“LA CATABASI DI DON CHISCIOTTE” RICERCA LETTERARIA DI GIOVANNI TERESI

 

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                                                           Don Chisciotte a Montesinos 

 

 

La catabasi di Don Chisciotte

 

Don Chisciotte, il nobile decaduto che passa il suo tempo a leggere e che crede imperterrito che tutto quel che sta scritto nei suoi libri sia vero, è fuori di testa perché è fuori dal suo tempo: non si accorge che non è più il tempo degli eroi della letteratura del passato. Il romanzo di Cervantes che mette in crisi il passato è già un romanzo moderno, in cui il protagonista è un eroe mancato, continuamente costretto a scontrarsi con la quotidianità, mulini a vento che gli paion dei giganti, pecore che lui scambia per Mori, contadine ignoranti che ai suoi occhi sono principesse raffinate. C’è però un’avventura in cui don Chisciotte viene direttamente a contatto col mondo degli eroi e dei cavalieri che ha incontrato nei libri. È un’avventura vissuta nella dimensione del sogno, quasi una “visione” secondo i canoni medievali: qui don Chisciotte incontra i “suoi” cavalieri, prigionieri di un incantesimo dentro una grotta misteriosa. Ma sono cavalieri, tutto sommato, piuttosto abbassati e deludenti. L’episodio straordinario si svolge nella grotta di Montesinos, ed è un episodio denso di significato che si incontra nella seconda parte del romanzo, ai capitoli XXII e XXIII.

Un passo fondamentale per misurare quanto il mondo della cavalleria sia ormai lontano: ma è proprio dalle ceneri del mondo dell’epica e della cavalleria che nascerà il romanzo borghese, e sarà un romanzo fatto di personaggi abbassati, quotidiani, ma non per questo meno capaci di drammi ed eroismi. Questo è l’antefatto: Don Chisciotte, accompagnato da Sancio e da una guida, è giunto nei pressi di una misteriosa grotta, coperta da rovi e circondata dallo svolazzare di corvi e pipistrelli. Qui, legato a un capo di una lunga corda, si fa calare nella spaventosa caverna, e compie una specie di personale discesa agli inferi, che è l’equivalente grottesco di quelle degli eroi epici. Quando i compagni lo tireranno su, lo troveranno addormentato.

Quello che Don Chisciotte ha visto, è lui stesso a raccontarlo ai suoi compagni, nel capitolo XXIII, dopo aver fatto una buona colazione e cena. Ci troviamo, ancora una volta, ad ascoltare (a leggere) un eroe narratore, nell’atmosfera di un banchetto. Ma quanta distanza tra questo Don Chisciotte e Odisseo o Enea! L’eroe narratore è diventata una figura grottesca di esaltato, che -come i pazzi- crede lui solo a quello che dice. E il banchetto è ridotto ad una merenda campestre di tre vagabondi di cui uno squinternato… In tono serio e grave, don Chisciotte narra di esser stato a lungo perplesso, al fondo della grotta, seduto sulla lunga corda arrotolata, fino a che, assalito da un grandissimo sonno, si era addormentato. Senza sapere come né perché, si era quindi ritrovato al centro del prato più bello che ci sia, davanti a un magnifico castello … Ed ecco che gli era venuto incontro «un venerando vecchio». Proprio come gli eroi epici, di Omero e di Virgilio, che scendevano nelle cavità della terra per incontrare i morti e apprendere da essi il loro destino.

Ma quant’è diverso, questo vecchio, che non si presenta come si era mostrato ad Odisseo il tebano Tiresia  «reggendo in mano lo scettro», né ha la «spada in mano» come l’Omero dantesco, ma un rosario:

Mi si offerse subito alla vista un sontuoso palazzo o castello reale, i cui muri trasparenti sembravano fabbricati d’un trasparente e chiaro cristallo; vi si aprirono due grandi porte e vidi uscirne e venire verso di me un venerando vecchio, vestito d’una lunga veste di baietta viola che gli strascicava per terra; gli circondava gli omeri e il petto una stola dottorale, di raso verde; il capo era coperto da un berretto milanese nero, e la barba, bianchissima, gli scendeva oltre la cintola. Non portava armi di sorta; solo aveva in mano un rosario dai grani più grossi di noci comuni, e i dieci paternostri grossi quanto comuni uova di struzzo; il portamento, il passo, la gravità e la vastità della persona, ogni cosa per se stessa e tutte quante assieme, mi colpirono e meravigliarono.

