L’affermazione della vita nella poesia del dolore di Emanuela Mannino – di Guglielmo Peralta

      “Il dolore ti prepara alla gioia”. Questo verso di Rumi, posto in epigrafe, giustifica la silloge “Eppure”, di Emanuela Mannino, ne dichiara la nascita. Il dolore è il movente della creazione poetica. Esso non è, come per il Leopardi, il “diletto” che si prova nell’ “uscir di pena”, cioè, la “quiete” passeggera, fugace, alla quale seguirà una nuova “tempesta”, ma è ciò che muove, sollecita, “prepara alla gioia”: quella duratura, che tutti auspichiamo insieme con la Mannino, la quale ritiene che ciò sia possibile con l’aiuto della poesia, perché crede in essa, nel suo potere salvifico, ne riceve benessere, e perciò le assegna il compito di ‘esorcizzare’ il dolore, di  trasformarlo in energia positiva, di farne seme di rinascita. È con la Poesia, che dimora in interiore, che la nostra poetessa interroga sé stessa ed entra in contatto con la dimensione assoluta della realtà traendone conforto e ispirazione. La sua scrittura è intimistica ed ‘esistenziale’ nel senso heideggeriano dell’esserci e del dire «Sì» alla vita – alla quale, peraltro, è “dedicata” la raccolta - rigettando con consapevolezza e convinzione le problematiche che la rendono difficile, insicura, non autentica. Per vincere le paure e realizzare la trasformazione personale. Cosa del tutto possibile, come suggerisce già il titolo della silloge, “Eppure”: una congiunzione che qui esprime la volontà di affermazione esistenziale della Mannino e che, perciò, unisce, nella sua funzione  avversativa, l’attuale condizione di sofferenza alla speranza di un futuro prossimo migliore, lasciando intuire il percorso intrapreso dalla poetessa per il cambiamento, per dare una svolta positiva alla propria vita. Oltre al dolore, c’è la paura: quella soprattutto avvertita durante la pandemia da Covid, come lei stessa ha dichiarato durante la presentazione della silloge, concepita e nata proprio nell’anno del ‘ritiro forzato’. Altro movente, decisivo per l’evento magico della creazione, è stato, dunque, la paura, la quale, se da un lato, è da considerare l’occasione positiva, quasi una benedizione, per avere dato vita a questa poesia, dall’altro lato, essa, in quanto è solitamente e inconsciamente associata alle idee di nascita e morte, va assolutamente combattuta e rimossa. Secondo Thich Nhat Hanh, «Per liberarci da ogni paura dobbiamo entrare in contatto con il fondamento del nostro essere e allenarci a guardare le cose in maniera diretta, alla luce dell’interessere»[1]. E l’interessere, per la Mannino, è e richiede “qualsiasi grado o sfumatura relazionale. È, in primis, l’amore, cura dello sguardo interiore altrui. È cura delle interazioni. È comunicazione con rispetto”. Fondamentale, allora, è ripiegarsi sulla propria intimità, ascoltarsi, essere consapevoli dei propri sentimenti, delle proprie emozioni, dei diversi stati d’animo, per relazionarsi, per prendersi cura dell’altro e dei rapporti interpersonali. Importante è, altresì, conoscere le proprie aspettative, le proprie afflizioni, i nodi interni, per trasformarli, per migliorarsi e far crescere la propria autostima, per acquistare la “voglia” di sé e affermare il proprio “nome / tutto intero” e scriverlo “sulla lavagna del cielo”. Emanuela ha questa capacità introspettiva perché grande è il bisogno di dare e ricevere amore e, come lei dichiara[2], “l'amore, non è solo il rapporto speciale che può nascere tra un uomo e una donna”, è anche  “essere se stessi, limiti compresi. Amarsi quando non si è amati”. Certo, non è facile ignorare, l’incomprensione, l’indifferenza, il disamore che riceviamo dagli altri, specie quando si lotta con sé stessi per cambiare, e pesano “La gravità del cuore / sotto l’involucro del deserto / (…) Greggi di solitudini / (…) sguardi erosi. / Com’è difficile esserci” senza un ‘prossimo’ con cui entrare in comunione; quando si è consapevoli, soprattutto, della difficoltà di essere; che la propria vita cambia ed è sempre la stessa, e il mondo diviene sempre più inospitale; quando è arduo e complicato discriminare il sé dal non-sé; quando urge l’esigenza di discernere il bene dal male, ciò che è giusto fare da ciò che è da evitare. E la conoscenza è l’abisso ed è il ponte verso l’infinito che non possiamo attraversare.
Sono cambiata, sono la stessa. Dipende. Sicuramente, ne ho fatta di strada. *Eppure*... la mia strada è nel mondo ed il mondo è sempre più in difficoltà. C'è da fare, tanto. Ma altrettanto da "non fare". C'è l'ignoto, come per tutti noi...[3]
 
Dove sono stata io / in tutti questi affanni cent’anni, / dove? / (…) io c’ero / per esserci ora / ora / non è ancora / la mia inutile ora / ora / la mia dimora / fra le diagonali del vento.
 
