"Gli ultimi fuochi" di Vittorio Riera

Gli ultimi fuochi perché sono le ultime cose che vado scrivendo. Il tentativo è di entrare dentro le parole, di andare oltre la parola anziché di fare critica tradizionale. Se ci sono riuscito non spetta a me dirlo.

 

 

 

  1. DI UNA LIRICA DI FRANCESCA SIMONETTI

 

 

SOGNO NEL SOGNO

 

Cerco una terra

dove l’estate non finisca

con una notte breve

fatta di lunghe albe

e la vita sospesa

nel limbo dell’attesa

senza gioie né dolori

in una landa con fiori rari

profumati e bianchi

sotto un cielo autunnale

e poi peonie rosse intrecciate

come catena che cinge i polsi;

ornamento ormai desueto

(oppure sogno nel sogno)

che ci fa tenui i giorni.

E in lontananza

barche di pescatori

piccole luci sopra il mare scuro

che fa paura

perché preannunzia l’oceano della notte

con i fantasmi dei ricordi svaniti

all’alba che ci riporta alla vita

che tornerà ad oscurarsi la sera.

 

COMMENTO DI VITTORIO RIERA

 

Una mesta musicalità, come in certi versi di Dante – il Dante dell’Inferno, intendiamo-circola per questi versi apparsi sull’ultimo numero– il 21° - di “Arenaria” la prestigiosa rivista diretta da Lucio Zinna. La poetessa viene colta alla ricerca di una terra che non abbia nulla della desolazione più o meno morale, più o meno fisica della terra desolata di Eliot. Anzi, al contrario, è proprio da questo agrore, da questo afrore, da queste esalazioni malefiche che hanno inaridito e reso buio, non più visibile e godibile il nostro pianeta che ha origine la ricerca della poetessa. Da qui il bisogno di luce, il bisogno di una giornata che non si esaurisca nelle ore più o meno lunghe di luce. Il bisogno di una terra che non sia una landa, “con una notte breve” e “fatta di lunghe albe”, una terra dove l’estate non finisca mai. Una terra che sia come un limbo, non quello dantesco dove vengono accolte anime il cui solo torto fu quello di essere nate e vissute prima della venuta di Cristo sulla terra; ma un limbo dove ogni cosa è come sospesa, dove è assente il dolore, assente ogni moto di gioia. Ma ciò non basta alla poetessa. Questa terra solo immaginata, questo limbo solo sognato, questa landa dal cielo autunnale, plumbeo deve essere illuminato dal candore di fiori mai visti e dal rosso delle peonie che si intrecciano come catene che cingano i polsi. Solo così, andando dietro a queste visioni, la nostra vita può trascorrere con una certa serenità. Solo così, sognando il sogno di un sogno. Ma la poetessa sa bene che al giorno seguirà la notte, necessariamente, e allora, come in lontananza, ferme, immobili nel buio del mare ecco stagliarsi lontane luci di lampare come ferme nel tempo che trascorre inesorabile spazzando via i ricordi che ci riportano alla vita e al giorno che si fa sera e alla sera alba di vita.

 

 

  1. DI UNA LIRICA DI NICOLA ROMANO

 

E nonostante tutto voleremo:

all'anima diremo corri ancora

fermati solo dove incontri pace

e passa oltre

quando il giorno muore

sfaglia le scene

e stronca ogni clangore

col silenzio

dei bimbi a nascondino

Dentro le rogge andremo per seguire

il rivoletto che diventa fiume

e scuoteremo faggi e saliceti

pur d'apparire

rigoglìo di vento

Andremo dove piangono i nevai

e dove l'alba indossa il suo chiarore

ma tosti torneremo alle dimore

come l'airone torna alla garzaia

 

COMMENTO DI VITTORIO RIERA

 

E, sì, caro Nicola, voleremo verso lidi incontaminati, selvaggi, puri dove la nostra anima, spezzettata, sbriciolata proverà a ritrovare la sua integrità in luoghi ancestrali, senza tempo, fuori da ogni tempo e dove sosterà per assaporare un po’ di pace, dove bagnarsi, di pace, inondarsi di pace, in luoghi dove il sole, c’è da sperare, non tramonta mai e il silenzio è interrotto soltanto dalle grida dei bambini quando giocano a nascondarello. Sì, caro Nicola, ci nasconderemo tra i canneti dei canali per guardare il luccichio dei ruscelli che scivolano sui sassi sfiorando faggi e salici che sembrano piangere per il vento che li scuote e lo sciacquio che dilegua. E, infine, caro Nicola, sosteremo sui monti colmi di neve dove l’alba stende le sue luci, i suoi chiarori puri primordiali, anche se torneremo, delusi, ai nostri affanni come aironi per cibare i loro piccoli.

