“I ditirambi e il carnevalesco di Domenico Tempio” di Maria Nivea Zagarella

La satira e la risata buffonesca e dissacratoria trovano nel Carnevale terreno fertile e naturale. Ma la letteratura non è da meno se in autori di genio il “carnevalesco” si fa chiave di interpretazione della realtà e cifra naturale della loro arte come nel poeta catanese Domenico Tempio (1750/1821). A circa duecento anni dalla sua morte la sua Musa stravaganti e mpurtuna continua “allegramente” a rovesciare gerarchie e tabù, usando e intrecciando, come grimaldelli sociali “temporanei”, quale appunto il “rovesciamento carnevalesco”, e come sferzate “anti-convenzioni”, feticci sessuali, bizzarre parodie mitologiche, espressionistiche allegorie. Un gioco divertito e beffardo della Verità che trova esiti più o meno convincenti, più o meno caustici secondo i vari componimenti. Nei due Ditirambi lo sguardo realistico e la polemica sociale si mischiano allo “scherzo” letterario, a divagazioni fantasiose e pezzi di bravura inventivo-descittiva fini a se stessi, o a motivi autobiografici, diluendosi alquanto, ma conservando, là dove affiorano, l’efficacia dello scandaglio critico-ironico o il tratto tipico della goffaggine/volgarità popolaresca, senza perdere in icasticità.

Il primo ditirambo fu recitato dal poeta, durante il carnevale del 1789, nell’Accademia degli Etnei; il secondo fu scritto nel 1800 e pubblicato nel 1814. Li unisce la figura del protagonista, l’ubriaco Varvazza (Barbaccia), che nel secondo porta a compimento, ma con altro stato dato d’animo (una punta di finale disincanto) il suo elogio dei vini, che viene interrotto nel primo dallo stesso Bacco (zittu, -dice il dio- e facemu megghiu trinchilanzi [meglio beviamo]). Rispetto al ben dissimulato e organico impegno intellettuale del ditirambo Sarudda di G. Meli, l’ottica di Tempio resta nei due testi gratuitamente e prevalentemente “letteraria”, anche se di una letterarietà “alla rovescia” per lo spazio che vi hanno gli elementi fisiologici e la trasgressiva, violenta talora, crudezza del linguaggio nella caratterizzazione di taluni dati fisici o circa gli atti stessi del “trangugiare”, ruttare, vomitare (si rivutaru di li chiusi visciri/ li carzarati cibie sbocca lu pistifiru cannaci [torrente]), orinare, evacuare reale (la diarrea/sciode-pise [Chaude-pisse] da curare col vino) o in metafora (la “sorte” stitica che mai non caca per matina, o a cui  viene l’indigesto e si smerda, o ancora, il “clistere” delle tasse, o lo scirocco definito pestilente peto del vudeddu (budello) nfestu del diavolo). La scatologia e la sessualità sono ingredienti naturali dell’immaginario caricaturale e/o polemico di Tempio. L’ambientazione mitologica, come nel Bacco in Toscana di F. Redi (modello suo e di Meli),  e in uno spazio “aperto”, del primo ditirambo vede nei versi iniziali una Fama personificata e volgaruccia (ciarlatana e pussenti chiacchiaruna) che a vuci forti spinge un dio Bacco, sbracatu e occupato a svuotare la vescica facendo a terra una lavina (torrente), ad andare a scialacquarisi la panza fra la vera abbunnanza dei vini delle ameni campagni dell’Etna. Si noti il voluto cozzare (in funzione anti-arcade) del topos letterario classicheggiante con la situazione descritta, così come più avanti la vista dei vigneti su una falda della montagna si dispiegherà come un pampinusu lettu (letto) di preuli (pergole) e viti in lascivetti intrichi (sic!), unni [però] ti cci strichi  (dove ti ci sfreghi) in un volgare rapporto erotico. Accompagnato da Arianna e da Sileno, Bacco si presenta a Monte Po’, alle porte di Catania, e gli corrono incontro, portandogli in dono dentro i barili li chiù putenti e li chiù vappi vini di quelle cuntrati furtunati, tutti gli ubriachi della zona. Apre quella traballanti (sic!) truppa di guagghiardi e smargiassi vivituri, paragonati umoristicamente dal poeta a tanti scravagghi ‘ntra la stuppa (scarafaggi nella stoppa), il plebeo Varvazza, sbracatu quanto il dio, ‘nzavanatu (malvestito), valintuni di cannarozzu (esofago), tumefatto nella faccia di vino, con gli occhi rossi e il fiato puzzolente, e tuttavia, essendo più allittricatu (letterato) degli altri, è lui a parlare al dio, dopo essersi opportunamente atteggiato: si fricàu l’occhi, si stuiau lu mussu/ e dopu guadagghiatu (dopo avere sbadigliato) a sti palori aprìu lu so palatu (palato). Il “palato”, appunto! In Meli il vino vera ambrosia di li Dei, che gli trapana l’alma di ducizza, è costantemente relazionato alla fuga da cancari e trivuli. Pure per il sottoproletario Varvazza il vino è cunfortu ‘ntra li peni, rende la vita tollerabile a chi “beve bene”, e con un fiasco in mano si sfida vittoriosamente il destino, ma tali benefici nella sua lunga “tirata” sono un antefatto scontato, brevemente evocato. In primo piano è invece nel primo ditirambo il tastari (assaggiare, gustare) questo o quel vino e il verbo tastari è più volte ripetuto, parimenti alla focalizzazione del mussu (muso) che gusta il vino, e che si accosta deliziato al mussu della cannata (boccale) o addirittura “si allunga“ vogliosamente dintra lu gottu (bicchiere). Il vino è detto sensuosamente sucu (succo), e sangu, che la vite appizzata sangisuca (attaccata sanguisuga) tira e suca (succhia) dalla terra, e una volta nella botte scuma, vugghi (bolle) e fa sangeli (diventa migliaccio!)/ ch’è chiù duci di lu meli. E dentro questa apoteosi continuata della corporalità, nella fantasia popolana di Varvazza assecondata fra adesione e ironia da Tempio, giganteggiano le botti ammucchiate nelle ricche e ombrose “dispense” padronali, o certe taverne, e i “cibi” rusticani a cui accoppiare le diverse qualità di vini che meglio li esaltano, o che essi stessi “evocano”, anche in maliziose metafore.

