«La casa del poeta. Riflessioni su “L’alchimia della polvere” di Tommaso Romano» di Salvatore Lo Bue

Ci sono intellettuali senza tempo, per ciò stesso in-attuali, capaci cioè di imporre un tempo proprio solo di sè stessi e nello stesso proprio di tutti, perché nella solitudine della coscienza “vedono” non solo il trascorrere della corrente, la sorgente medesima che alle acque da principio.

Tommaso Romano incarna, ed è incarnato, dall’Idea. Le sue sono sempre e comunque memorie del sottosuolo, perché dai principi originari, dai valori, dalle forme che non hanno forma e tempo nascono le sue scritture. Abita un mondo antico, più vicino a Omero che a Goethe, e realizza come persona e scrittore quella perfetta adesione tra l’anima e le forme di cui parlava il grande filosofo ungherese. Nella pienezza di un decadentismo forte e non obliquo egli è l’dea del suo universo, e nell’Idea e dall’Idea vive e trans-muta, concependo un suo, o meglio il suo universo, nella scrittura ma, nello stesso tempo, nella sua Casa, nel suo capolavoro astrattissimo e concerto che è il suo Eremo, come lo chiama lui, costruendo il quale, attraverso una serie non comune di opere e oggetti d’arte, ha costruito se stesso, a concretamente messo in scena la sua anima, quasi fosse lo spettacolo senza fine della sua vita, le quinte del suo irrivelato essere, l’officina ideale delle sue utopie.

Come la casa di Mario Praz, la casa di Tommaso Romano è essa stessa un’opera d’arte, perché è come se appartenesse tutti, come un manifesto letterario e umano, che lascia sbigottiti in questo nostro non più innamorato della Bellezza, di quella bellezza che è secondo John Keats, Verità, senza altro fine che l’eterno e l’ideale. Ma in questo contesto, ferocemente perfetto, è facile e forse fatale che si insidi il dubbio o del dubbio la tentazione: Esisto veramente? Chi sono? Come riferì un tempo Mallarmé all’amico Kazalis, a volte è necessario vedersi allo specchio per provare che il poeta esiste a se stesso, che sia qualcosa o qualcuno, mentre si perde nel mare della bellezza che conduce agli abissi della verità.

Perciò, forse in una sera in cui le porte della nostalgia si erano spalancate, Tommaso Romano si vide. Vide se stesso. Vide la pienezza del suo vuoto errare in un mondo che non gli appartiene da sempre. Vide che era tempo non di giustificazione ma di resa. Perché l’amore non è lotta, è resa alla verità. E per atto d’amore comunicò quanto segue:

Urgeva e urge in me, intanto, una chiarificazione sulle tante tematiche e problematiche affrontate - nel mio non breve tempo - in decine di saggi, raccolte di poesia e interventi molteplici sia pubblici che privati. Per questo concludo il libro con un Autoritratto feroce, come l’ho volutamente intitolare - senza compassione verso me stesso - ponendolo, simbolica - mente, alla fine della raccolta di schegge "semi-minime", "minime" (per usare un linguaggio musicale) e di più ampi pensieri e articolate convinzioni, espresse senza schemi… Ora ho ispirato le mie considerazioni inattuali, che qui troverete, alla luce della saggezza, del mito, del sacro, della trasgressione e della libertà intellettuale, senza cadere, spero, nel sincretismo o nella ripetizione acritica usando il linguaggio che mi è proprio, insieme al paradosso, all'ironia, all'eccesso, se si vuole, per arrivare a comprendermi e per attraversare, anche in tal maniera, le grandi costanti del tempo, nel cuore del Mistero datomi in pegno….Mi appartiene pure il non detto e le occasioni del destino segnate dalla vita stessa che vanno, comunque, concimate per non inaridirci, anche a costo del lucido smalto della contraddizione, per usare un’espressione usata in una mia antica poesia (p.p.9-10)