Riecheggia, nella congiunzione avversativa, la condizione esistenziale della nostra poetessa: quel suo esserci nel mondo, già heideggeriano, dove faticoso è il cammino alla ricerca del proprio essere, specie se viene meno l’interessere, ovvero, l’«essere-con»: la relazione e l’interdipendenza con gli altri, con la natura, con tutto ciò che ci circonda. E in questa fatica leggiamo tutta la  fragilità di Emanuela: il timore e il tremore di chi si sente sperduto, senza dimora, senza radici; di chi acquista coscienza di questo smarrimento, che è il destino proprio dell’uomo, «deietto», gettato su questa terra e che s’interroga sull’esistenza propria e del mondo, come ancora Heidegger insegna. Un’eco profonda di tale condizione troviamo pure nei seguenti versi della Nostra, dove c’è, sì, pena di vivere, eppure speranza, una timida voglia di rinascita sia pure nella sofferenza, tra dimostrazioni di solidarietà vere, sincere, di affetto ritrovato, e dicerie anonime. Sì che, qui è dichiarata l’accettazione dell’esistenza, quel dire «Sì» alla vita nonostante tutto.    
 
Come siamo fragili (…) Come siamo / più non siamo/ tremiamo di tremori sperduti / (…) Risorgere in campi di lacrime / tra fiori d’abbracci e bisbigli bianchi.
 
Eppure, questa congiunzione, che figura solo nel titolo della silloge, ma che è, tacitamente, trasversale in tutta la raccolta, non ha soltanto la funzione avversativa. Essa accoglie in sé quel «Sì» esistenziale, che le dà valore affermativo, e accompagna fin dall’inizio la nostra poetessa, nella cui voglia di vivere, di liberarsi della/dalla paura e nelle esortazioni che ella rivolge alla paura medesima, quell’affermazione aleggia facendosi coscienza e annuncio di una nuova primavera, di una possibile svolta da dare alla vita.
 
Più forte, / mia paura / parlami / voglio spegnere la notte / con il mio pianto, / mostrami la via / del sentiero infranto. / Mostrami l’acqua / che attraversa il deserto / mostrami la pioggia / che s’insabbia nel petto. / Sento la cima primavera / fiorire dal silenzio.
 
 
Dal silenzio nasce la poesia che promette la nuova stagione; è nell’ascolto del silenzio che la paura si fa parola feconda che può accompagnare e guidare Emanuela nel suo cammino esistenziale, volto a realizzare l’interazione, l’incontro con l’altro; che può proteggerla dal buio, dalla solitudine e soddisfare la sua sete d’amore consentendole di riallacciare i fili della comunicazione interrotta, di conciliare la vita intima e la vita sociale, “ordinare il disordine del fuori-dentro” e riconquistare spazi di riflessione per nuovi progetti, nuove ideazioni.
      Una profonda malinconia, addolcita dalla musicalità che le conferiscono le figure foniche, attraversa e permea tutta la raccolta. E se alla conclusione di quest’ultima la Mannino si chiede:   “(…) Quanto navigare / ancora, dovrò / (…) Quanto sentire / ancora / la carne del mondo / la mia carne, senza mondo? / Degna / la mia Vita, / di lacrime ed errori /di sogni in volo / di mani bianche / e di risvegli di guerra. / Degni / tutti i miei vuoti stanchi / ed  i miei pieni infranti. / Eccoli i miei anni / in braccio / alla mia terra”, ebbene, lo sconforto, l’afflizione, l’amarezza, che trasudano da questi versi, trovano consolazione nell’amore e in quell’affidamento degli anni consegnati “in braccio alla terra”, che sembra echeggiare la condizione dell’uomo quasimodiano destinato a una vita fugace e alla solitudine “sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole”. È l’amore, soprattutto, quello “subliminale”, il “canto sommesso”, che esplode e trionfa nel “godimento infinito” e condiziona tutta l’esistenza garantendone l’affermazione, che mette la nostra poetessa in posizione d’attesa, disposta a riabbracciare il mondo, la propria terra. Perché lo richiede la sua anima: il ‘luogo’ privilegiato dell’ascolto e della contemplazione, in cui si tengono insieme la fede, la bellezza e la ragione. In virtù di questo felice connubio, se  rivolgessimo alla Nostra la domanda che fu fatta ad Anassagora: «A quale scopo ti trovi sulla terra?», siamo certi che, come il filosofo, ella risponderebbe: «Per osservare e contemplare il cielo e la disposizione del Tutto».
 
 

[1] In La via della trasformazione, Oscar Mondadori, 2009, pag. 289
[2] Postato su Fb, 14 gennaio 2023
[3] Postato su Fb, 28 dicembre 2022
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