ma che andava mantenuta per evitare terribili sorprese. Sbalestrati nella guerra, gli uomini delle due linee nemiche, ma vicini spazialmente (italiani da un lato e boemi poco disposti a morire per gli Asburgo dall’altro), nel prolungato fronteggiarsi senza attacchi reciproci, riescono quasi a fraternizzare (scambi di pagnotte e pacchetti di tabacco), ma ai primi chiarori di un’alba d’agosto gli ungheresi, mandati a sostituire i boemi, aprono le ostilità. Il tenente italiano Alfani è quasi lieto della novità perché la stagnazione precedente gli era venuta a noia (meglio le avanzate sotto il fuoco nemico, meglio gli urti contro i reticolati… meglio la morte in campo che quell’inerzia snervante, quella sospensione nel vuoto). E invece inizia per lui e per i suoi “ragazzi” qualcosa di più “snervante” e feroce a causa di un cecchino nemico che, nascosto dentro un crepaccio, aspetta al varco, ammazzandoli uno dopo l’altro, i soldati mandati allo scoperto verso la piazzuola.

La novella si sviluppa fra due poli in uguale tensione. L’angoscia umanissima degli uomini (fanti e tenente) per la Morte vigile, pronta a balzare e a ghermire; e l’incombere selvaggio della Natura, nell’oscurarsi anche, in crescendo, del sinistro paesaggio per il formarsi della pioggia. Punto di rottura finale sarà il suicidio, per la paura, del veterano eroe d’Africa Morana, medaglia di bronzo nella guerra in Libia: se ne appuntò la bocca (del moschetto) sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto. La scrittura oggettiva e distaccata di De Roberto e le stesse scelte lessicali (lastra di piombo, tenebrore, gocce di neve strutta… hanno cagnato ‘e truppe ‘a chella parte…) restituiscono una Natura “ghiacciata”, distante, estranea al dramma umano, mimeticamente calato nei diversi idiomi regionali dei fanti, in dialogo fra loro o uniti in “cori” di risposta e reazioni all’unisono (Ma coma! Ma nissun! Abbisogna annà! Chi l’è che dis de no?...), i quali patiscono in aggiunta alla guerra l’ossessivo peso/schiacciamento del paesaggio. Dalle stelle della notte palpitanti nella metallica (sic!) lastra del cielo staccante sulla terra nera, al cielo dell’alba che luce come specchio freddo e terso con un fiocco di nuvolaglia… che striscia a guisa d’un serpe sul muraglione del Montemorol insinuandosi infido fra le due Grise; dalla punta del Palalto che al primo sole si accende come la bocca di un Vulcano, alla nuvolaglia che stagna torbida sul monte e alla base dei picchi, ai vapori che esalando da tutte le insenature delle valli e spaccature dei precipizi formano un tempestoso oceano aeriforme su quell’oceano di sasso, dove, in un grigiore gelido, scenderà infine una pioggia che andrà a rigare in grosse gocce come lagrime (impietrite) le guance terree di paura del renitente ex eroe Morana: Signor tenente -dirà per tre volte all’ufficiale- io non ci vado. Si aggiunga il crocchiare cadenzato degli uccelli rapaci che roteano sulla piazzuola, attirati dall’odore del sangue dei soldati già caduti, e da cui giungono alla vicina trincea i lamenti di chissà quale ferito (Ahi! Ahi!...Aiuto!…), mentre i compagni sfogano angosciati la loro impotenza: Ha da morì’ comm’un can?... Poro fijo de mamma sua! Se nel remoto silenzio di quelle selvagge altitudini l’impassibile fenomenologia naturalistica contribuisce a più crudamernte marcare il destino impietoso di quei piccoli uomini (vedi il mangiare al mattino golosamente la zuppa calda e dolce di pane), fermati tutti al rallentatore nei loro inutili, aleatori, gesti di resistenza alla morte acquattata lì presso, dall’altro lato l’ingranaggio atroce della guerra con i suoi automatici meccanismi, leggi e privilegi, gerarchie formali e coartanti, forma mentis cristallizzata, non risulta meno impassibile e gelidamente inesorabile della Natura nello stritolare le vite indifese e “cosificate” dei singoli: ce ne mandi tanti (di uomini) -dice perentorio ad Alfani dall’altro capo del telefono l’ufficiale di servizio- finché i caduti formino parapetto (sic!), quasi fossero i fanti semplici “sacchi” o “sassi” funzionali alla bisogna del momento.