 Il vino di Nesima è un balsamu di stomacu che va bene sopra i pasti d’olio, sul baccalà e l’olivuzzi; quello squisitissimu di San Placido venduto e spillato dalle mani di Suor Maria la dispensiera (Ma chi vinu!.../ e chi manu!..) fa ringalluzzire il cuore a cacocciula (a carciofo); quello sustanziusu di San Benedetto è vino da pasto che in estate si beve in “cantimplora di neve” (bicchiere o vaso ghiacciato) e lu sitibunnu e siccu cannarozzu/ mentri ca si lu gnuttica a buluni (lo trangugia a bizzeffe)/ s’apri, s’allarga e quello camina la sua strata,/ va pri li soi declivi (gli intestini),/ cala senza cuntrastu rittu rittu,/ e quantu chiù nni vivi (bevi),/ ti sbogghia (ti sviluppa) nova siti e chiù pitittu (e più appetito); col vino della Bicocca (biata chidda vucca ca ti tocca!) certi ubriachi rimasti famosi nel loro ambiente erano abituati ad accompagnare, compensativamente, una frittella, un pezzo di trippa dura come cuoio, un tozzo di guastedda (forma di pane) o na fidduzza (fettina) dilicata di supprizzata (salame) e uno consigliava di berlo sul piccante per sentirlo più frizzante, ma tutto d’un fiato (a cannolu). Per non parlare del fantasioso polipo gigantesco cucinato, nel secondo ditirambo, con alivi e passuli (uva passa)/ e pitrusinu (prezzemolo) e chiappari (capperi) salati, divorato da Peppi ‘Mmetta dopo una coscia di cavallo a spezzatino, e innaffiato da uno sfunneriu (smodatezza di vino) di vinu. Al vino della vigna di Santo Totiro Varvazza eleva un invito adorante: Trasi, trasi, o perliquidu topaziu,/ pirliccami la gula, e poi l’esofagu, cala… e si dichiara divotu di quello di San Giuseppe alla Rena, leggero, diureticu,  piscianti, ma la sua predilezione va a un certo vino, oru potabili (si noti la sinestesia vista/gusto/tatto), che per il suo ardore è al suo palato focu vivu, capace di pungergli e graffiargli lu cannarozzu quand’anche questo fosse (con volo iperbolico) di stagno o di metallo, vino che lo fa diventare ‘nfucatu e russu nelle guance e tossire secco, e che lui deve necessariamente bere a Natale o a Pasqua o gli nesci l’arma (cioè non quieta l’istintuale bramare) come per il pitittu nelle donne gravide.

