“La pandemia esistenziale e l’incontro con l’altro nella silloge poetica “Ipostasi di buio” di Rossella Cerniglia” di Guglielmo Peralta

Questa “Ipostasi di buio”, nuova silloge poetica di Rossella Cerniglia, è un cammino arduo, “senza sentiero”, tra le angosce esistenziali e le tenebre della “notte nera” del mondo, dell’umanità “alla deriva”. È un procedere sul filo del rasoio in cerca di un lucore che lasci intravedere una possibilità di salvezza, che rischiari il “nulla più nero”, quel “buio” divenuto sostanza (hypostasis) del mondo, il quale ne costituisce la rappresentazione concreta ed è, perciò, il suo correlativo oggettivo. E il mondo è la realtà quale storicamente si è determinata e che in questo nostro tempo della povertà (per dirla con Heidegger interprete di Hölderlin), ha finito per degenerare offrendo una rappresentazione cruda e “nefasta” della natura umana, la quale, in quanto “incarnazione” del buio, è lungi dall’essere emanazione della sostanza divina, di quel Dio divenuto “oscuro”, “ombra piantata / nella zolla”. È, quest’ultima, una sineddoche che rimanda al “Giardino” che abbiamo rimosso, sepolto, obliato, irrimediabilmente perduto, ed è un’immagine che la Cerniglia ci restituisce, come di ciò che resta della Notte; residuo della memoria e traccia per un auspicabile ritorno difficilmente percorribile, perché nostos, destinato a restare desiderio struggente, bene irraggiungibileSehnsucht».

      La silloge è una testimonianza e una denuncia di questo nostro tempo, di una nuova epoché[1], in cui con l’oblio dell’essere e della verità abbiamo perduto, definitivamente, l’orma della divinità. Per cui difficile è il cammino in assenza di qualcosa di autentico che sostanzi la vita, il nostro vivere nell’oscuro abisso, nell’annichilimento e nell’illusione di giungere alla luce. È la narrazione del “Profondo inferno” (titolo, questo, della seconda sezione), nel quale è piombato l’uomo, incapace di bellezza e di ragione, di elevarsi spiritualmente, di liberarsi, di dissolvere in un improvviso bagliore, in un’agnizione ontologica, questo “buio” proteiforme, sul quale molto ha meditato la nostra poetessa dandocene un’ampia descrizione e narrazione nella silloge precedente: “Il retaggio dell’ombra”, dove l’ombra che ci opprime è il vuoto e il deserto, la falsificazione della realtà e la sua inconsistente apparenza, il vivere, ciascuno, il proprio essere come mancanza, nel desiderio costante di accedere a una conoscenza più vera e autentica, fuori dalla caverna platonica dalla quale non siamo mai usciti. Anche qui, come nelle altre sillogi, la poesia della Cerniglia va a nozze con la filosofia, si fa pensiero poetante, racconto del malessere spirituale e del tonfo morale di un’esistenza che afferisce all’intera geografia umana, sconvolta, logorata, degenerata e depauperata dei suoi valori fondamentali in un contesto storico “radicalizzato”, dove le lotte sociali, politiche, economiche assumono forme sempre più esasperate e insostenibili. Tuttavia, il ‘discorso’ poetico trova qui il suo “input” e la sua più eloquente espressione nel bisogno comunicativo della nostra poetessa incline all’introspezione, a fare chiarezza nel “buio” del proprio mondo interiore, nel "Chaos" che non è il disordine ma, come suggerisce l’antico termine greco, lo  "Spazio beante", lo "Spazio aperto", ciò che emana dal profondo e che abitiamo, e ci chiama al müssen, al dovere assoluto di ‘essere’; che ci chiede di essere ciò che ‘siamo’, nel segreto e nella veglia del sogno, o dell’immaginazione creatrice. Il “buio”, allora, è questo imperativo, questa impetrazione, ed è l’interrogarsi e l’attesa di una risposta, di una grazia che giustifichi il nostro esistere, l’esistere del mondo. Forte è il tratto autobiografico, che tiene insieme le tre sezioni del libro (“Amore amaro” è la terza) e i testi, formando un tutto organico: un complesso di riflessioni filosofiche e teologiche, di ricordi, sogni, passioni, volizioni, sentimenti contrastanti, di aspettative e delusioni. La poesia e la poetica della Cerniglia sono frutto dell’esperienza vissuta, che possiamo rinominare col termine tedesco «Erlebnis» usato da Dilthey nella sua concezione storicistica per indicare il processo di formazione e la vita attiva che trovano l’espressione più autentica nell’interiorità e nel fluire della coscienza, che il positivismo tendeva a ridurre a semplice processo fisiologico, meccanico, associativo. Qui, in questa silloge, espressione e sviluppo ulteriore del pensiero poetante della Nostra, la ricerca dello scopo, del valore, del significato dell’esistenza, o anche della semplice compensazione del ‘male di vivere’ soggettivo e storico, volge verso la sfera più intima, dove una maggiore conoscenza emerge come punta di iceberg dalla profondità. Ed essa è vita desunta dalla vita, che è meta dell’andare là dove «nessun affetto è troppo lontano», ché  «Vicino è il paese / che chiamano vita». (Rilke) C’è dinamismo in questa indagine, perché c’è forza e volontà di manifestare, di esporre alla prova della luce l’anima profondamente nostalgica, innamorata e perduta, di darle voce, per com-prendere, sperare, r-esistere, continuare il cammino, non arrendersi con-fidando nell’amore, anche se è “amaro”. E ciò è dichiarato nell’esergo posto in testa all’opera, in quei versi di Rilke, che suggeriscono anche di abbandonarsi, di rassegnarsi affidandosi al caso senza nulla temere:  «Lascia accadere ogni cosa: bellezza e terrore». Questi due poli così distanti, eppure facce della medesima medaglia, che è la vita, occupano la mente e il cuore dell’Autrice e costituiscono il centro del suo ‘racconto’ poetico, al quale queste opposte ‘presenze’ conferiscono  una ‘radiante’ oscurità, una commistione di buio e di luce, oserei dire, di “timore e tremore”, prendendo in prestito dall’apostolo Paolo e da Kierkegaard questo binomio e riferendo i termini, più che alla nozione del peccato che consente di comprendere il rapporto dell’uomo con Dio, o al racconto biblico del sacrificio di Isacco, rispettivamente, alla “tenebra” e alla “bellezza”. C’è pathos in questa silloge, che con potenza drammatica suscita, per l’appunto, grande commozione estetica e un’intensa emozione negativa. E c’è lotta ed equilibrio tra i due ‘sentimenti’ contrastanti, nonostante il retaggio dell’ombra abbia continuazione, sviluppo e connotazione più precisa in questa Ipostasi di buio, dove assume il senso multiforme del “vuoto”, ovvero, della “notte nera”, del “nulla più nero”, della “notte del caos [che] ancora dura” in  “questo tempo morto”, senza più sogni; del passato, dei “giorni lontani” in cui si è morti e sepolti, traducendosi, l’ombra, nello stato psichico dell’angoscia, caratterizzato da intensa ansia e “timore”, da “terrore” e oppressione dello spirito generata dalla profonda inquietudine, dalla sofferenza e dalla pietà, esasperate dalla particolare sensibilità della Cerniglia. La quale, però, non cede al ‘sostanziale’ “buio” del mondo (“sterile deserto / che non conosce pioggia”), all’“infinito crepuscolo”; non si rassegna “al caos / ingombrante della vita”, alla “calma infinita e spettrale”, trovando forza ed equilibrio nella bellezza, in questa “virtù” che è la sola in grado di distoglierci dal nulla, di mitigare le ferite dell’anima; che la fa palpitare facendole provare quel mirabile, solenne “tremore” dinanzi a qualcosa d’impareggiabile, di divino, che la bellezza rappresenta e annuncia. Soprattutto, quando nell’animo della nostra poetessa alligna il pensiero della morte insieme con la speranza di “una fine che non ha mai fine”, il tutto travasato nel corpo centrale della silloge, in “un’onirica visione”, dove “il nulla [è] declinato nelle sue variabili forme”, nelle immagini desolate dell’“inferno” terreno, a fronte del quale cresce il “terrore” di venire  traghettati  “per altro oceano più insensato e vuoto”, onde viene meno la fede nella salvezza, e con essa “il fiato dell’Immenso”, quella presenza religiosa che si avverte in più punti, sia pure in una prospettiva critica, e che è il cuore del libro.

