“I Viceré di Sicilia: chi rappresentavano chi erano. Prerogative” di Vittorio Riera

Quella di viceré fu, ci informa  Messina (p. 40), un istituto ‘tipicamente spagnolo’ certa tendenza vale a dire al lusso, ad apparire più di quanto si sia, soprattutto economicamente. È  costume, questo, visibile anche ai tempi nostri  ereditato dagli spagnoli durante il loro dominio in Italia.
La carica viceregia durò ben quattro secoli – dal 1415 al 1798 – e fino al 1713 il viceré fu esclusivamente spagnolo.
Il nuovo  viceré veniva accolto con uno sfarzo che doveva mandare in visibilio gli spettatori  che immaginiamo accalcati lungo le strade. “La sua prima entrata in Palermo o Messina era una processione trionfale, che regalava alle folle uno di quei magnifici spettacoli a loro tanto graditi e che sollevava la speranza che il nuovo governatore fosse migliore del precedente” (Messina (p. 41), citando Koenigsberger (1997, p. 104). E ancora: “Palermo e Messina gareggiavano nell’organizzare ricevimenti da mille e una notte, fino a quando i costi divennero così eccessivi che dovettero essere limitati per legge a 500 scudi per ciascuna città” (Ib.).
Singolare il modo come veniva scelto un viceré. Accadeva che molto spesso un cortigiano desse dei fastidi a Corte.  Si ricorreva a quella locuzione latina Promoveatur ut amoveatur  «sia promosso affinché sia rimosso». Sicché il funzionario fastidioso veniva allontanato ma, per indorare l’amara pillola, veniva promosso con la  nomina a viceré.
In genere, il viceré durava in carica tre anni. In casi eccezionali, poteva essere riconfermato a tempo indeterminato come nel caso di José Carrillo de Albornoz, III conte di Montevar (Messina, p. 41), citando il Di Blasi (1975, IV, p. 194).
Al momento della nomina, il viceré giurava di non prevaricare il Parlamento siciliano. Scrive Messina (pp. 41-42): “La dignità del viceré  era enorme agli occhi del popolo: oltre che rappresentante del re, era legato pontificio in Sicilia; in nome del re, convocava i parlamenti, conferiva le cariche di molti pubblici uffici, pubblicava editti e prammatiche, aveva il comando delle forze della Sicilia e poteva chiamare alle armi i baroni in caso di una minaccia d’invasione”.
Si trattava, tuttavia, di una autorevolezza fasulla, per così dire, e non per inadempienza del viceré, ma per insipienza dello stesso Parlamento che identificava il viceré con lo stesso sovrano e che quindi le sue prerogative erano ritenute sacre, indiscutibili. Erano tuttavia prerogative più apparenti che reali sia perché il sovrano dava istruzioni segrete a quanti erano alle dipendenze del viceré, sia soprattutto perché il viceré doveva scontrarsi con la nobiltà siciliana, che temeva di vedere disperdere i suoi privilegi (Messina, p. 42), Soprattutto il viceré doveva vedersela con l’onnipresente Inquisizione perché “dipendendo gli inquisitori direttamente dal re, che li nominava, venivano a costituire un organo di controllo sia della Chiesa sia dello stesso viceré che poteva essere richiamato dietro loro segrete informazioni” (Messina, p. 42), citando Titone 1978, pp. 31-32).
Se ne può dedurre che la vita dei viceré non era facile. Koenigsberger (1997, p. 206) parla addirittura di situazione drammatica in cui venivano a trovarsi i viceré e ciò perché “il sistema di governo vicereale, così come fu esercitato in Sicilia, si dimostrò deleterio per la reputazione dei suoi governanti” l’un contro l’altro armati, è il caso di dire, poiché ogni viceré manovrava per il proprio tornaconto, non pensando minimamente al benessere dei loro governati.
Una situazione, come si vede, senza vie d’uscite che obbligò la Corona a ridurre col tempo i poteri dei viceré istituendo il Supremo Consiglio d’Italia “con una competenza illimitata” (Messina, p. 43) e le cui decisioni si sovrapponevano a quelle del viceré. Tale Consiglio, scrive Koenigsberger (1951, p, 68), “influì efficacemente sugli organi dirigenti, controllando il patronato e gli impieghi” assoggettando, almeno in apparenza, le decisioni viceregie. In apparenza perché molto spesso il viceré riusciva a eludere il controllo del Sovrano giungendo al punto di ignorarne le istruzioni (Giardina, 1931, p. 292). Insomma, una situazione, come si vede, insostenibile tanto da indurre Filippo III a intervenire con misure drastiche “facendo sospendere loro gli stipendi dal Consiglio Supremo d’Italia” (Messina, p. 44). Una misura, questa, che di fatto impoveriva il viceré che cadeva in disgrazia. Abituato a nuotare, come si suole dire, nell’oro non solo doveva rinunciare agli emolumenti per la carica che ricopriva, ma anche a una serie di prebende quali “la riscossione di alcune rendite (…), le indennità per le spese che si dovevano affrontare nelle pubbliche solennità (Messina, p. 44). Godeva inoltre di donativi e di franchigie varie. Il Giardina (p. 239), tuttavia, riconosce che tutto ciò non bastava ai viceré “per mantenere la loro casa, dare feste alla nobiltà, elemosine  al popolo”, vivere insomma, con quello sfarzo di cui si diceva all’inizio.
                                   
 
BIBLIOGRAFIA
 
G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ Viceré, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1790-91; Edizioni della Regione Siciliana, Palermo 1974-75.
 
Id. Storia del Regno di Sicilia, IV, 1975, p. 194.
 
C. Giardina, L’Istituto del Viceré di Sicilia (1415-1798), in “Archivio Storico Siciliano”, 1931, p. 239 e p. 292.
 
H. Koenigsberger, The government of Sicily under Philip II of Spain, London 1951; trad. It., L’esercizio dell’impero, con una nota di Virgilio Titone, Palermo 1997.
 
Calogero Messina, Sicilia 1492-1799 – Un campionario delle crudeltà umane. Con un Discorso sulla Storia. Una nota di Cristina Barozzi, L’ORMA, Palermo 2022.
 
V. Titone, Il Parlamento siciliano nell’età moderna, in Mélanges Antonio Marongiu, Palermo 1967.
 
Id. La società siciliana sotto gli spagnoli e le origini della questione meridionale, Palermo 1978.
 
 
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