 

CONTROCOMMENTO DI NICOLA ROMANO

 

È molto bello, gentilissimo Vittorio, che il mio dire sia arrivato alla sua raffinata sensibilità, sentendolo in tutto questo mio fratello nell’anima. Non importano i premi o le medagliette, quanto il potersi riconoscere fra uomini attraverso la sublime dignità d’una poesia. Con la mia vera cordialità.

 

 

 

  1. ALESSANDRA FINI

 

Così come le gazze

non nascono ladre cara

Ma attirate dalla luce

aprono il becco

a qualcosa di fugace e duro

Così spesso accade

che il desiderio

si appresti a qualcosa

Spalancato alla fame

E che la cosa siano sassi

e fumo

E un riflesso di arcobaleno

che tramonta

La delusione

questa umana crociata

in cui si perde

E la ferita

come uno stemma ossidato

in una finta chiesa

per una finta ragione

che non ha finestre

 

COMMENTO DI VITTORIO RIERA

 

No, no, alessandra fini, cento volte no. le gazze non sono mai state ladre. si contentano del luccichio di un pezzo di vetro disperso tra l’erba e che meravigliata, che delusione quando vanno per beccarlo e non lo trovano di loro gusto. quale amarezza per i loro piccoli rimasti digiuni. Oggi ben altre sono le gazze che con voci stridule tetre svolazzano da un capo all’altro dello spazio nel quale ognuno di noi vive e palpita. Le loro bocche insaziabili non conoscono confini, la loro voracità’ non arretra dinanzi al sacrificio di una vita umana che sacrificano impassibili crudeli indifferenti sull’altare del cosiddetto dio denaro. Questi sacerdoti al servizio di entità’ malefiche, pronti a passare sul cadavere delle loro madri pur di conseguire i loro scopi e di farsi belli con se stessi, non conoscono arcobaleni di pace, non sanno di tramonti profumati e di azzurre marine. Aridi nei loro cuori – seppure n’hanno uno che pulsa nei loro petti – pensano solo al ruolo nefasto con risate che suonano a offesa e scherno dell’umano sentire.

 

CONTROCOMMENTO DI ALESSANDRA FINI

 

Caro Vittorio, allarghi al sociale una mia ispirazione che era, come sempre, più legata al mondo delle emozioni di ognuno. Aggiungo che SIAMO TUTTI SCONVOLTI del fatto che in una società ci sia chi ormai rimesta e disgrega ogni umano decoro. E CI SONO valori sacri da portare e di cui ripetere testimonianza senza paura di risultare retorici. Qui s'ha da ricordare COSA VUOLE DIRE ESSERE (almeno) CIVILI.

 

 

  1. DI UNA LIRICA DI ANGELO ABBATE

 

Montagne di nubi oscurano il cielo

un'arcana foschia avvolge la sera.

Tra le pieghe della pelle

un freddo insolente si insinua

s'ode il crepitio della pioggia

che lentamente scivola, viscida

nel cuore di una notte di ghiaccio

che non ristora il sonno

e non assopisce le inquietudini

stagnanti tra le anse della perfidia

 

 

COMMENTO DI VITTORIO RIERA

 

Poesia come metafora quella di Angelo Abbate in questa lirica (“montagne di nubi oscurano il cielo”) cosi’ carica di inquietudine, di umore sopraffatto da un cupo pessimismo senza vie d’uscite. senza speranza. Il cielo sa di piombo, incombe indifferente sulle nostre angosce accrescendole con il gelo che penetra subdolo al crepitio della pioggia su foglie e tetti e alberi per poi scivolare come serpe che si insinui nei nostri petti nel freddo della notte. È a tutti negato il sonno ristoratore. troppo inquieti si è. Troppa la perfidia e l’insolenza che albergano in ciascuno di noi per potere dormire e sognare i colori che nessuno vedrà del Paradiso.