Perfettamente steso sull’”Alchimia della Polvere” il lucido smalto della contraddizione. Ma di una speciale natura è la contraddizione quando misura il mistero di ciò che resta di tutto ciò che è (polvere) e che comunque a una smisurata potenza di rivelazione composta e difficile di elementi di mutazione (alchimia). Come gli atomi di Democrito, tutto precipita e si ricompone nell’anima del poeta: la trasgressione e il sacro, la vita e la morte, l’eccesso e la quiete, la sapienza e l’eccesso. In questa apparente confessione è manifesto il senso eracliteo della perfetta identità della via che scende e della via che sale. Tipico del sottosuolo è la agitazione delle forme linguistiche, l’eccesso del sentire, la chiarezza della voce, la visione di un fondo oscuro che prelude alla luce.  Così l’urgenza determina la rottura dell’argine, perché l’autoritratto definito feroce non è altro che una radicale forma d’amore che confina con la Verità, a voce alta una denunzia contro ogni ipocrisia, perché un solo dovere abbiamo in quanto poeti:

 

L'Arte è l'anima d’un cosmo d'amore da preservare. Anche in non perfetta solitudine. Se necessario. (p. 22

 

Da questa durissima resa alla Verità, perché solo alla Verità dobbiamo la libertà che genera ogni forma di vita interiore, nasce la misteriosa e suggestiva visione del Mosaicosmo, il simbolo perfetto di una vita sempre in equilibrio tra essere e nulla, tutto e niente, umiltà e presunzione, umano e divino.

Pindaro, alla domanda sull’uomo che è “creatura di un giorno”, epamère, su cosa sia o cosa non sia, rispose potentemente: questa creatura di un giorno è skiàs ònar, il sogno di un’ombra, ma pur sempre un sogno, nella fragilità assoluta del suo essere originario. 

Ecco, Il Mosaicosmo è questo. Il riconoscimento della umiltà assoluta. Perché non c’è io che possa essere tale se non si riconosce nel noi. Così il grande Mosaico della Vita è composto dalle infinite tessere che sono gli infiniti “Io” che nascono e passano. Ciascuno è una parte di un tutto, ma è nello stesso tempo umilmente da riconoscere che solo il Tutto conta, che la Vita è non la somma di tante vite, ma ciascuna vita è componente relativa, ma nello stesso tempo decisiva della Vita stessa. Un messaggio di formidabile bellezza, che si rivela assolutamente vero, Idea di un universo nuovo in cui tutti sono proto-agonista della corrente eterna dell’essere.

 

La cosmovisione è parte del Mosaicosmo. Non è definibile razionalmente e neppure argomentando di pulsioni, reazioni, numeri, statistiche e secrezioni. Posando i piedi sulla terra la cosmovisione può far ricapitolare e vibrare, come un soffio che scuote l'erba, tutto l’infinito che è in noi e a cui torneremo se saremo all'altezza di conquistarlo attraverso l'estensione dei talenti, minimi o massimi e la sensibilità, re- pressa nell'ansia e nel fuggevole godimento. (p. 46)

 

La intuizione perfetta ha bisogno di un coinvolgimento radicale dell’Infinito che ogni preziosa anima racchiude in se stessa. La poesia stessa così ha senso solo perché, come ogni arte, va oltre il vero, oltre il bello: perché è il Sacro.

La bellezza è una Cosmovisione, spiace a chi non sa coglierla interamente. Di certo vive oltre ogni convenienza, gusto e moda, pure in tempo di barbarie. È paradigmatico nelle motivazioni e negli esiti di come pensiero, parola e suono siano parte di una Origine, di una Totalità senza squarci (p. 19).

La musica ricrea l'Origine e può far vibrare ogni sopito anelito, ogni rabbia ferocemente inappagata, scuote l'anima senza posa, ridona quiete ai dolenti e innalza le nostre miserie fino alle stelle. Parla jazz e accompagna melologhi, sente nibelunghi in agguato e si lascia trasportare fra un lago di cigni, adagetti e percussioni. Canta a chi sa sentire il linguaggio della viva natura e il requiem finale verso altri suoni certamente infiniti e, forse, Eterni. (p. 22).

