Tommaso Romano, "La Casa dell'Ammiraglio" (CulturelitEdizioni) - di Guglielmo Peralta

Tutto sembrava per sempre, statico, in qualche caso immobile da secoli, fra i mille abitanti inanimati della casanima dell’Ammiraglio”.
      Un ossimoro salta subito agli occhi nell’incipit di questo romanzo, dove la staticità, l’immobilità  secolare degli oggetti, contrasta con la loro definizione di “abitanti inanimati della casanima”, dove essi sono personificati e, dunque, trasfigurati, animati. A loro appartiene quell’anima, che essi ‘trasferiscono’ alla casa. L’ossimoro, perciò, si scioglie nella personificazione che lascia immaginare una loro natura segreta. Da ogni oggetto l’Ammiraglio trae un frammento di vita: un ricordo, un’esperienza, un incontro, un volto, un rimando al proprio mondo interiore, dove gli oggetti trovano accoglienza ed egli può così comunicare con loro, i quali assumono e lasciano trasparire ciò che egli riesce a proiettare: concetti, fantasie, sogni, sensazioni, rappresentazioni simboliche. Essi, allora, cessano di essere semplici oggetti e si vestono della natura delle cose acquistando valore, significato, sostanza. Scrive Bodei:   
«Quando l’«oggetto» è trasformato in «cosa», interrompe il suo ‘obiettare’, cioè cessa di  contrapporsi al soggetto creando con quest’ultimo un «nodo di relazioni».[1]
      Se consideriamo che l’Ammiraglio è l’alter ego del suo Autore, il quale è poeta e, fin dalla sua giovanissima età, collezionista degli oggetti che ‘popolano’ la sua dimora preferita, paragonabile a un museo, allora il relazionarsi dell’Ammiraglio con gli oggetti, la sua “capacità di captare vibrazioni inconsuete”, sono frutto di un transfert, cioè della passione e del godimento che l’Autore prova nel contemplare quelle ‘figurazioni’ della bellezza e che egli trasferisce al protagonista del romanzo. E qui la poesia, intrecciandosi con la fantasia, gioca il suo ruolo determinante, esercita il potere metamorfico, proprio dei fanciulli, trasformando gli oggetti in cose e in “persone”. Una simile attestazione è in Vico, nei Principi di scienza nuova:
«Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione; ed è proprietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarci come se fussero, quelle, persone vive» .
      Sul “carattere dell’Ammiraglio (…) apparentemente  “tetragono”, ritenuto da qualcuno “un essere anaffettivo, incapace di grandi passioni, di slanci, di visioni”, legato forse più alle cose che ai propri simili, prevale la poesia, come sentimento del bello, in virtù del quale le cose acquistano un’«aura», e lasciando emergere sulla loro superficie i tratti significativi del loro amatore mostrano - come afferma ancora Bodei - «il soggetto umano nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato».[2] E l’aspetto segreto dell’Ammiraglio è rivelato e dichiarato nella seguente frase dannunziana - una delle tante - che  egli “aveva fatto incidere sullo stipite della porta della propria dimora (…) in cui diceva di riconoscersi”: «Mi piace liberare dalla polvere e di riscaldare - e di ravvivare - con il mio alito e con il mio tòcco, gli oggetti d’arte che prediligo». La collezione degli oggetti è la “ricerca della bellezza quale sostanza dell’infinito, della grazia e dell’armonia, un segno di fede e verità” ed è l’espressione concreta della sua ammirazione per il Vate e della “giovanile passione e visione del Vittoriale”, del quale la “casanima era forse l’emulazione”. Animata dalla “sostanza viva della bellezza” espressa dalle cose, essa è un luogo di contemplazione e di pensiero, nonché epifanico, perché vi accade la trasfigurazione. Gli oggetti perdono la loro oggettualità e materialità, divengono cose, “abitanti” della casa ed entrano in intima relazione con l’Ammiraglio, il quale cessa di essere il loro semplice collezionista e possessore e diviene il loro interlocutore. Questa inverosimile comunicazione nasce dall’impulso verso il trascendente che consente al protagonista di riscoprire la realtà andando oltre le cose, di vederle sia con gli occhi del corpo che con quelli della mente. Riconosciamo in questo gesto l’Autore, perché a lui appartiene questa prospettiva visionaria essendo filosofo e poeta. E in quanto tale, è cosciente di non potere accedere con la ragione a una conoscenza assoluta e si affida all’immaginazione per trarre un senso dalle cose - muse ispiratrici del romanzo - alle quali attribuisce, come farà il suo personaggio, un potere radiante. Rivelatrice di tale potere è la statua della “bianca fanciulla di marmo” che, sollecitata dal saluto e dai “complici sorrisi” dell’Ammiraglio, all’improvviso si trasmuta “in voce d’anima viva, maestra d’incanto dei suoi sodali immobili”. Cometa è il nome che le dà l’Ammiraglio, quasi a volere esprimere la bellezza degli oggetti, della quale la statua è la “viva” rappresentazione, ed è la “stella” che dà luce alla casa, la quale si anima dell’intera collezione, assimilabile per lo splendore e per l’assonanza a una costellazione. È un “nome augurale”, simbolo di “un’autentica purezza originaria, una sorta di carezza delicata, nella casanima”, che emana una luce necessaria, vitale, quando, dopo la morte della madre, incombe sul nostro personaggio un’oscurità profonda, il pensiero della morte. È allora che il colloquio va oltre la contemplazione e si fa più fitto il «nodo di relazioni» tra l’Ammiraglio e gli oggetti che, assunta la dignità delle cose, diventano presenza necessaria perché sia più lieve la tristezza, più sostenibile vivere; affinché, grazie alle cose, il meraviglioso, lo straordinario irrompa nella vita del nostro protagonista ed egli, che tanto ha viaggiato “fra i mari del mondo, le terre non sempre ospitali”, ora vecchio e stanco impari a viaggiare con gli occhi del cuore e a immaginare inediti universi. È allora che egli rende culto alle cose, ed esse sembrano assumere la funzione degli antichi Lari; ma è il “cane di terracotta” il “genius loci”che veglia sulla casa per proteggere i “compagni” e soprattutto l’Ammiraglio dal dolore, come esso stesso dichiara:
