Lucia Lo Bianco, Sono occhi scomparsi dentro il buio (Kanaga ed.) - di Giuseppe Bagnasco
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- Category: Scritture
- Creato: 06 Settembre 2023
- Scritto da Redazione Culturelite
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Dopo “Sono una barca” edita nel ’21, questo è il secondo volume che porta un titolo personalizzato per l’uso della prima persona singolare: sono. Gli occhi di Sono occhi scomparsi dentro il buio non sono pertanto occhi in genere ma sono quelli di Lucia Lo Bianco che dal suo particolare osservatorio di educatrice-docente, non soltanto guardano ma soprattutto vedono. Le poesie che rendono il volume non sono molte, appena 51, ma bastano per dare un quadro completo della realtà contemporanea, non disdegnando l’Autrice di allungare uno sguardo anche al passato. Infatti, nel suo canto, oltre alle donne afgane, a quelle di Kabul e a tutte le donne vittime di ogni tipo di violenza, c’è posto pure per i “carusi” delle zolfatare che furono già ben storicizzati in campo letterario da Giovanni Verga nella novella “Rosso Malpelo”. E la Nostra, nel dipingere il suo quadro, lo fa come è suo costume, sostituendosi alle loro condizioni di vita immedesimandosi sia nelle loro sofferenze che nei loro sogni, nelle loro speranze.
Tuttavia il progetto letterario, pur richiamandosi a questi soggetti, non risulta tematico. Non è un quadro di sofferenze fine a se stesse, come sembrerebbe, ma serve un altro traguardo e cioè la messa a nudo nella fattispecie della levatura socio-psicologica dell’Autrice. E in fondo le liriche per chi legge non servono per scoprire i pensieri reconditi di chi li scrive?. Così a cominciare dalla prima “confessione” Lucia ( ci sia permesso di chiamarla col solo nome. come si fa con i “Grandi”) con fare schietto, così si presenta al lettore: sono una donna/ in viaggio/ verso un mare/ immaginato/ oltre orizzonti/ in fondo al tempo. Potremmo fermarci qui e sottotitolare il volume “Una donna in viaggio”, ma sarebbe oltre modo riduttivo per non dire irriverente leggervi un banale viaggio di escursionismo vacanziero perché quello di Lucia è sì un viaggio ma non alla scoperta di luoghi da visitare ma per indagare, “vedere” ed eventualmente denunciare sulle condizioni a volte estreme di vita o sulle tradizioni laddove restrittive o sui costumi dei popoli. Si tratta in fondo di una ricerca, se non della felicità come auspicata dalla Costituzione americana, quanto della agognata e semplice vita. E Lucia la cerca per loro per realizzarla in quel sogno o in quel futuro che vede oltre quell’orizzonte messo lì quasi a sfida. Ed eccola ancora, in un momento di sospensione dalla razionalità, a gettare lo scandaglio e affermare : io sono nata tra le stelle e il sole/ lungo un sentiero nascosto tra le foglie/ rami intricati bloccavano la via/ e solo il vento parla con la luna. Qui non c’è solo il sogno per potersi ergere al di sopra del contingente, ma connaturato ad esso c’è il bisogno di non allontanarsene. Una necessità quindi per l’uomo di non staccarsi dalle sue radici ma con una propensione a farlo. Il tutto sotto il manto del mistero. Un mistero noto solo a chi lo ha disegnato e a noi il compito di indagare per quanto ci è possibile, per scoprire il mistero della vita e dei rami intricati che ne blocchino e a volte ne condizionano il percorso. E in fondo, a parte quello che ci dice la biblica Genesi, dalla scienza ancora non sappiamo se siamo figli delle stelle oppure esseri (non ancora uomini) che si sono evoluti in milioni e milioni di anni dopo che ebbe termine l’Era Mesozoica. Ma di sicuro, restando anche noi sospesi, rimaniamo speculari al cerchio geometrico giacché questo non si sa da dove inizia e non si sa dove finisce. E da questo delirio, da questa incertezza, da questa sospensione, non si salva nemmeno la Nostra quando afferma:così rimango tra terra e cielo/… e mi ritrovo sopra verso il cielo/come crisalide dal tempo trasformata. Una crisalide, leggiamo noi, trasformata in farfalla. Un termine che la poetessa usa ben nove volte nelle sue liriche, un essere (o uno spirito) che si eleva al di sopra della terra e che è in contrapposizione alla parola “abisso” che la stessa adopera per ben undici volte