L’elenco dei vini, elenco che nel primo ditirambo mantiene- come si vede- una sua vivace eccitazione, per le continue intrusioni dell’io soddisfatto, appagato, di Varvazza, e per le frequenti allocuzioni a se stesso (Allegru, o miu pansili [pancia],/ ch’iu nn’adocchiu un varrili [barile]…) o a Bacco (Tè scialati lu coriAttentu, o Baccu,/ ch’ora ti sfodiru/ un vinu affabili… Levati,o Baccu, la divina coppula,/ saluta e facci milli rivirenzi…), crea anche l’occasione per allusioni di diversa caratura a personaggi più o meno illustri del tempo (vedi le lodi ai mecenati, amici di Tempio, Ignazio e Vincenzo Paternò Castello, principi di Biscari) o per riflessioni sulla società e sulla sorte, dove si “tradisce” la voce/animo del poeta. Il barilotto di moscatello “riscalda” maliziosamente certi “regolari” fracchi di schina (fiacchi di schiena) pri lu studiari; il vino rosso della vigna del cardinale accende l’estro poetico (?) dell’abate Zuccarello e dovrebbe invece berne don Raimondo (alias Raimondo Platania, maestro ammirato di classicità per Tempio), per scacciare malinconia e emicrania e avere più fortuna con i suoi eruditi scartafazzi; il vino riservato all’abate benedettino offre lo spunto per elogiare lu ‘mbriacu ingenuu che si sfegata (inutilmente) a dire la “Verità” (appunto perché ubriaco), innalzandolo trasgressivamente Varvazza al di sopra dei “grandi eroi” secondo il giudizio/occhio del mondo: il birbante divenuto ricco e che vuole il “don”, l’ipocrita che è l’oracolo della città, l’imbroglione che è temuto, il cornuto che è protetto, il mariuolo che è difeso, il malfattore che è stimato uomo di valore. La fortuna commerciale del mercante portoghese innesca una requisitoria contro i capricci della “sorte” vera pazza di catina, da cui Varvazza si difende con una ricetta che prevede un caraffone di 6 quartucci di vinu di lu surdu (sic!), da raddoppiare se ancora ti senti siti, e tu ccu sta gran gioia ‘ntra li musculi/ ti sciali e ridi della Sorte. Questa “gioia” grassa e fistanti è il ludico motivo conduttore del primo ditirambo, dove, come è tipico del genere, non mancano le invettive contro chi annacqua o adultera i vini. La loro rassegna culmina con l’esaltazione del vino che per Varvazza è il migliore rispetto ad altre zone dell’Etna (Ragalna, Trecastagni, Belpasso, Viagrande), cioè un “bianchetto” prodotto tra la rena nera di una eruzione. L’eruzione è descritta con partecipata bravura da Tempio: Mungibeddu scassau/ crepò e sbottò,/ e fici senza locu/ un cannaci di focu…/ Si stisi la grammagghia (il manto luttuoso), e li giardini / li villi e li casini s’agghiuttìu,/ e li cuprìu/ di chisti massi duri, sciara e petri,/ niuri spilunchi crafucchiusi (bucate) e tetri. Quella stessa bravura descrittiva che nel secondo ditirambo emerge nella descrizione del paesaggio oppresso dallo scirocco, ventu marciusu, oscenamente personificato: ad ogni passu/ chi duna lu to pedi aspru e pisanti/ gemunu scarpinati e ciuri e pianti… Misira chidda pianta, unni ci appoia/ l’obesa panza to, unni ci truzza/ una punta di natica, o ci casca/ un vrazzu di li toi, languidu e smortu! Oppure nella fantasmatica tempesta che sballottola la nave/palazzu magnatiziu che ‘ntra na perpetua naca/ ora a li stiddi abbrancica,/ ed ora ‘ntra l’abissi si sdivaca…; o nel nuotare di Pipiridduni che li distisi vrazza (braccia) alterna, curri, si la sciala e sguazza, o nel remare del rugoso, setoloso e arrustutu in facci compare Desi che a li dipinti vrazza/ metti li rimi (remi), e pri l’ondusi vii (il mare)/ vola, facennu un surcu di scumazza.