      Sebbene la prima sezione dia il titolo alla silloge, essa non è la parte più importante, avendo la funzione d’introdurre quanto sarà sviluppato nelle altre due sezioni. È il poemetto intitolato “Profondo inferno” a connotare la raccolta, a darle un forte spessore semantico, un’espansione tematica e stilistica, un alto profilo filosofico nel quale s’intrecciano riflessioni di carattere etico, estetico, psicologico, sociale, politico, con risvolti ontologici e religiosi. La Cerniglia s’interroga sulla condizione storica dell’umano denunciandone gli esiti drammatici nel tempo attuale: la profonda crisi spirituale con la consequenziale perdita dei valori; l’incapacità di sognare, di scommettere sulla vita inventando un futuro migliore contro “un destino / che porta morte con sé”; la rovinosa caduta in “un odio divenuto etico, divenuto legge”; l’insana furia omicida, e ancora quel pandemico Nulla, più mortale della pandemia virale che ha colto di sorpresa il mondo già “ammorbato / d’altre morti”. Il tutto è reso con accorata partecipazione, con animo turbato e commosso, con “timore e tremore”, con “bellezza e terrore”, con la fermezza e la profondità del pensiero poetante che non lesina parole sull’amore e sulla vita. Pensare, amare, esistere sono sinonimi per la Cerniglia,  per la quale pensare significa, come suggerisce Heidegger, mettersi sulle tracce dell’essere per soggiornare nella verità dove solo c’è vita autentica.