 “io non dormo quasi mai, dato che proteggo gli scaffali delle tue meraviglie e un po’ tutta la casa (…) Io oriento sempre il mio sguardo attento verso la porta per proteggere me e i miei compagni e soprattutto per non darti dolore”.
       Di fronte a quelle vive presenze, cariche (come osserva la «tartaruga») di “un tempo immenso e un mondo intero”, in contrasto con un’umanità smarrita, incapace di tesaurizzare il tempo e il mondo, di trasformarli in ricchezza di natura spirituale e intellettuale, di “scoprire l’armonia della bellezza oltre il visibile” (così, la «Dama delle Ninfee»), di fronte alla “saggezza antica, perenne” delle cose, aleggiante nella casanima,  e alle dichiarazioni di Cometa: - “qui stiamo in pace e ci sentiamo tutti amati per quello che siamo, nel rispetto dei luoghi da cui proveniamo e per le nostre singolarità e unicità”- inizia a vacillare la tetragona ed hegeliana convinzione dell’Ammiraglio, cioè, che non c’è idealismo al di fuori della razionalità del reale. Contro la ragione, che considera quelle esperienze straordinarie pure allucinazioni, la sensazione che l’inverosimile non sia del tutto estraneo alla realtà fa lentamente breccia nella sua coscienza ed egli riceve conferma dell’attendibilità delle esperienze prima da un “vecchio prete, teologo” e poi dalla statua della Madonna, sita nella cappella della sua casa di campagna, dove ne ode la voce. Ella lo rassicura e gli dà conferma della capacità di ciascuno oggetto di rivelare la propria essenza segreta, di farsi «cosa», grazie all’“Anima cosmica” che consente loro di mettersi in contatto con lui e a lui di prestare ascolto in virtù del suo disinteressato e “silenzioso amore per chi non ha parola”.
      L’Ammiraglio che entra in relazione con la cosa se ne prende «cura», intuisce, come insegna Heidegger, che essa è un’«inestinguibile sorgente di donazione di senso»[3]. Egli allora comprende di “essere stato investito da una speciale grazia, da un dono divino, da un talento singolare, grazia, dono e talento, per salvare dal naufragio definitivo quella minuscola memoria del mondo che aveva pazientemente e con amore, raccolto”. Ma a dissolvere ogni dubbio sulla possibilità che quei fenomeni si verifichino realmente, a dargli la certezza assoluta della ‘normalità’ dell’irrazionale, è la visione dell’ “angioletto di porcellana (…) regalo di battesimo”, dal quale “si era sentito protetto (…) sprigionante ora una luce ardente, quasi accecante”. In questa luce parla l’Angelo senza proferire parola, l’Ammiraglio vedelo straordinario” e comprende che esso è l’altra dimensione della conoscenza, quella che gli consente di cogliere il legame tra l’invisibile e il visibile, tra la regione del ‘sogno’, o dell’immaginazione, ove l’invisibile si ‘manifesta’, e la realtà che accoglie ed è, essa stessa, ‘genitrice’ delle “verità svelate” per mezzo degli oggetti, i quali, cessando di essere tali, di opporsi al soggetto, diventano cose dotate di una “viva essenza” che è emanazione dell’anima cosmica, nella quale l’Ammiraglio apprende che è iscritta pure la sua anima. Ma è la poesia l’anello di congiunzione tra l’inconsueto, che l’Ammiraglio reputa frutto di allucinazioni o catalogabile tra i fenomeni esoterici, paranormali, - per cui egli interroga il professore Bellanti e il padre domenicano Nuaranti, studiosi ed esperti di pratiche misteriche, affinché facciano chiarezza sugli accadimenti nella casanima, - e il reale, che la sua ragione considera invalicabile. La poesia è la luce, la bellezza, la verità resa ‘visibile’ dall’angelo, suo messaggero, ed è il regno del possibile. Tutto è concesso alla poesia, tutto le viene giustificato; le è connaturale il potere metamorfico, di trasformare, spiritualizzare e trasfigurare la realtà, quella delle cose, in questo caso. Per mezzo di essa le cose s’innamorano[4], si corrispondono e comunicano con l’Ammiraglio, il quale, essendo l’alter ego dell’Autore, è ‘strutturato’ da quest’ultimo, sulla base delle sue conoscenze e vocazioni letterarie, psicologiche, teo/filo-sofiche, nonché sulla sua atavica passione di “collezionare bellezza”. È lui, il poeta Tommaso Romano, il sognatore che, attraverso le cose, s’interroga, ripensa il passato, rivede con gli occhi della mente e del cuore gli “affetti familiari e amicali”, sente il desiderio di rivedere vecchie fiamme, ritrova i significati profondi e complessi del suo mondo interiore, comprende che “lo Spirito soffia dove vuole” e investe le cose perché rappresentano i valori profondi della vita. Egli è il deus ex machina che parla e fa accadere il meraviglioso rendendo possibile l’inverosimile, e imbastisce un lungo sogno per raccontarsi attraverso il suo personaggio. E lo fa nell’unico luogo possibile, nella casanima: il ritrovo dei suoi pensieri, delle sue meditazioni; ‘eremo’ e luogo magico, sacro, dove tutto torna a vivere nel “godimento della memoria”. Qui, l’Ammiraglio può contemplare negli oggetti che il suo Autore ha ereditato e collezionato “tutto il bello del mondo e il buono dell’universo” e, come gli assicura, parlando con “voce cristallina e delicatissima”, la statuetta di “Eleonora”, può oltrepassare la “soglia” e accedere a quella conoscenza superiore che sembra rispondere all’ideale di perfezione da lui da sempre perseguito. Nella casanima, egli volge il suo ultimo sguardo agli uccelli, al gallo Sabino e all’amata Cometa. E ‘contagiato’ da tanta bellezza, si abbandona alla morte. 
 
