Il desiderio di conoscere il vero
- Dettagli
- Category: Scritture
- Creato: 08 Marzo 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
- Hits: 1634
di Dom Bernardo Francesco M. GIANNI OSB
Molto volentieri avvio lo sguardo e l’intelligenza del lettore a queste ispirate pagine del caro oblato benedettino secolare Marcello Falletti di Villafalletto. Esse hanno ricevuto dall’autore una profonda connotazione cristologica per portare così la nostra attenzione al cuore stesso del mistero della nostra fede, l’uomo Dio Gesù Cristo. Tale indagine è propiziata dalla forma interrogativa più radicale che possiamo porci di fronte al volto del Nazareno: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). Alla risposta l’autore ci conduce ripercorrendo per noi e con noi le orme del Signore Gesù fino ad arrivare al Calvario ove risuona il riconoscimento per noi definitivamente illuminante e consolante: «Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”» (Mt 27, 54).
Andrà subito sottolineato come il volumetto abbia avuto la sua gestazione nel contesto inevitabilmente più caro alla sensibilità spirituale dell’autore che esplicitamente ci avverte come l’ispirazione a scrivere gli sia giunta nel contesto della celebrazione liturgica del triduo pasquale. Poteva essere diversamente per un cuore benedettino come lo è quello dell’autore, da molti decenni oblato dell’Abbazia di San Miniato al Monte? La liturgia è il luogo e l’esperienza in cui si riattualizza il mistero, mai in forma esteriore, ripetitiva e ritualistica, ma al contrario in forza di quello Spirito che rende i gesti compiuti e le parole ascoltate vere esperienze rivelative della volontà di quel Signore che non si stanca di bussare ai nostri cuori. Con sapienza teologica l’autore, che in modo fedelmente monastico costruisce il suo libro anzitutto sul terreno fecondo di una lectio divina evidentemente assidua e appassionata, ci ricorda la peculiarità decisiva del Dio di Gesù Cristo, il Dio della Rivelazione, il Dio che intende accorciare le distanze fra la sua inafferrabile alterità e la nostra sete di senso.
Scrive dunque Falletti di Villafalletto: «La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazaret, permette a chiunque di accogliere il “mistero” della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta l’autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e si comprende in pienezza la parola del Signore: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32). La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l’ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All’uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità».
Davvero di ammirevole chiarezza e di limpida pregnanza spirituale una siffatta sintesi del mistero amoroso che intreccia da un lato la libera iniziativa del Dio che parla all’uomo autorivelandosi, dall’altro la risposta «desiderosa di conoscere il vero» propria dell’uomo che esce da se stesso per gettare finalmente lo sguardo oltre l’immediata e scontata evidenza. Trovo particolarmente consonante l’utilizzo di questa qualificazione per il cuore dell’uomo evangelico: un cuore desideroso, un cuore assetato di verità, dinamicamente volto alla ricerca del mistero. È ancora possibile propiziare soprattutto nei nostri giovani la riscoperta di un intreccio serrato di gioia ed inquietudine come propulsione orante e desiderativa necessaria per riscoprire l’urgenza di quel quaerere Deum carissimo alla nostra tradizione monastica e così disinvoltamente liquidato dalla nostra contemporaneità? La nota sentenza di Pascal secondo cui «l’uomo supera infinitamente l’uomo» svela come la nostra umanità sia quasi costretta a misurarsi con questa inesausta tensione desiderativa capace almeno potenzialmente di dilatare ogni suo confine e limite, anche quando questi ultimi paiono insormontabili e invalicabili. Tale tensione, pur inesausta, non garantisce di per sé l’approdo all’altro mistero, il mistero dei misteri, quello di Dio, ma non mancherà mai di reclamare continui e coraggiosi sconfinamenti oltre ogni oltre. Se in queste rotte trasversali la struttura interrogante del cuore dell’uomo «mendicante di Dio» si lascerà umilmente orientare dai promettenti riverberi della luce che di sé Dio stesso offre all’uomo per smettere di sopravvivere e imparare a vivere, ecco che accadrà l’incontro sul crinale di un amore capace di svelare quell’intima inerenza fra l’umano e il divino che il peccato aveva drasticamente manomesso, ma che la misericordia del Padre, in Cristo e con Cristo, ha voluto e saputo restaurare. Nessuno meglio di Dante Alighieri ha descritto tale amorosa, verticale dinamica di desiderio che appena soddisfatto per singolare prodigio è subito rigenerato più potente di prima. Il riferimento è inevitabilmente al canto XXXI del Purgatorio, i versetti 127-9:
Mentre che piena di stupore e lieta
l’anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta.