Le canzoni canticchiate ora tristemente dal singolo, ora insieme allegramente in una sorta di temporaneo, esorcistico, rito collettivo contro la paura (Spunta l’alba del sette agosto/ scomenzia el fogo de fanteria…; E mi comandi ch’el mio corpo/ in sei tocchi el sia tagliàel terz tocch a la mia mamma/ per regordagh el so fioeu…), la suggestione fatalistico-sapienziale dei proverbi evocati (pecora nera pecora bianca: chi more more, chi campa campa… lu nasce e lu murì, ‘icca Quagliuccia/ vanno accucchiate come la saggiccia), lo stesso realistico e continuo -come si vede- incrocio pluridialettale, scandito dal ciclico, onomatopeico, sinistro ta-pum del fucile del cecchino, dal lamento del misterioso ferito (Chi sarà quel disgrassiato?), dal volo gracchiante degli scorbatt, creano una equiparazione/livellamento nella “chiamata” alla Morte che enfatizza la sconfitta esistenziale dell’Uomo, vittima colpevole delle sue stesse follie. Il turno è sacrosanto, incalzerà il tenente Alfani il veterano Morana, e gli altri compagni d’arme intanto sono già tutti miseramente caduti falciati dall’infallibile ta-pum: il ragazzo ancora imberbe Caletti, dal viso bianco e roseo che pareva una mela, con occhi chiari, pieni di stupore; Maramotti svegliato bruscamente nel sonno, dalla faccia bruna, magra, cotta dall’aria e dal sole, mossosi al richiamo un poco traballante, come avvinazzato; il lombardo ardimentoso  Gusmaroli, ragazzone atticciato e nerboruto, propostosi volontario, svelto e giocondo, per salvare l’anziano Zocchi padre di tre figli; lo stesso Zocchi, umile sarto a casa sua, alto, magro, con i segni delle fatiche sul viso scarno e nelle cave occhiaie, e con le orecchie spalmate come manichi di pignatte. Quando Zocchi torna un attimo indietro per chiedere al tenente se il Governo provvederà alla sua famiglia, Alfani ne coglie tutta la paura (che è pure la sua) nello sguardo tremulo, nelle labbra pallide, nei ginocchi che si piegano, nella mano che pare voglia lasciare il fucile, e si sente diviso nell’intimo fra prepotente bisogno di evitargli il pericolo e pena per non trovare il come. E ultimo, prima di Morana, cadrà il rassegnato Ricci (N’è vera niente, Gulissia. Mi chiama la morte), un marchigiano biondo e pallido che, dopo avere riposto lentamente dentro il sacco i suoi cenci, calze sudice, rozzo specchietto, pezzetto di sapone… invano confortato dal compagno siciliano (Nun ti scantari, ch’a Bedda Matri t’aiuta), indugia timidamente per chiedere il Cappellano, e il tenente lo “assolve” in assenza di quello, e lo abbraccia, “stampandogli” due baci sulle guance. Umanissime (sempre attuali) microstorie, individualmente pregne di un fatalistico, tragico, ethos, dalle quali risalta anche il forte legame affettivo che si era venuto a creare nelle trincee fra “tenente” e fanti. Il tuo tenente che è qui con te -dice Alfani a Ricci- esposto alla morte come te… Un tenente Alfani che soffre tutta l’inutilità degli avvertimenti/incoraggiamento a non esporsi lanciati ai “suoi” ragazzi, che freme di rabbia contro i nemici e l’inafferrabile cecchino (a pugni stretti fremente fissava la piazzuola) e che si rivolta dentro per l’insensibilità dei superiori (Maggiore, Colonnello, Generale), da cui aspetta invano l’ordine di sospensione della consegna a presidiare senza i necessari ripari quel posto di vedetta. Un ufficiale Alfani, che condivide totalmente, contro lo stupido e crudele stillicidio di una strage lenta, metodica, inutile, l’angoscia/cruccio dei suoi uomini (Non c’è mica gusto a fass’ammazza’ così!... ma sossì a s’ciama fè la mort d’l ratt!) i quali mormorano contro i pezzi grossi ben tappati al sicuro da ogni pericolo (i luserton dàn i orden, e nu se ghe lassa la pell… Dura la guerra, che mi resisti!...), e che dopo la morte di Ricci è tentato di infrangere quella irrazionale consegna che costava troppe vite. Perciò la ridda nel suo animo, al rifiuto di Morana, di opposti sentimenti, trovandosi ancora una volta scisso fra senso/obbligo della disciplina e del dovere (gli ordini li sai?... Lo sai che io debbo eseguirli?), e pietà impotente per la folle paura di quell’uomo che la legge di guerra gli dava il diritto di uccidere con sei pallottole nella schiena; fra esortazione commossa e fraternamente solidale (Vuoi mettere con le spalle al muro il tuo tenente che ti vuol bene?) e sdegno ribelle, e dolorante, a un tempo, contro il fantasma della viltà e il costo amaro dell’eroismo: Soldati, qui c’è un vigliacco che vorrebbe essere saltato! E mentre fanti e tenente patiscono insieme “torture” fisiche e psicologiche, e il tremore di tutto il corpo del soldato Morana cresce spaventosamente fino alla protesta ultima del suicidio contro l’automatismo cieco della guerra e delle sue istituzioni, corda di beccaio che trascina la vittima al macello, altrove, lontano dal fronte -denuncia lo scrittore- la Guerra era solo roboante retorica di fieri proponimenti a uso e consumo di imboscati, eroi da poltrona, speculatori che lucravano sulla grande sciagura. Denuncia integrale quella di De Roberto, che spiega perché il racconto fu rifiutato dal mensile letterario dell’interventista “Corriere della sera”, “La Lettura”, e venne pubblicato invece da una rivista minore, ”Novella” (15 agosto 1921), e da “La fiera letteraria“ (erroneamente come racconto inedito) soltanto anni dopo, il 31 luglio 1927, a pochi giorni dalla morte dell’autore avvenuta a Catania il precedente 26 luglio.

 

 

 

 

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