  1. DI UNA LIRICA DI EMILIO PAOLO TAORMINA

 

 

sei un essere marino

hai lasciato sulle mie labbra

sapore salmastro

sei passata sul mio petto

come le luci di una nave

che naviga di notte

segui la rotta

della stella polare

sul cuscino dove posavi

la testa c'è una stella

sei andata per i boschi

come una sonnambula

quando ti sveglierai

troverai sulla tua spalla

una piuma

è la mia

ti ho seguita passo passo

come un uccello notturno

tornerò a fare il giocoliere

dove scorrono le tue acque

non voglio che l'arco

delle tue ciglia armi la freccia

dove porterò questo

mio vecchio cuore

 

Lirica molto bella questa di Emilio Paolo Taormina che potremmo sintetizzare con un ‘del richiamare’ come le gazze vengono attratte dal luccichio di un vetro. È un richiamare continuo, un riecheggiare ininterrotto di sensazioni inarrestabili. Osserviamo il primo termine da cui ha inizio l’intuizione poetica, la scintilla che provoca e mette a nudo la sensibilità di Taormina: ‘marino’. L’aggettivo non può non richiamare il mare, da cui deriva, e il ‘sapore salmastro’ delle sue acque, e ‘una nave’ che avanza nel buio della notte ravvivata dal tremulo luccichio delle luci a guisa di pavese. E qui il poeta alza gli occhi al cielo in direzione della stella polare. È la sua bella che gli indica la rotta da seguire. E sembra quasi di vedere il poeta mentre guarda la sua bella, questo essere che sa di mare e di sale dormire il capo poggiato su un guanciale simile a una stella che indica la strada verso cui incamminarsi. Ma che cosa troverà al suo risveglio questo essere abbandonato sul suo petto? Un piuma, risponde il poeta. Ma le piume non si trovano nel mare. Ecco allora l’altra corrispondenza. La piuma richiama gli uccelli della notte e il folto dei boschi dove la sua bella s’aggira ‘come una sonnambula’ che il poeta segue da vicino, senza lasciarla un istante. Sa che senza di lei si smarrirebbe, perderebbe la rotta, e il cuore, che richiama il petto dei primi versi, ne uscirebbe rotto. Devastato.

 

  1. DI UNA LIRICA DI GAETANO CAPUANO

 

Quannu veru veru sacciu

ca veni a riscidirimi

na soru o un frati

amanti di matri lingua

a puisia

n’tall’anumu e dintra

u cori dâ putia

su’ vigilii di Pasqua

Natali, Capudannu

e Pifania

cà na sta campa aura

e maura

p’alliggiriri u sdisamuri

sucu u nettari dâ fratillanza.

 

COMMENTO DI VITTORIO RIERA

 

Eh, sì, caro poeta, tu che hai saputo elevare al rango di poesia il tuo umile mestiere di Mastro barbiere, soltanto tu puoi capire quale cuore pulsi dentro quella bottega dove i versi vengono scanditi e scolpiti in un’aura di festa che ti consentono di dimenticare per un attimo le angosce e di nutrirti di tutto ciò che sa di amore. A noi lettori non resta che immergerci nei tuoi versi che sanno di dolce pietra friabile.

 

CONTROCOMMENTO DEL POETA GAETANO CAPUANO

 

Vedo che hai centrato con la disamina il mero e semplice pensiero che è scaturito. Grazie.

 

 

  1. DI UNA LIRICA DI NINO CANGEMI

 

LE PREGHIERE DI UN AGNOSTICO

 

A che valgono le brevi preghiere

se non altro propizie (non sempre però)

alla tregua del buio

e le requie biascicate a una lista

da aggiornare nei ritagli di tempo?

A quel Dio che la ragione respinge

dai persino del tu,

per ipocrita abitudine o retaggio

d'infanzia svanita.

No, non valgono a nulla.