      Nel poemetto colpisce l’uso, in alcuni luoghi, del pronome personale «tu», anche sottinteso, o in forma impersonale. Esso è, a volte, un elemento naturale - il sole, il tempo - cui la Cerniglia attribuisce una funzione negativa, “matrigna”: al sole di “largire illusioni”, al tempo di essere esiziale e sempre in fuga.  Altre volte il «tu» è rivolto ora all’uomo ora al popolo della Terra, sì che questo «tu» è «pronome universale», è l’altro che com-prende l’intero genere umano, che la nostra poetessa sembra riconoscere come ‘prossimo’ facendosi, a sua volta, ella stessa ‘prossimo’ dell’altro: non nella cura, come insegna il buon samaritano, ma nella cattiva sorte comune, nella ‘pandemia’ esistenziale. Forte è il sentire e il denunciare tanto dolore, tanta sofferenza. Insostenibile è la sua ‘disperazione’ quando il “buio” invade la coscienza e si rivela ipostasi: ‘sostanza’ e condizione atavica dell’umano. Quanto più la ‘disperazione’ è kierkegaardiana negazione di sé, del proprio io, tanto più ella sente il bisogno di ritrovarsi, di realizzare quella che Kimura definisce «traità intrapersonale»[2]: l’incontro col proprio Io come “condizione preliminare per incontrare il se stesso dell’altro”. Nonostante tale approccio avvenga in stato di sofferenza e d’intolleranza - la Cerniglia, a volte, apostrofa l’uomo (“Ma sei un bambino che non è cresciuto / padrone sempre di sé, e in sé del mondo / ancora adesso non sai che niente è tuo / e niente ti appartiene / (…) e tutto lascerai un giorno”), altre volte lancia delle invettive contro i popoli, o rimprovera l’uomo di essere imbelle, indifferente (“Ma niente tornerà alla tua gioia / o schiavo amante delle tue catene / (…) nient’altro che una tristezza lacera e malconcia”) – tuttavia, nonostante la rabbia e il dolore, non vengono mai meno i valori estetici, il riconoscimento della bellezza dei legami sociali e, dunque, il bisogno di relazionarsi con quel «tu»; e grande è l’amore per la poesia come parola essenziale, che scaturisce dall’intimità profonda e dà gioia e si fa luce accanto al “buio”. Così la sofferenza si fa sostenibile, la vita attinge alla propria sorgente.

      L’amore, protagonista della terza sezione, è assente nella prima ed è nominato solo due volte nel poemetto. Ma è un’assenza solo apparente perché, paradossalmente, c’è amore dove c’è mancanza d’amore. Là dove c’è buio nel cuore degli uomini, dove c’è “un odio divenuto etico, divenuto legge”, dove non ci sono più “gli uomini che un tempo amavano”, dove il mondo, la vita sono un “profondo inferno”, là dove la perdita dell’amore è apertamente dichiarata (“l’amore [è] divelto dal mio cuore”) c'è “un desiderio forte / di luce”, l’amore emerge, si fa presente, ed è un bisogno incontenibile che non può restare insoddisfatto. Esso, senza essere nominato, si rivela, in tutta la sua potenza e bellezza nei seguenti versi che chiudono il poemetto:

Eppure nella brace che tu emani / torni a pensare / in una sorta di dolcissimo stupore / a questo universo che era un tempo / buio cadere di stelle silenzioso / e ancora invochi un’alba / che non muore”.

Non c’è amore più grande di quello che si esprime nella brama di vivere; nel tornare a stupirsi nel solo ricordo di un universo stellato, un tempo prodigo di sogni e di promesse, di desideri appagabili; nell’invocare una gioia, una luce perenne, una resurrezione dal dolore, dall’oscurità profonda. In quel «tu» impersonale, che com-prende tutti, la Cerniglia si rispecchia, e tutti chiama all’ascolto della ‘verità’ che, in parte, si concede al pensiero capace di contemplare tanta bellezza e stupirsi del miracolo della vita dove Dio si rivela, ed è l’ “Amore che l’essere riassembla / e lo riplasma a una vita rinnovata e futura”. L’amore dell’ultima sezione è il ‘canto del cigno’ che prelude al volo del pensiero, alla libertà, alla possibilità di uscire dal buio, dalle catene della notte.  È il sentimento ‘privato’, personale, carnale; è lo spirito che si fa passione, “tempestoso ardore” e rimpianto nel ricordo di ciò che fu o di “quel che non è stato” e perciò amaro, struggente richiamo nella notte, “nei labirinti oscuri del sogno”, dai quali sarà dato alla nostra poetessa di uscire e di ritrovare l’amore perduto “forse in un altro tempo / (…) al di là d’ogni tempo”, dove il sogno s’invera e si eterna. L’amarezza è mitigata, sul finire dell’opera, dal desiderio di “un’alba che inondi / le radici della vita / e le ristori di grazia / celestiale”: immagine che richiama la chiusa del poemetto e che, dopo tanto buio, ci fa tirare un sospiro di sollievo; ci fa uscire dal «profondo inferno»,  «a riveder le stelle». 

 

 

[1]gr. : ‘sospensione’. Qui il termine è usato nel senso heideggeriano , riferito all’essere che si rivela nascondendosi in modo sempre diverso nelle varie epoche della storia della metafisica.

[2]Bin Kimura, Tra per una fenomenologia dell’incontro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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