“Ricordo di Emilio Betti nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa” di Roberto Russano

 
Emilio Betti (1890-1968) può essere annoverato, senza dubbio, tra i più grandi giuristi del ‘900. Un giurista sui generis non solo capace di spaziare con le sue ricerche in molteplici branche del diritto, come testimoniano le numerose pubblicazioni dedicate da Betti agli studi romanistici, civilistici e di procedura civile ma, nello stesso tempo, dotato di una vastissima cultura umanistica caratterizzata da profondi interessi storici e filosofici, un aspetto che emerge con immediatezza sia dalla lettura delle sue opere, sia da uno sguardo complessivo alla cospicua bibliografia bettiana.
Non ci si deve, dunque, meravigliare se la sua fama di studioso rimanga affidata, soprattutto, ad un testo di carattere non giuridico quale La teoria generale dell’interpretazione pubblicato in due volumi nel 1955 e riscritto in tedesco dallo stesso Betti nel 1967 con il titolo di Allgemeine Auslegunslehre als Methodik des Geisteswissenschaften (Teoria generale dell’interpretazione come metodica delle scienze dello spirito).
Quest’opera costituisce un monumentale trattato di ermeneutica, la disciplina alla quale il Maestro camerte dedicò, con intensità e passione, l’ultima parte della sua esistenza scrivendo importanti monografie come quelle appena citate oltre a numerosi saggi ed articoli e creando all’interno dell’Università di Roma, dove insegnerà a partire dal 1948, un Istituto dedicato specificamente allo studio della teoria dell’interpretazione.
Nel corso dei suoi lavori di ermeneutica Betti ebbe modo di confrontarsi criticamente in più occasioni con altri grandi studiosi di questa materia del calibro di Hans Georg Gadamer e Rudolf Bultmann, grazie anche ad una perfetta padronanza della lingua tedesca, e questo ha contribuito a conferire al suo pensiero la risonanza internazionale che ancora oggi lo accompagna.
L’intera produzione bettiana, la sua stessa esistenza e le scelte che la caratterizzarono, trovano, a mio avviso, la più autorevole e comprensiva chiave di lettura nella costante tensione etica che le attraversa, la cui cifra distintiva è rappresentata dalla critica del soggettivismo atomistico, cioè dell’elemento speculativo che ha caratterizzato il pensiero moderno da Cartesio ai nostri giorni, e delle conseguenze negative da esso derivate nel campo giuridico, filosofico, sociale e politico, conseguenze stigmatizzate da Betti nel corso di tutta la sua opera: così, ad esempio, quando sottopone ad un’approfondita confutazione  le teorie liberali del diritto fondate sul cd. “dogma della volontà”; o quando contrappone all’indirizzo ermeneutico seguito da Gadamer e Bultmann, secondo il quale l’interpretazione rappresenta una soggettiva “attribuzione di significato” (in tedesco Sinngebung), la sua visione del processo interpretativo tesa a garantire “per quanto è possibile, l’oggettività veritativa dell’interpretazione” (Gaspare Mura) attraverso un’adeguata metodologia in grado di evitare il pericolo che l’interprete sopprima l’autonomia ermeneutica dell’oggetto da interpretare attribuendo  surrettiziamente ad esso un significato anziché ricavarlo; oppure quando prendendo in esame il Trattato di Versailles ne denuncia, con lungimiranza, la natura di vero e proprio diktat imposto dalle potenze vincitrici a quelle sconfitte che invece di porre le condizioni per una pace giusta e duratura riaffermava, ancora una volta, camuffata da proclami democratici e umanitari, la tristemente nota “legge di Brenno”.
La chiave di lettura del pensiero bettiano che si è appena offerta consente, secondo la mia opinione, di comprendere le ragioni profonde che portarono il giurista marchigiano ad aderire al fascismo, forma politica attraverso la quale egli ritenne di poter vedere realizzata la sua aspirazione alla giustizia sociale all’interno di un ordinato e coeso stato nazionale. Si trattò di un’adesione non supina, quale ci si poteva aspettare da uno spirito libero e schietto, ma convinta e mai sconfessata nemmeno durante la repubblica di Salò quando, mentre le sorti della guerra apparivano ormai segnate, Betti scrisse alcuni coraggiosi articoli  per il Corriere della Sera e per altri giornali minori nei quali metteva in guardia i lettori e gl’italiani sia dagli equivoci della propaganda bellica anglosassone, fondata su una malintesa e distorta  concezione della “libertà”, sia dai rischi che l’affermarsi di questa visione atomistica - in realtà finalizzata, a suo giudizio, ai disegni imperiali delle potenze alleate -  avrebbe comportato, nel caso di una loro vittoria, per i destini dell’Italia e dell’Europa.