Il modo col quale il vecchio venerando si rivolge a Don Chisciotte sembra invece rifarsi al modello dell’Anchise virgiliano e del Cacciaguida dantesco, che dichiaravano la loro soddisfazione per un incontro lungamente atteso: Mi si avvicinò, e la prima cosa che fece fu di abbracciarmi strettamente, poi disse: «Da lunghissimo tempo, o valoroso Cavaliere don Chisciotte della Mancia, quanti viviamo incantati in questo luogo remoto, stiamo aspettando di vederti, affinché tu dia al mondo notizia di ciò che occulta e racchiude il profondo antro per dove sei penetrato, che chiamano la grotta di Montesinos: impresa che unicamente spettava d’essere affrontata dal tuo invincibile cuore e dal tuo animo stupendo …»

La grotta di Montesinos è un luogo governato dagli incantesimi del mago Merlino: il mago che appartiene alla tradizione delle leggende della Tavola Rotonda, che qui ritroviamo trasferito, si direbbe, dentro un’altra storia. Nella caverna, infatti, il nostro eroe incontra i personaggi delle storie più varie: sono le vicende di Carlo Magno mescolate ad altre leggende ancor più antiche, sacre e profane, dove i cavalieri non sono più tanto esemplari, e le dame, nemmeno più tanto belle …

Quel che colpisce, nel lungo racconto del nostro cavaliere, è la straordinaria mescolanza di personaggi, vicende, e stili. Tutto il mondo eroico è passato in rassegna nelle parole di Don Chisciotte, ma reso grottesco, e abbassato: così Chisciotte riconosce nel gruppo anche la sua signora Dulcinea, ma lei dapprima fugge, poi gli manda un’ambasciata per chiedergli del denaro in prestito. L’episodio delle grotte di Montesinos è giocato sulla molteplicità degli stili. Quello del nostro eroe è aulico e solenne, mentre i modi di Sancio sono assai più rozzi e colloquiali. E tutto sembra in bilico tra realtà e illusione, tra verità e menzogna. Ma se quello che Don Chisciotte narra è un sogno, come pare, allora la contraddizione verità/menzogna non c’è più: perché di un sogno tutto si può dire che sia profetico, o inesplicabile, o menzognero – ma certo non si può dire che sia “falso”. Don Chisciotte si compiace di raccontare quello che è avvenuto nella grotta (ovvero il suo “sogno”), ma ogni sua parola smentisce i valori della cavalleria in cui lui crede.

Nel suo racconto, i cavalieri nobili e valorosi che ha scelto a modello vivono un’esistenza da parassiti; al posto della spada, impugnano il rosario. Le loro consorti sono ben lontane dal possedere una bellezza leggendaria. La stessa Dulcinea, la donna ideale pura e nobile, appare nel sogno come una volgare contadina, che attraverso una sua servetta manda a dire a Don Chisciotte di prestarle dei quattrini («sei reali») per uscire dalle «brutte acque» in cui si trova … Ma Don Chisciotte non può assolvere nemmeno questo compito, tutt’altro che eroico: perché di reali lui ne possiede solo quattro! La donzella li prende lo stesso: «E presi i quattro reali, invece di farmi una riverenza, fece una capriola per aria sollevandosi quanto due braccia da terra» conclude Don Chisciotte.

In sintesi, in questo episodio Don Chisciotte misura quanto siano inattuali gli ideali che lo hanno sostenuto. E si avvia a riconoscere, velatamente, l’assurdità del suo stile di vita, dal momento che anche Dulcinea, in fondo, non è più la dama ideale che lui s’era immaginato. C’è qualcosa di pirandelliano, in questo personaggio che tenta con tutte le forze di credere in un sogno che è incontestabilmente scaduto alla dimensione meschina della banalità. E infatti l’episodio è umoristico, e il lettore è spinto a riconoscere che in Chisciotte convivono le due facce di un’erma bifronte dove – come diceva Pirandello – l’una ride del pianto dell’altra. Da questa avventura partirà, non a caso, il graduale rinsavimento del cavaliere, fino al desengaño, ossia al disincanto e alla ritrattazione degli ideali eroici che lo avevano guidato nella sua parabola  esistenziale.

Allora gli osti non si tramuteranno più in nobili, né le osterie in castelli, né le rozze contadine in principesse, o i mulini in giganti. E tuttavia, nello sfacelo del mondo eroico, la catabasi avrà mostrato ancora una volta la sua funzione narrativa, che è quella di esperienza necessaria al protagonista per conquistare la propria identità. Ma non sarà più un’identità eroica. (Maria Rosa Tabellini – Dall’Epos al Romanzo)

 Giovanni Teresi

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