Non diversamente dovrebbe accaderci per quel pasto pasquale con cui, in ogni divina liturgia, «annunciamo la morte del Signore, proclamiamo la sua resurrezione nell’attesa della sua venuta». Nessuna nostra saturazione per pigrizia, abitudine, indifferenza o ingratitudine dovrebbe mai soffocare o arrestare quella tensione desiderativa che schiude il cuore del nostro tenue presente all’irrompere di quella grazia generata dall’evento pasquale e attualizzata in ogni eucaristia. Non a caso verso tale apice protende e deve protendere, lieto e purificante, il «desiderio spirituale» di ogni vero monaco nell’itinerario quaresimale della propria comunità, appassionatamente orientata «con la gioia dello Spirito Santo» alla celebrazione del mistero dei misteri, della salvezza di ogni salvezza, dell’evento di ogni evento: la Pasqua del Signore Gesù. Il testo latino della Santa Regola nel capitolo sull’osservanza quaresimale è chiarissimo (RB XLIX, 5-7): Ergo his diebus augeamus nobis aliquid solito pensu servitutis nostrae, orationes peculiares, ciborum et potus abstinentiam, ut unusquisque super mensuram sibi indictam aliquid propria voluntate cum gaudio Sancti Spiritus offerat Deo, id est subtrahat corpori suo de cibo, de potu, de somno, de loquacitate, de scurrilitate, et cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha exspectet.
Poteva proporci qualcosa di diverso colui che – secondo la biografia scritta da san Gregorio Magno – aveva iniziato il suo cammino di conversatio monastica «soli Deo placere desiderans» (II Dial., Prol 1)? Ma se ci è possibile percorrere un tale tracciato nel deserto esigente ma liberante della quaresima, lo è solo in forza della grazia del Signore. È questi infatti a desiderare il nostro desiderio, a desiderare per ciascuno di noi l’incontro salvifico con la sua presenza, il suo mistero, la sua pasqua. La convergenza dei due desideri, fatta salva l’ovvia anteriorità nel tempo e nella qualità di quello del Signore, è di mirabile suggestione e di quasi simmetrica evidenza se al succitato, splendido testo della Regola benedettina accostiamo un frammento prezioso del Vangelo di Luca, il capitolo 24, i versetti 14-18: «Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio». Ogni celebrazione pasquale, ogni celebrazione liturgica scaturisce evidentemente dall’incontro fecondo e generativo di questi due desideri che, attraverso una memoria attenta e amorosa e la grazia della fede e della speranza, propiziano la trasfigurazione del passato in memoriale, del presente in evento, del futuro in profezia di beatitudine.
A questo stupendo approdo di senso e di salvezza ci avviano molto fruttuosamente le pagine di Marcello Falletti di Villafalletto che non manca di illuminarci fin dalle primissime pagine circa il più profondo intento del suo lavoro, generato da un profondo senso di fraternità premurosa e quasi di indole pastorale. Vale anche qui la pena di una non breve citazione: «La riflessione, lo spavento e l’angoscia, provate per un lungo momento, hanno lasciato spazio alla consapevole serenità di quella frase: “Davvero Costui era Figlio di Dio!” ed ho ritrovato me stesso; pur proseguendo a camminare per una strada che quotidianamente continua a pormi ulteriori quesiti che per ora resteranno tali e che troveranno, sicuramente, una logica risposta in un futuro, quando il mio tempo non sarà più umano ma trasferito, trasformato completamente in qualcosa di diverso e i freni e le inibizioni della carne avranno lasciato il posto ad una verità che, in quel breve attimo e successivamente, appariva notevolmente confusa. Proprio durante quell’istante, la mia mente è corsa alle parole di san Paolo, a sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino che hanno saputo trasfondere nel mio essere fragile ma con efficaci riflessioni, quel coraggio di intravedere una chiarezza totale e una luce che, al momento attuale, difficilmente riuscirei a vedere e tanto meno a comprendere. Lo stesso pensiero è corso verso i miei “fratelli” di fede, osservandoli mentre eseguivano tutti i passaggi liturgici che, proprio in quei tre giorni, assumono una cadenza e una ritmicità che lasciano fortemente coinvolti, se non propriamente emozionati. Brevemente ho pensato se anche “loro” avessero gli stessi turbamenti, i medesimi dubbi che assillano profondamente anche il più devoto e convinto. Non mi ha sfiorato, minimamente, il pensiero di peccare: poiché, non mettevo in dubbio la veridicità di quanto osservavo, o di quanto anch’io eseguivo correttamente ma, solamente ritenevo lecito pormi quelle domande alle quali, successivamente, ho cercato di dare alcune interpretazioni, tutte personali e alla luce della conoscenza che altri mi hanno permesso di rielaborare».
Sia benedetto il Signore per aver suscitato nel cuore del nostro autore queste umanissime domande e ispirato quelle personali interpretazioni che come risposte attinte dalla corrente della sana Traditio ci vengono qui proposte. In questi tempi apatici e appiattiti su di un presente generalmente reciso dalla memoria e sottratto alla dinamica della speranza, pare già un grandissimo merito di queste pagine l’invito a rimetterci in cammino, a sollecitarci dei quesiti, a cercare delle risposte e, forse più ancora, a riattivare la dinamica mossa e feconda dei più veri desideri.