La Pasqua e la rigenerazione cosmica della vita - di Antonino Sala

Il tempo dell’uomo è scandito dagli eventi che si susseguono, sempre diversi sempre uguali. È un continuo scorrere, una realtà che si modifica, nascendo, morendo e risorgendo. Quando la vita era legata alla terra, alla sua fertilità e ai suoi cicli, anche il calendario e le festività lo erano. Anzi, esse divenivano i momenti in cui era assolutamente necessario propiziarsi le divinità, venerandole offrendo doni e primizie nella speranza di avere la loro benevolenza in maniera tale che la terra producesse ricchezze in abbondanza. Quasi tutte le ricorrenze religiose erano legate a questi aspetti propiziatori e ancora oggi per certi versi lo sono. L’uomo “moderno” però ha dimenticato l’antico simbolismo naturalistico. Non sa più leggerne i segni, non ne coglie più i nessi, è un cieco che vaga in un bosco inconsapevolmente. Nelle società legate ai tempi della natura alcuni giorni diventano sinonimo di festa, come quelli di inizio primavera e di rigenerazione della vita. Il termine “festa” trae la sua etimologia dal dies festus, il giorno in cui si banchettava in allegria nella propria dimora con amici e familiari.

A sua volta trova rispondenza in quello greco Ἑστία, la divinità del focolare domestico, foneticamente assimilabile a quello sanscrito “vastya” che significava proprio focolare. Il dies festus, divenne ben presto sacro, tanto che se si trattavano affari di qualsiasi genere si correva il rischio di essere tacciati di empietà: un’accusa gravissima in una comunità mistico tribale. In una società così permeata di simbolismo magico iniziatico, l’ordine naturale e immanente rispondeva a quello divino e trascendente, sia nella classicità che poi nella successiva cristianità. E infatti le festività, che già prima del Cristianesimo venivano celebrate, furono assorbite, modificate, e rese compatibili con il nuovo messaggio religioso. Nell’antica Roma fra il 15 e il 28 marzo si svolgevano un ciclo di ferie dedicate al dio Attis, servitore della dea Cibelela Grande Madre Idea (la forza creatrice e distruttrice della natura), con rituali particolari, come quello del “Sanguem” (o Dies Sanguinis), nel quale i partecipanti si laceravano la pelle, con cocci, pugnali o spade, per spargere sull’albero sacro (un pino) il loro sangue, in ricordo di quello versato dal dio e trasformato in viole.

Attis era per gli antichi romani la trasposizione del ciclo vegetativo delle stagioni e con la sua morte e la sua resurrezione simboleggiava, come nella interpretazione catulliana del mito, nel Liber Catullianus, la prosperità che sarebbe giunta con l’avvento della primavera. Secondo lo storico ed etnografo Antonio Basili, il rito del sangue di Attis, sopravvive ancora oggi associato alla settimana santa e infatti si possono individuare tracce di quell’antico rituale a Nocera Terinese, un paese della provincia di Catanzaro, in Calabria. Infatti lì i Vattienti (autoflagellatori) si infliggono con un “cardo”, uno pezzo di sughero con tredici pezzi di vetro incastonati, percorse alle cosce e alle gambe. Afferma Basili: “Non è meraviglia che sopravviva ancora in un vecchio paese della Calabria il rito antichissimo del sangue: per la morte e la resurrezione di Attis esso rimane in Nocera Terinese, ma adattato alla commemorazione della morte e della resurrezione del Cristo, come sopravvivenza o meglio reviviscenza”. Probabilmente l’accomodamento di pratiche antiche ha dato vita a nuove simbologie anche nella denominazione, così come ci dice lo studioso Arnolfo Lentini in merito al termine “Pasqua” che ritiene generato per la sincrasi della “Passio Quirini” (il mito della morte e risurrezione del dio Quirino che molti identificano con il primo Re di Roma Romolo, fondatore di civiltà come Gesù Cristo).

Poi il Concilio di Nicea nel 325 d.C. sancì che la Pasqua ricadesse nella prima domenica dopo la prima luna piena della primavera (il 21 marzo) tenendo conto del calendario lunare precristiano. Tutto era collegato ai cicli della terra, necessario per la sopravvivenza del popolo, perché in base a essi si seminava per poi raccogliere. Modi di intendere la vita che, come scrive l’etno-antropologo Ignazio Buttitta, in Le Feste dell’alloro in Sicilia: “Appaiono come deboli tracce di una religiosità siciliana arcaica, profondamente legata a una economia in gran parte di tipo agrario e pastorale, che, nel lento mutamento delle tecniche produttive e delle specie coltivate, si manterrà per secoli fonte unica di sostentamento per larghissima parte degli abitanti dell’Isola, inscindibile dai culti e dai riti legati alla natura e al suo rigenerarsi. L’universo religioso di qualsivoglia società, e più in generale il suo sistema simbolico, è connesso, infatti, più di quanto di solito si è portati a pensare, ai modi della produzione. Una presenza così rilevante e significativa di feste connesse ai cicli vegetali si comprende meglio, pertanto, quando si rifletta sulla realtà economica che ha caratterizzato per così lungo tempo la società che questi riti celebra”.

