“Un “camerata” in smoking. Quando James Bond era tabù” di Mario Bozzi Sentieri

Ora che Sean Connery non c’è più e con lui viene esaltato, nelle celebrazioni d’occasione, il suo James Bond, il migliore 007 della saga, vale la pena ricordare quando il personaggio, creato nel 1953 da Ian Fleming, era nel mirino dell’occhiuta intellighenzia di sinistra.

Un po’ come accade oggi, per le icone, da abbattere, della cultura occidentale (da Cristoforo Colombo a Baden Powell, il fondatore degli scouts) negli Anni Sessanta l’agente “con licenza d’uccidere” dovette subire  una vera e propria campagna di stampa. L’accusa ever green ? Di essere naturalmente un … fascista, incarnazione volgare del superuomo.

“Che cosa è 007 – scriveva nel 1965 un “Avanti !”, organo del Psi, dalle forti venature massimaliste – se non il simbolo, letterario prima e cinematografico poi, del mito della violenza come risolutrice dei conflitti; della teoria manichea dei ‘cattivi’ da polverizzare con ogni mezzo e dei buoni da far trionfare con ogni mezzo; della pratica del manganello che, aggiornata ai tempi, diviene del laser, del gas venefico, della spoletta atomica ?”

Rincarava la dose “l’Unità”, giornale del Pci, che, sempre a metà degli Anni Sessanta, titolava: “007: un ‘superuomo’ violento e legalitario”.

Che cosa non piaceva del personaggio creato da Fleming e consacrato dal grande schermo ? Intanto – parole de “l’Unità” – il fatto che “attinga la sua vitalità tutta sensuale alle radici più velenose della letteratura borghese contemporanea” (eravamo nel 1965 !), là dove aligna il culto del superomismo, della vita bella e spericolata. E poi naturalmente il suo estetismo borghese, con la sua brava dose di dandismo, di donne fatali, di alcool a gogò, di pupe e mitra.

James Bond un po’ “camerata” ? A giocare sulla lettura paradossale dell’agente 007, allora si cimentò, dalle pagine de “il Borghese”, Claudio Quarantotto (“Il camerata 007”, “il Borghese”, 21 gennaio 1965), che partendo dalle analisi dell’ “Avanti !” e dalle critiche di Antonello Trombadori, giornalista di punta del settimanale “Vie Nuove”, sul quale James Bond era bollato come il figlio della reazione e “l’eroe-amatore-difensore della civiltà occidentale”,  arrivò ad ipotizzare ironicamente – secondo la moda dell’epoca -  un qualche manifesto contro il personaggio di Fleming: “…con ansia attendiamo di poter leggere (o sentire) le dichiarazioni degli intellettuali, ‘impegnati’ a difendere il proletariato contro gli attacchi di tutti i fascisti, anche quelli cinematografici. E chissà che, alla fine, non si riesca anche a spiccare un mandato di cattura, contro il camerata 007 ‘con licenza di propaganda fascista’”.

A tanto non si arrivò. Ma fu necessario aspettare un quindicennio, gli anni dal 1965 al 1980, gli anni del tunnel sessantottino, per mettere, in Italia,  la sordina alle polemiche. Del resto, di uscita in uscita, i film targati 007 continuavano a piacere, ad attirare il pubblico e a fare cassetta. Piaceva soprattutto il mix tra saga guerresca, modernità tecnologica, esotismo, spionaggio e glamour, che dava ad ogni film ritmo ed aspettative sempre nuove. Ma era ed è ancora  soprattutto il personaggio a tenere la scena,  provocando le imbarazzate “chiose” della stampa militante.                             

Troppo dandy, elegante, sprezzante del pericolo, decisionista, amante delle belle donne, raffinato cultore del buon vivere, anticomunista,  per andare d’accordo con le visioni “progressiste” che, negli Anni Sessanta del ‘900,  vedevano in prima fila l’intellighenzia nazionale, occhieggiante verso Mosca e pronta a censurare moralisticamente tutti i modelli e le immagini non rispondenti allo stereotipo “di sinistra”: noiosamente “realistico”, conformista, un po’ bacchettone.                     

Per questo, mentre certi falsi miti sono inesorabilmente tramontati, l’agente in smoking, autentica icona postmoderna,  diverte ed affascina ancora le platee, ben oltre ogni scarto generazionale.

In fondo  lo “sdoganamento” di James Bond, confermato dai “coccodrilli” pubblicati in occasione della scomparsa di Sean Connery, è l’ennesimo segno dei tempi. A cambiare non è lui, ma i figli culturali dei suoi detrattori di un tempo,  costretti all’ennesimo  “recupero” per  non perdere il “contatto con le masse” e con le mode.

 

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