ll secondo ditirambo, come mostrano le precedenti citazioni, ha una intonazione diversa, di  compiaciuta, distesa in più punti, evasione “narrativa”, anche se lo apre la longa (dissacratoria) pisciazzata di Varvazza che dopo avere dormito tutto il giorno si alza sudicio e sudato proprio al calare della notte, piscia, e va meccanicamente verso la nota taverna, dove la fragranza del luogo e la virtù che spira da ogni cannata gli ridanno forza, e ‘ntra na curuna d’amicuni veri riprende le bevute e la chiacchiara sfrinata. Chiacchiera  “al chiuso” (quasi a fisicizzare la distanza/immobilità di una certa degradazione umana e sociale rispetto agli “altri” che stanno più su), che comincia con l’elogio della cantina del ricco marchese di San Giuliano e prosegue con le lodi dei vini del pacificu Gagliano, di quello di Santa Chiara (inserito nella storia dell’ubriaco Maruffa) e di quello di Peloso, vinu accumudatu a ogni palatu, e dentro cui si può nuotare ccu li natichi in susu e testa sutta senza ubriacarsi, ai quali aggiunge Varvazza un doppio encomio: quello del fattivo Sangiorgi, che accantonato ogni ammuffatu e rancidu/ prigiudiziu di nobiltà, sistema da sé le sue botti (va ricordato che Tempio era di formazione illuministica, non solo umanistica), e quello di un borghese altrettanto sollecito buon massaio dello stato delle sue gravidi vutti. Continua poi con il vino forte di Marletta e quello stagionato e fragrante dell’avvocato Amato, che danno però lo spunto per una minuta dispersiva aneddotica su taluni strambi personaggi (ben noti probabilmente al popolino), e per una amara, polemica, riflessione sulle condizioni della Legge ai tempi del poeta, divenuta un mostru a centu manici, fondata supra na catasta di vulumi, di ntreppiti e prammatici sì da essere arbitraria, e perciò latra,/ e perciò all’omu onestu non ci quatra. Il tradizionale tema bacchico dell’acqua che fa male, mentre il vino risana ogni male fisico, e dei medici che sbagliano a curare con sciroppi e pozioni, anziché con scialo salutare di vini, detta le storie troppo lunghe e divaganti anch’esse di Peppi Metta e Filippu Maruffa. In quest’ultima Tempio/Varvazza inserisce il lamento sul “povero” minacciato in strada dalle carrozze currenti dei ricchi (tema presente anche in Parini) e incalzato dalla povertà, che era anche l’assillo quotidiano del poeta catanese (s’un mischinu ‘un ha chi spenniri/ guarda, spinna e nenti è so;/ e lu pejiu ca transiggiri cu la panza non si pò), il quale allude pure al caso autobiografico della distruzione in una tempesta (na botta di sciroccu) della barca con cui svolgeva i suoi non tanto remunerativi commerci. (Da vecchio dipese infatti dalla generosità dei suoi amici, finché non ottenne una pensione). Donde i versi finali del ditirambo in tono minore (e dal timbro privatistico), in cui Varvazza sentenzia sulla inutilità di lottare contro la sorte (riccu è sulamenti ogni frustatu/ campari non si pò senza li corna), prima di essere spiaccicato contro il bancone da una lite sorta dentro la taverna. Ccu sti ‘mbriacuni -commenta arreso, e Tempio ammicca divertito per la puntualizzazione moralistica- non c’è discrizioni, e zittitosi l’ubriacone va via.

 

 

 

 

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