 

[1] R. Bodei, “La vita delle cose” Laterza, pag. 22
[2] Ibidem
[3] In R. Bodei, op. cit.
 
[4] (…) si udì Stecchina, una felina magra e intrigante con gli occhi di vetro: “(…) Vedi, carissimo, qui ci sono coppie caste d’innamorati e amanti che da qualche centinaio d’anni restano tali, per una sorta di volontà di preservazione. Si guardano, si sfiorano, fanno all’amore come voi umani…”. pagg. 118-119
Tonio, l’irruente contadinello della stanza verde: “Cometa, da quanti anni ti dedico la mia devozione sincera e tu con gentilezza non fai altro che rimandare quel sì che tanto mi tortura nell’attesa. Dovresti deciderti, non vivo più in questa penosa condizione”. pag. 74
Cometa: “Tonio ti voglio molto bene, lo sai, apprezzo la tua passione e ammiro la pazienza che hai verso di me, ma l’ora dell’amore tra noi non è scoccata ed io non sono una ragazza che prova e riprova ad innamorarsi. O mi innamoro veramente o devi pazientare, forse desistere, chissà...”. pagg. 74-75
Un cavaliere giocherellone: “Ricordati Cometa che da tre secoli aspetto l’amore ideale che tu magistralmente raffiguri,”. pag. 75
 
 
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