La presenza poi di alcuni elementi durante i riti di passaggio e di vivificazione della terra, testimonia come l’uomo per millenni ha pensato se stesso in connessione mistica con la natura, senza mai scadere come troppo spesso i contemporanei fanno, in un “eco-cretinismo” ideologico che poco capisce e che tanto vuole condizionare. Gli elementi naturalistici, che a vario modo sono presenti nelle celebrazioni pasquali ancora oggi risultano indicatori di questo legame profondo tra individui e paesaggio, come l’acqua, le piante e gli alberi, tanto che spesso sono collegati alla fondazione di molti santuari. Le culture contadine hanno elaborato nei secoli una religione cosmica, basata sul mistero profondo del periodico rinnovamento della vita attorno all’asse del mondo e del tempo, l’Axis Mundi, simboleggiato nei riti da un albero. E i ritmi ancestrali sono stati intesi in perfetta unità tra uomo, Dio e cosmo. Le innumerevoli tradizioni pasquali ci riportano così all’antica religiosità, che purtroppo non viene più colta dai contemporanei perché è cambiato, forse in maniera irreversibile, il sistema produttivo non più legato all’agricoltura. Rimane, comunque, quell’aura di spiritualità magica che riemerge nei gesti, nei canti e nei riti collettivi tanto che accedere al mondo agreste diviene un atto trascendente, mistico e al contempo tragico.

Condivisibile l’affermazione di Carlo Levi che “nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia” e di spiritualità festosa. E così non mancano proprio a Pasqua i festeggiamenti in cui i simboli riemergono potentemente in cui si esprime la virilità gioiosa dei giovani come le corse rituali delle “vare” dei Santi per le vie dei centri storici, adornate da archi di fiori, palme, alloro e rami di agrumi, da cui si sprigiona l’inebriante profumo della primavera, esempi tipici sono quelle di San Vito e San Luca a Burgio, di San Michele e San Giovanni Battista a Villafranca Sicula, a Calamonaci a Lucca Sicula e in altri luoghi. In quella solennità si chiude il ciclo invernale del sonno e si apre quello della gioia e del risveglio. Per gli Ebrei nella Pasqua, la “Pesach”, celebravano la liberazione dalla schiavitù egiziana e per questo essa rappresenta la loro rinascita alla libertà, alla vita e alla storia. Per i cristiani essa è invece la liberazione dal peccato e dalla morte spirituale che Cristo ha vinto con la sua risurrezione, che viene festeggiata con azioni rituali primordiali che oggi si continuano a compiere anche senza una lucida cognizione.

Scrive Tommaso Romano in In natura symbolum et rosa: “Viviamo in foreste di simboli, anche senza prenderne, troppo spesso, consapevolezza. La conoscenza, anche di uno o pochi simboli, purché non sia episodica, superficiale e supponente, declina verso una ricerca di perfezionamento…il ricorso alla visione ciclica e non lineare, a partire dalla teoresi di Giambattista Vico e, molto prima, il ricorso al mito e al poema, che hanno come permeato l’origine e lo svolgimento delle civiltà attraverso segni, architetture, coltivazioni e modificazione non artificiale dei paesaggi originari, costumanze, sacralità tradizionalpopolari, religiose ed esoteriche, possano farci partecipi di una visione totale, integrale che, a mio avviso, è espressione primariamente della volontà di un Creatore, di un Disegno intelligente (come piace a qualcuno dire), non il frutto di un caso, che nessuna scienza ha, oggettivamente, saputo dimostrare in quanto tale”. L’universalità di simboli come la croce risulta evidente, tanto che Romano afferma poco dopo “non è solo un simbolo cristiano, essa è dovunque, dice Ries, nella civiltà pre-vedica, nel mondo ellenistico e nell’iconografia mesopotamica, nella vasta area delle migrazioni indoeuropee e nelle culture alle quali esse diedero origine, in Cina, nelle civiltà precolombiane e degli indiani d’America, tra le popolazioni illetterate contemporanee”.

Tale universalità mostra che stiamo trattando un fenomeno fondamentale nella vita dell’Homo religiosus, la cui spiegazione necessita di una riflessione su diversi livelli: il simbolismo dell’albero come Axis mundi; la necessità dell’uomo di orientarsi nel tentativo di trasformare il caos nel cosmo; i simboli del numero quattro e del centro; le diverse immagini cruciformi che appaiono all’uomo nelle sue attività quotidiane. La croce mostra che l’Homo religiosus è anche Homo symbolicus”. Giunti a questo punto varrebbe la pena di interrogarsi su cosa sia la religione e quale valore attribuirle. Difficile darne una definizione completa, che non sia banale o anche peggio che la inquadri solo nell’insieme di riti e ritualità, utili per vivere ma non sufficienti per spiegare la realtà. La questione, allora, rimane irrisolta ma aperta alla sapienza personale, sia per l’uomo che cerca l’infinito sia per quello che di esso ha paura, perché tutti e due anelano una risposta che nemmeno la scienza, declinata in tutte le sue forme, può dare.

Risulta pertanto illuminante Marco Tullio Cicerone quando nel De natura deorum afferma che poiché la radice etimologica di “religione” sta nel verbo latino relegere, nel senso di “ripercorrere” o “rileggere” essa non è altro che la lettura intelligente delle forme immanenti alla luce del sacro e del mistero che ci circonda. Gerardus van der Leeuw sosteneva che l’Homo religiosus accorto e sensibile è l’opposto “dell’Homo negligens ottuso e smemorato non solo verso Dio, ma anche verso il cosmo di cui egli stesso è parte e di cui non coglie il potente, perpetuo atto creativo. E di fronte al dilemma dell’esistenza dell’Onnipotente forse la scommessa di Blaise Pascal è una adeguata risposta ai dubbi e all’incertezza che ci attanaglia perché, “quando si è obbligati a giocare, scrive il filosofo, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla”.

(*) Nella foto è ritratto Robert Prowell, nei panni di Cristo, in Gesù di Nazareth, la celebre miniserie televisiva anglo-italiana del 1977 diretta da Franco Zeffirelli.

 

da: www.opinione.it, 6/04/2023

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.