a indicare in quel “giù”, quel profondo sia esso fisico che dell’animo. Sono questi i due “luoghi” che dettano il perimetro della sua poetica: la farfalla-volo come sogno, l’abisso come cruda realtà, come buio. Una dualità da cui la Poetessa non ne viene a capo restando sospesa a mezz’aria. Impotenza? Affatto, perché restano gli occhi che vedono, che scrutano, che indagano, che soffrono. Dopo tutto ciò, possiamo affermare che questa raccolta dà asilo ad un emporio di pessimistiche visioni?. No per quel che ci riguarda e, anche se restiamo anche noi in sospeso, siamo comunque certi che non c’è nella raccolta quel pessimismo inteso in senso letterale o totalizzante, ma un sagace e vero studio sulla realtà, una ricerca antropologica e psicoanalitica. Quindi non ci troviamo di fronte ad uno pseudo album di situazioni di disagio al femminile, che vanno dal dramma delle migranti con i sogni nascosti dietro l’ineffabile burka, fino allo stupro assassino. E allora la domanda che la poetessa sottintende è: c’è un modo per oltrepassare questo “limes”, questa frontiera spostata da una apostasìa cinica e velata? Si, e la poetessa lo fa, nell’immaginarne il futuro: saranno storie e racconti di bellezze/ saranno fiori cresciuti nel deserto/saranno mille arcobaleni di colori/ a pennellare una rinascita nel vento. Una colorita immaginazione che però la Stessa, fedele alla sua collocazione di sospensione, conclude con una amara considerazione giacché condanna tutti questi desideri, questi propositi, ad essere consegnati al vento, cioè ad essere volatili ed evanescenti. Ma la speranza anche se “ultima dea”, non vi muore dentro poiché l’ultima parola che chiude la raccolta è “Resurrezione” e che sebbene lontana da questo contesto, trattando della Pasqua, pur tuttavia bene si presta a metafora.
Recentemente il nuovo Ministro Vaticano alla Cultura (Cardinale Josè Tolentino de Mendonsa), ha affermato che la poesia avvicina a Dio. Certo una affermazione “dovuta” e quasi istituzionale per un alto prelato della Chiesa prestato alla cultura. Una spiritualità che è presente nella poesia di Lucia Lo Bianco e che, sebbene di matrice laica, scaturisce comunque dai più elementari insegnamenti evangelici quale, in primis, l’amore per il prossimo. E dello spirito della poesia ne tenta la sorgente:…saranno le idee nate per caso/ ad occhi chiusi la sera all’imbrunire/ sarà magia…creatura inesistente/ a dare bellezza alle notti senza luna. E cos’è che si annida in questi versi se non la vera poesia? Una poesia che, senza ombra di dubbio, possiamo definire eclettica, senza limiti e libera. Libera come la Nostra il cui confine è limitato solo dalla fucina delle sue ispirazioni. Un fuoco che lei stessa non riesce a domare giacché si pone, lo ripetiamo, tra terra e cielo e che alimenta con un saliscendi senza sosta e senza fermarsi in nessuno dei due: rinascerò dal basso/ risalirò le assi del tempo/ per toccare il cielo/ … prima di precipitare / …negli antri scoloriti/ dell’abisso. E’ quell’abisso, rievocato tante volte nelle liriche, dove accanto al verbo rinascere dallo sconforto, c’è comunque una speranza anche se apocalittica : forse un diluvio (potrà essere) salvezza dall’abisso. Certo una speranza per un animo ribelle, come Lei si definisce, che non si arrende e che ci consegna queste parole: scriveremo di un tempo maledetto/ racconteremo di sogni e di speranze/ ….nascerà nuova brezza a primavera/ e linee nere di rondini torneranno. E’ la speranza del rinascere reiterata in quel nascerà. Fin qui la nostra “lettura”. Certo non abbiamo esplorato gli angoli più riposti di ogni lirica essendo stato questo compito già assolto dall’eminente Prefatrice. Ma un quadro anche se appena accennato, ci pone una domanda:“Chi è” Lucia Lo Bianco e quale è il suo indagare?. La risposta, ancora una volta, nei versi: “sono Ulisse, come lui vago raminga/ tra le genti e il mare è la mia casa/… mentre osservo un orizzonte/ irraggiungibile”. Certo l’orizzonte dell’Itacese era la sua patria mentre per la Nostra è il sapere, la conoscenza e la consapevolezza di lottare per ciò in cui crede. Adesso che abbiamo “letto” i testi e scavato tra la spuma dell’onda e gli abissi, siamo sicuri e disponibili per poter trarre le nostre conclusioni.