 

Nella sua anima eternamente sospesa tra Silenzio e Parola, desiderosa soltanto di accedere alle vette e di scendere negli abissi altrettanto sacri della carnalità (è questo il mistero stesso della Incarnazione, Tommaso Romano alchemico lettore della fragilità e della potenza dello spirito vive la bellezza della cosmovisione, per non perdere quel che resta del Bene e fuggire i tempi di questa barbarie moderna dove tutto è niente e niente è tutto. Ci si aggrappa allora a una pioggia misteriosa di note e parole che bagna l’anima e diventa una sorta di battesimo interiore. L’infinito che noi siamo nella profondità insieme oscura e luminosa del nostro essere attinge dalla musica la visione dell’Origine e crea quel sistema di miti che serve alla vita per la Vita e che, come il Flauto magico, serve a traversare lieti il regno della morte e ad uscirne purificati e con purissimo nuovo abito mentale. Ma è sempre un immergersi nel sacro ogni evento poetico, è sempre un battesimo con l’acqua delle parole e dei suoni che in noi scendono e ci traversano come il grande fiume che scorre in noi e che noi siamo che vagheggiava Wackenroder nei suoi scritti.

 

Tutto scorre, ammonisce Eraclito, diventa liquida la società, l'uomo è in gran parte acqua: e sia. Ma non è tutto. Nelle sinfonie degli oceani, nei laghi, nei fiumi vivono specie diversissime    e non raramente dotate di acume prodigioso, prosperano e si rinnovano flore stupefacenti, dai cieli acqua benefica a farci sopravvivere; costruirono perfino un sogno nell'acqua chiamato Venezia, e tutto questo lo chiamano caso, auto generato accidentalmente. Non comprendono più che anche nell’acqua, primariamente, si annullare la realtà dell’infinito che credono di conoscere e che in realtà resta mistero (p. 23)

 

Trascorrono così, in lontananza, I paesaggi interiori. Nel sottosuolo che tutti i pensieri compongono cercando senza affanno ma con sdegno del banale l’alchimia della polvere, il poeta inquieto si fa Autore della sua stessa vita. Egli intuisce che ben povera cosa è il tempo che viviamo soltanto immergendoci nella dimensione della realtà. C’è un altro tempo. Forse è quello che chiamiamo Regno dei cieli. Dove tutto sembra permanere semplice perché semplice è l’Eternità, come semplice è la Verità e la Bellezza. E il mistero sembra alla fine soltanto questo: la non creduta semplicità del divino che è in noi e che facciamo di tutto per confondere e dimenticare.

Viviamo così sospesi tra passato e futuro vivendo: e se è vero che “l’indicibile vive finché viviamo”, il fine di ogni nostro tormentoso pensare e agire è il “vedere oltre il vedere”, che “non è solo immaginare, quanto ricreare la visione che è in noi e che a noi unicamente appartiene” (p.30).  E questo è il compito del poeta: il dovere di andare oltre, il dovere della visione, l’impegno del viaggio, l’obbligo versoi la scoperta dell’Altrove che noi stessi siamo nel profondo del cuore. Ed è questo l’Eterno Presente, il tempo sospeso tra transeunte ed eterno, che è il tempo stesso della poesia e della bellezza e della verità. La difficile missione comunque produce timore e tremore perché in fondo noi siamo soltanto piccoli esseri che cercano, a volte disperatamente, l’Essere, con le piccole ali della mente e dell’anima. Per questo dobbiamo difenderci dal passato, insieme elemento costitutivo e distruttivo: costitutivo se presiede all’arte, distruttivo se presiede alla vita.

 

La nostalgia, il ricordo, la memoria possono essere catene dolci e pure necessarie per non annullarsi nel presente. Restano però catene, se si paralizzano le idee, le aspirazioni, se si mortificano i sentimenti nello schiavistico feticismo, nel culto ossessivo del passato, che sarà anche stato dorato e felicemente sentito e ricordato come tale, ma resterà, comunque, irripetibile. La morte dell'anima è stanca, come la mancata trasmutazione che dal passato ci pone già nel presente, per qualche spiraglio nuovo da aggiungere. Non aspettarsi che briciole dal quotidiano, nessun avvenimento degno di nota, né tantomeno eventi dirompenti, è un lento, inesorabile, lasciarsi morire nei giorni. (p. 55)

 

Un momento decisivo questo. Che rivela la potente idea (rivoluzionaria) di questo testo: che non difende il passato, che non giustifica tutto nel nome di ciò che è stato. Perché il passato può essere un peso mortale, la notte oscura che cade sul presente e lo soffoca senza pietà. Lo spiraglio romantico della “Alchimia della polvere” si rivela così con chiarezza. Non importa più levare inni alla Tradizione! La tradizione è soltanto l’ininterrotta consegna della Bellezza e della Verità alle generazioni nel tempo, è la corrente che trascina la Vita eternamente rinnovantesi, e il sacro flusso della gioia che invade le anime di tutti i viventi che sono passati, come la Nerina leopardiana, sugli “odorosi calli” della Vita. La Tradizione non ha colori, limiti, pensieri muti, non appartiene alle ideologie: e la consegna di tutti i testamenti di tutte le generazioni, è l’idea perfetta della Umanità.