Questi articoli furono determinanti perché Betti, una volta conclusosi il conflitto, venisse sottoposto ad un procedimento dinanzi alla Commissione per l’epurazione al termine del quale l’insigne studioso – dopo essere stato sospeso dall’insegnamento per ordine ministeriale il 1 agosto 1945 - fu prosciolto dalle accuse di apologia di fascismo e di collaborazionismo con la repubblica di Salò che gli erano state contestate in quella sede. Riletti nell’attuale temperie gli articoli bettiani rivelano una profetica lucidità di analisi e, con i dovuti cambiamenti, mantengono una sostanziale attualità per chi analizzi la situazione politica interna ed internazionale senza un preconcetto spirito di parte.
L’ animo di Betti non fu, tuttavia, minimamente fiaccato da queste vicende e anche nel dopoguerra egli rimase coerente alle idee che aveva in più occasioni manifestato sin dall’epoca del Trattato di Versailles e della nascita della Lega delle Nazioni continuando ad opporsi con il suo acume intellettuale attraverso altri penetranti scritti alle mire imperiali della politica estera angloamericana e al diffondersi dell’american way of life che ne rappresentava lo strumento di penetrazione più subdolo  e pericoloso all’interno delle società europee.
In questa ottica devono essere inquadrate la  collaborazione avviata nel 1946 con  La Rivolta Ideale, periodico del neonato Movimento Sociale, e la sua presenza insieme ad altri illustri intellettuali -  come Alberto Asquini, Pietro De Francisci, Giorgio Del Vecchio, Marino Gentile, Carmelo Ottaviano, Vittorio Vettori, Dino Grammatico -  nel comitato scientifico dell’Istituto Nazionale di Studi Politici ed Economici (INSPE) fondato a Roma nel 1958 da un gruppo d’intellettuali vicini agl’ambienti della destra missina.
La fortuna in Italia dell’opera bettiana è stata fortemente condizionata dalle scelte ideologiche e politiche di Betti. Le élites egemoni nella cultura italiana del dopoguerra non potevano certo guardare favorevolmente ad un intellettuale compromesso col fascismo che continuava ad esprimere, anche dopo la sua caduta, idee “inattuali” criticando il pensiero illuminista e liberale per le ragioni delle quali si è parlato in questa sede e che mostrava nei suoi lavori di apprezzare l’opera di autori messi all’indice come, ad esempio, Julius Evola. Lo stesso Betti avvertendo questo clima ostile dichiarava, amareggiato, di “sentirsi straniero in patria”.
Maggiore attenzione la sua opera ermeneutica ha ricevuto in altri paesi come la Germania (anche grazie al suo rapporto con Gadamer), nei paesi di lingua spagnola e portoghese e, perfino, nel mondo anglosassone: in tutti questi paesi la Teoria generale dell’Interpretazione è stata tradotta e Betti studiato come uno dei maestri del pensiero ermeneutico del ‘900.
A conferma della complessiva disattenzione della cultura italiana per il pensiero di Betti basterà osservare che, dopo la ristampa ampliata meritoriamente pubblicata nel 1990 grazie alle cure di Giuliano Crifò e Vittorio Frosini in occasione del centenario della nascita del Maestro e rapidamente esauritasi, il capolavoro bettiano è attualmente acquistabile solo nei remainders o nelle librerie d’occasione a costi elevatissimi.
Naturalmente chi scrive auspica che questa lacuna sia presto colmata e saluta con soddisfazione l’attività dell’Istituto di Scienza e Teoria del Diritto nella storia e nella società intitolato a Emilio Betti, costituito nel 1995 presso l’Università di Teramo da un gruppo di docenti e che quest’anno ha programmato una serie d’iniziative per ricordare l’insigne studioso nel cinquantenario della scomparsa.
La morte di una persona assume, talvolta, per le circostanze temporali nelle quali avviene, delle connotazioni simboliche ed evocative: Betti morì a Camorciano nei pressi di Camerino l’11 agosto del 1968, alcune settimane dopo gli eventi del maggio francese. Il ’68, nella sua fenomenologia e nei suoi esiti, ha rappresentato la ribellione anarchica e libertaria di una parte cospicua della giovane borghesia europea verso tutto quel cosmo valoriale nel quale Betti aveva fermamente creduto e per il quale si era speso nell’intero arco del suo insegnamento e della sua esistenza. Tra i valori che vennero messi in discussione in quegl’anni ad essere maggiormente contestato fu il senso della continuità intergenerazionale che ben si esprime nel concetto di “tradizione” ed al quale Betti ha dedicato le suggestive pagine finali della “Teoria generale dell’interpretazione” che oggi, dinanzi alle lacerazioni e ai malesseri frutto in tutto o in parte di quella lontana stagione, ci comunicano la nobile grandezza dell’animo bettiano e ci spronano a seguirlo nella strada da lui indicata con la dottrina e l’ esempio.
 
BIBLIOGRAFIA
Betti, Teoria Generale dell’Interpretazione, I-II, Edizione corretta e ampliata cura di Giuliano Crifò, Milano, Giuffrè, 1990
Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, a cura di Gaspare Mura, Roma, Città Nuova, 1987
Betti, Notazioni Autobiografiche, a cura di Eloisa Mura, Padova, Cedam, 2014
Betti, Scritti di storia e politica internazionale, a cura di Lucia Fanizza, Firenze, Le Lettere, 2008
 
 
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