Prima però di addentrarci in così arduo compito vogliamo chiarire un punto che potrebbe comportare per noi un rilievo: Le parole estrapolate dalle liriche e usate a corredo delle nostre considerazioni, non fanno riferimento ai titoli delle relative poesie poiché, essendo emblematiche ai fini del pensiero della Poetessa, risultano solamente pleonastiche. Cominciamo allora, come è nel nostro costume, dalla copertina. L’artista Ornella De Rosa dipinge un’immagine che possiamo definire omeopatica con il contenuto del volume giacché la intitola “Luci ed ombre”. Proprio quello che nelle nostre note abbiamo “letto”. Si nota il viso di una donna i cui tratti somatici affermano o meglio ne annunciano la provenienza. Un viso dolce e incantato incorniciato da ciuffi cadenti (un dettato della moda) e dove occhi aperti alla meraviglia ne tradiscono l’attesa. Una attesa che noi scorgiamo in quelle luci e ombre che la connotano. Il tutto conferisce all’immagine del volto un candore e una purezza che la rendono quell’icona che vorremmo fosse esempio ai giovani di un certo Occidente. E poi il titolo: Sono occhi scomparsi dentro il buio. Un titolo anch’esso in sintonia con molte delle liriche e che ne costituiscono la tematica di fondo: la dualità tra cielo e terra, tra un velo assassino e una speranza, tra occhi-luce e buio. Un buio che si riflette dentro, un buio che cerca e tenta di districarsi verso la luce e che comunque raggiunge per poi precipitare verso l’ennesimo abisso.
Lucia Lo Bianco scrive e descrive tutto ciò che “vede” con quella accuratezza che solo nell’alta sensibilità dei poeti regna e domina. E in Lei c’è uno spirito che non guarda immagini e scene,ma “vede” riuscendo a carpire ciò che si nasconde, dipingendo parole ornate di aggettivi, così penetranti da evolversi in sintesi. Dare profondità alla parola, scelta non a caso, è degna di una provetta scrittrice ma aggiungervi un così ben determinato afflato è ciò che distingue la prosa dalla poesia. Lucia Lo Bianco ci riesce grazie alla duttilità del suo pensiero ed è per questo che tra luci ed ombre s’impone la luce del suo poetare, dei suoi limpidi versi, che nulla nascondono e anzi danno ai suoi personaggi una realtà dominante e reale.
Lucia Lo Bianco non si serve di molte metafore per arricchire i suoi versi. Non ne ha bisogno perché quello che deve dire non solo lo dice chiaramente ma lo fa in prima persona. Così che in una lirica dà voce ad una donna afgana quale voce urlata nel deserto, in un’altra ad un bambino che cerca vesti per cancellare il marchio dello zolfo, in un’altra ad una bambina che sogna aquiloni sopra i tetti e ancora ad una donna che subisce violenza come amore offeso dentro a un bosco. E qui come non ricordare la Beatrice del suo romanzo Dove gli angeli camminano di notte?. Ma Lucia nella sua molteplice veste è anche donna-figlia, donna-sposa, donna-madre e infine donna che si dona al sociale tanto che nel suo panorama sentimentale-affettivo non mancano riferimenti oltre che alla sua famiglia anche ai malati di covid o al richiamo dei diritti delle donne o infine a luoghi di buio disumano come Auschwitz, Kabul, Lilice, Gaza. Ma in tutte le liriche che li richiamano non c’è spirito di rivalsa, rancore per future vendette ma l’anima di un sogno che nella speranza si configura come attesa. Ecco perché Lucia sta sospesa a mezz’aria tra terra e cielo, nelle evidenti condizioni di una attesa. Un’attesa che in primis ha i suoi fondamentali in certi tratti autobiografici che ci riconducono a sue precedenti pubblicazioni e di cui non fa mistero. E’ da questi tratti che riceve la forza propugnatrice che la ispira? Si, ma come misura di supporto poiché il più è dentro di lei, nei suoi principi, nei suoi convincimenti ed è da questi che trae quel respiro cosmico che la pervade. E sono sentimenti non distanti da quelli che proviamo tutti noi fatti di pietà, di comprensione, di condanna. Ma noi non siamo poeti e non riusciamo ad andare oltre le semplici parole. Lucia ci riesce perché si avvale da quel respiro che sgorga dal suo profondo. E’ l’unica a poter “vedere” oltre quel fatidico orizzonte, un “limes” che noi comuni mortali riusciamo appena a guardare. Proprio quell’orizzonte posto laggiù, dove lei si spinge e che esplora portandosi ora sulla spuma del mare, ora nel profondo degli abissi per poi ancora riemergere in una continua altalena che traduciamo come metafora della vita dove gioie e sofferenze si alternano come un minuetto musicale. E questo instancabile andirivieni, che Lei compie, non è forse la ricerca della vita? Certo. Ma per una vita, anche un gomitolo, che si vesta di dignità, di luce e non di buio. Ecco, sono queste le conclusioni ( e le speranze) che abbiamo “letto” lungo il sentiero tracciato dalle liriche e posto tra le stelle e il sole, anche se rami secchi blocca(va)no la via/ e solo il vento parla(va) con la luna. Realtà e sogno, quindi, mare e cielo: sono queste le linee nere di rondini della sua poesia che torneranno da oltre quel “limes”dove sono andate per vedere e (tentare di) diventare materia dentro un sogno.
Casteldaccia, oggi
nel 31mo anniversario della morte di Giovanni Falcone