Eppure la donna tremava

d'agonia indomabile

e quando capì che era giunto

un prete da cuore di prete

ne invocò, agitando le mani

(non so come, esaurita ogni forza),

il soccorso. Dopo, i suoi occhi

già chiusi alla vita vagavano

curiosi e sereni inseguendo

chissà quali visioni.

Ne ascoltai l'ultimo respiro

 

Una lirica, quella di Nino Cangemi, quasi simmetricamente divisa in due parti (dieci versi la prima parte (“A che valgono…nulla”), (dieci versi la seconda (“Eppure…visioni”, se non consideriamo l’ultimo verso che possiamo considerare staccato dalle prime due parti, “Ne ascoltai l'ultimo respiro”, e come una partecipazione dell’Autore alle fasi sempre drammatiche del trapasso).

Caratterizzata da una domanda cruciale per ciascuno di noi – agnostici o credenti che si sia. “A che valgono le brevi preghiere”, si chiede e chiede il poeta nelle vesti di un agnostico indifferente ai grandi perché della vita. Un agnostico che per un attimo sembra giustificarle se non proprio accettarle (“se non proprio propizie”) quando esse hanno un riscontro positivo da parte di quell’entità cui le preghiere sono risolte. Ma è soltanto un attimo in cui l’agnostico cede alla sua fede verso l’Indifferenza, verso l’Impassibilità che sembrano caratterizzare il suo cuore di pietra. Perché subito dopo aggiunge, quasi a pentirsi del suo cedimento che ‘non è sempre vero’ che le preghiere vengono accolte da quel Dio cui sono rivolte e che anzi il ‘buio’, l’assenza di una luce divina, talvolta si infittisce crudelmente, senza un attimo di riposo, di tregua. Talché più che pregare si finisce col rimuginare meccanicamente parole incomprensibili. È la bocca che prega, non il cuore. Non l’anima. La risposta che il poeta dà a questi problemi è perentoria. “No, scrive il poeta, non valgono a nulla” le preghiere dette con cuore di pietra, né vale il fatto che per abitudine acquisita fin dall’infanzia o perché averle avute come da una eredità da proteggere e conservare. Dio non si lascia impietosire da chi, per abitudine, appunto, si rivolge a lui dandogli del ‘tu’ come a un amico.

Nettamente diversa la seconda parte. Sembra quasi che l’agnostico faccia marcia indietro. Non si è davanti a un pentimento, ma a una concessione, a una possibilità che le preghiere vengano accolte persino da un Dio sordo alle preghiere biascicate fra le labbra più o meno smunte.

Protagonista, una donna colta nell’agonia che precede la morte. Trema questa donna, nel corpo, nel cuore, nell’anima. Nell’ultimo brillio della sua coscienza, vede un prete stagliarsi dinanzi ai suoi occhi. Capisce che è giunto il momento fatale. E non importa se fare il prete è solo un mestiere. Ella tende a lui le mani come per aggrapparsi a un’ancora di salvezza. Sono gli ultimi spasmi, né sa, nota il poeta, dove quella donna trovi la forza. Ma sono le ultime forze. Poi è la fine, gli occhi a inseguire visioni e mondi che non sapremo mai.

 

CONTROCOMMENTO DI NINO CANGEMI

Ho letto, Vittorio. La tua lettura è interessantissima. Coglie ad esempio qualcosa che non è stato meditato ma che corrisponde a un attento esame del testo: la simmetrica divisione in due parti di dieci versi ciascuna (il verso di chiusura, hai ragione, si stacca dalla riflessione contraddistinta dalla contraddittorietà). Mi sorprendi sempre di più, Vittorio: la tua intelligenza, sensibilità, il patrimonio di conoscenze che porti con te. Spero che adesso che il virus sembra darci una tregua ci si possa incontrare. Oltretutto sono sicuro che tu sei stato un maestro di scuola elementare (quelli che BufaIino invocava come antidoto alla mafia) esemplare e avrai tante esperienze di didattica evoluta da raccontare. Il fatto che qualcuno, e quel qualcuno è una persona di grande ricchezza interiore, si sia preso la briga di analizzare un mio testo mi gratifica oltremodo. Un abbraccio.

 

 

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