“Jack Kerouac tra cristianesimo e nichilismo” di Ferdinando Bergamaschi

E’ negli Stati Uniti che nasce e si sviluppa quella che è una delle più interessanti e importanti avventure esistenziali e culturali che la storia moderna ci ha offerto e cioè quel movimento che prende il nome di Beat Generation. Padre spirituale di questo movimento può essere considerato Jack Kerouac in quanto probabilmente egli, più di Allen Ginsberg, Neal Cassady, William Burroughs e altri, portò a consapevolezza l’entità stessa di questo movimento. Esso, che come realtà letteraria nasce tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta dello scorso secolo (solitamente si fa coincidere il suo inizio nel 1951, data della pubblicazione del più celebre romanzo del Kerouac, On the road) è probabilmente il più “arcaico” e meno attuale dei movimenti d’avanguardia dello scorso secolo; sia rispetto al futurismo che ebbe ed ha importanti risvolti in ambito artistico, sia rispetto al sessantottismo (e per estensione all’hyppismo) che ha avuto e in parte ancora ha risvolti in ambito artistico, sociale, culturale e talvolta perfino politico; sia rispetto al femminismo che ha inciso molto nella società da tutti i punti di vista.

Ciononostante il movimento beat contiene un fascino particolare perché, crediamo, il suo carattere così individualistico ed estremo (più individualistico ed estremo anche del futurismo che comunque ha espresso in parte, benchè in modo velleitario, anche esigenze politiche, quindi sociali) lo conduce direttamente alle soglie estreme dell’alienazione umana. Forse l’unico paragone che regge è quello con un fenomeno del secolo ancora precedente, quello dei “poeti maledetti”, che in altro modo, cioè in modo intimistico, ha portato a risultati simili da un punto di vista esistenziale;  benchè però questi poeti francesi abbiano lasciato un’impronta letteraria e artistica molto più incisiva di Kerouac e sodali ma senza arrivare agli estremismi esistenziali di questi ultimi. Nel vero beat non c’è una “teoria” o una “ideologia” come fu per gli altri movimenti d’avanguardia ma c’è solo una fiamma che brucia; la creatività del beat è quella di vivere bruciando: l’autodistruzione. Non scomoderemo dunque Bakunin o Stirner per dare una giustificazione teorica a questo movimento.

I temi principali dell’ “arsione esistenziale” del beat sono noti: il viaggio senza meta, la voglia irrequieta di totale libertà, l’insofferenza per ogni regola esteriore, il rifiuto della società materialistica e più in generale del materialismo, la disinibizione sessuale, l’uso di droghe e di alcool, talvolta la violenza; a ciò si aggiungeva l’ecologismo e l’interesse per le religioni orientali.

E’ vero che Kerouac propose anche istanze politiche qua e là ma esse furono da lui vissute in modo tutt’altro che organico e conseguente ad una chiara visione del mondo, ma solo come estremo gesto anticonformista; come quando, per pura provocazione, ad un’assemblea di beatnik nel 1967 egli citò in funzione celebrativa il discorso di Hitler al Reichstag nel 1937: “la volontà che unisce i nostri gruppi ci fa comprendere che gli uomini e le donne devono apprendere il sentimento comunitario al fine di difendersi contro lo spirito di classe, la lotta delle classi, l’odio di classe” e poi “Noi andiamo a vivere presto in comune la nostra vita e la nostra rivoluzione! Una vita comunitaria per la pace, per la prosperità spirituale, per il socialismo!”. In questo modo scioccò perfino il suo stesso pubblico composto ormai, nel 1967, più da hippy che da veri beat; pubblico il quale era giunto fin lì per osannarlo; e infatti questi giovani lo osannarono prima di scoprire che le parole che il loro precursore e “maestro” aveva pronunciato erano di Hitler.  O come quando proprio in Italia, a Napoli, assieme all’amica Fernanda Pivano, davanti a una folla pronta, anche qui, ad incensarlo rovinò deliberatamente la festa di questi suoi sedicenti discepoli definendosi un “patriota”; naturalmente fu insultato e gli fu gridato “fascista” dalla folla sconvolta. Ma tutto ciò, com’è evidente, è secondario rispetto al significato intrinseco dell’esperienza di Kerouac.

Egli rimane un isolato o trova un posto e quindi un nesso in questo mondo? Se da un lato sembra che Kerouac non riesca a collegare nessuna delle sue inclinazioni alla società in cui vive e quindi non riesca a creare nulla che gli sopravviva, d’altra parte, però, ciò che gli sopravvive lo ha dentro di sé, nella sua fede cristiana, nel suo intimo cristianesimo, in quella fiamma di devozione per il Cristo che rivendica fino alla fine. Un anno prima della sua morte, al suo intervistatore Ted Berrigan che gli chiedeva perché non aveva mai scritto di Gesù rispose: “Tutto ciò che scrivo è Gesù”: dunque è proprio ciò che scrive, che “è Gesù”, quel qualcosa che gli sopravvive,  quel nesso con il mondo. Questa fiamma di devozione per il Cristo è proprio ciò che egli proietta all’esterno in quelle meravigliose e lunghissime strade americane a cui dedica la sua vita. In fondo il suo “bruciare, bruciare, bruciare” è, forse, solo l’espressione scomposta ma genuina di un forte idealismo, quasi misticismo, che egli ha connaturato in sé; solo la scrittura ha permesso di trovare per questo idealismo o misticismo il canale di atterraggio quaggiù, fra gli altri uomini.

Infine vi è da considerare che solo la società statunitense poteva regalarci questa epopea, nel bene e nel male. Nel bene, perché gli States sono la più affascinante e bella possibilità che ha l’uomo di confrontarsi con la modernità e di sfidarla; nel male, perché l’uomo subisce la potenza materialistica degli States, una potenza materialistica che non ha avuto pari nella storia delle civiltà, persino al paragone con l’Unione Sovietica. Quest’ultima considerazione ci porta ad un interrogativo fulminante: le catene (non troppo lunghe né troppo corte, ma a giusta misura) della civiltà capitalistica statunitense sono come la gabbia del totalitarismo stalinista?  A questa domanda rispondiamo sì. Intendiamoci: Kerouac non è un Solzenycyn americano. Ma, se Solzenycyn può essere considerato figura compiuta di asceta, anche Kerouac possiede dei tratti ascetici. E se Solzenycyn ha vissuto da carcerato lottando per la vera libertà in un mondo dichiaratamente non libero (l’Unione Sovietica), Kerouac invece ha vissuto da “disadattato” e da “bruciato” bramando la libertà  in un mondo di finta libertà (gli Stati Uniti).

Nell’attesa (speriamo breve) che l’Occidente realizzi la sua vera natura liberale (di libertà) e sociale (di socialità), quindi cristiana, e non sia più cavalcato dall’Alta Finanza che si presenta con il finto abito della liberal-democrazia, possiamo guardare con un certo rispetto e una certa ammirazione alla figura di “bruciato” e “disadattato” quale fu Jack Kerouac.

 

 

 

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