Ma il passato no. Il passato non è il velo di Maya. Il passato può essere il sudario del presente, la forma della felicità impossibile: occorre contrastare ogni minaccia che possa turbare la nostra impresa, il gnòti seautòn che è primo dovere umano. Per ciò, anche se siamo fragili, precari, come “un raggio di sole che si posa sulle ali di una libellula leggera su un fiume”, come recita una un verso della antica letteratura mesopotamica, la nostra grandezza consiste tutta nella ricerca della felicità, nonostante tutto, nonostante tutti.

Allora nel compiuto percorso di questo testo si intravvede una sorta do compimento romantico. Perché il senso della morte si accompagna e governa la fragilità medesima, la precarietà costitutiva del nostro essere: ma il segno vincente e combatterla con le armi della ricerca della verità, immaginando scrivendo componendo ideando vivendo senza manuali che insegnino, la scrivendo ciascuno il manuale della sua perfezione interiore

 

Lo stato di precarietà è una costante di tutto ciò che siamo. Trovare almeno un motivo nella goccia di un attimo è un modo per evitare il tedio, la noia. Importante è non scambiarlo con l'affanno di cercare di risolvere ogni perché. (38) Scrivere o comporre musica è un antidoto, una terapia da praticare contro il despressionismo, variante nobile della depressione. La lettura e l'ascolto sono altrettanto nodali per il raccoglimento del sé. Diffidare, allontanarsi dai consigli e dalla visione no lettura dei manuali per la vita felice, conditi di prescrizioni, regole, comportamenti imposti senza eleganza, vergati o pronunciati da moralisti infecondi e ben remunerati. La felicità non si insegna né si propone come panacea e quando si manifesta è una illuminazione, una sensazione che raramente si dipana come permanente. (p 42)

 

La Bellezza salverà il mondo! Tommaso Romano così dunque interpreta il senso ultimo della malinconia che pervade ogni anima mistica. Perché quando il mare dell’infinito poco a poco vivrà delle onde che ogni poeta ha saputo suscitare, allora nasceranno tutti i Fiori del Bene possibili perché, “nella desertificazione del logos che cresce, restano rari anfratti di verdi e cangianti cromie e polifonie di colori e fiorescenze inusitate. Non temono l'afa, la siccità, i climi impossibili in latitudini improbabili da solcare. Ravvivono e si rigenerano custodendo l'acqua pura, o anche salmastra, degli Dei, fra tropici, alpi, venti impetuosi e sublimi. Attrezzandosi di spine per difendersi e non apparire così troppo seducenti. Resistono e si rinnovano lente, come a decidersi il destino… Si curano poco degli uomini invadenti, anche se a volte si fanno coltivare silenti, in appartati angoli. Respirano ai margini, facendo la parte di vegetare, e inducono alfine al silenzio. Non sempre liberante”. (50)

Quanto simile alle ultime pagine dell’Enrico di Ofterdingen questo stupendo frammento dell’Autore! Egli ha trovato tanti fiori azzurri. Tutti i suoi fiori azzurri. E se pure l’Alchimia della polvere finisce con il provocatorio e dissacrante ritratto dell’artista da adulto, che si mette a nudo senza rete di mostrando con questo la sua natura di testimone del vero, tutto conferma che parla il Poeta che ha raccontato il suo cammino verso l’Infinito, alla fonte dove cresco i fiori. Tutti i suoi fiori azzurri. Tutte le sue poesie. Il suo disincanto si rivela così una purissima forma d’Amore.

Chi capirà ci verrà a fianco e noi vi andremo pazientemente accanto. Capiremo, allora, che il mutamento è il riconsacrarsi con dignità e orgoglio, anzitutto all’esistenza, come la più alta delle avventure da percorrere, e così forse troveremo o ritroveremo, per prodigio, un fiore solitario che ci aspetta, a cui daremo nome Amore.

 

 

 

 

 

 

 

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