“Vogliamo mettere finalmente in discussione la “gloriosa memoria” del comunismo?” di Domenico Bonvegna

Lo studio di Stephane Courtois, del “Libro Nero del comunismo europeo” (Mondadori, 2006) entra in contrasto con gli storici filomarxisti come Eric Hobsbawn che adesso si fa passare per vittima quando, per decenni, ha scritto una storia concepita “alla luce del marxismo vittorioso” e del “radioso avvenire” sovietico. Pertanto, secondo Hobsbawn anche il Libro nero ora racconta una storia dei vincitori. In realtà non è così sottolinea Courtois, il Libro Nero, racconta la storia proprio dei vinti del comunismo, come i Kulak condannati a milioni a morire di fame, i “controrivoluzionari” e gli altri “nemici del popolo” massacrati con un colpo alla nuca nei sotterranei della Lubjanka o con una badilata in testa nelle risaie cambogiane. Del resto, puntualizza Courtois, a chi verrebbe in mente di disapprovare come “storia dei vincitori”, le ricerche effettuate in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, sul genocidio degli ebrei europei con il pretesto che questi tre Paesi hanno vinto la guerra contro i nazisti nel 1945?

Un aspetto non secondario che qui viene evidenziato è che gli autori del Libro Nero del comunismo sono stati, tutti in gioventù, militanti comunisti o rivoluzionari più o meno convinti. Peraltro, “essi non hanno scritto il libro per ‘ripensare le posizioni’, di quel periodo militante della loro vita, ma per illuminare un tratto di storia poco conosciuto, spesso mal documentato e a lungo considerato tabù”. Anche se Courtois prende atto che l’opera di Habsbawn, “Il secolo breve”, nasce da un regolamento di conti con sé stesso e soprattutto è un ulteriore prova della cecità dei grandi intellettuali occidentali sull’ideologia criminosa di Mosca.

Un’altra opera valutata da Courtois è “The Road to terror” di J. Arch Getty e Oleg Naumov. Il testo pubblica i resoconti stenografici delle sessioni ultrasegrete del Comitato centrale del PCUS, in cui sono messi sotto accusa alcuni importanti esponenti del sovietismo come Rykov e Bucharin. Ci troviamo di fronte, scrive Courtois, a “veri e propri esempi di tortura psicologica e di linciaggio politico, in cui la bella facciata di quei grandi idealisti che sarebbero stati i bolscevichi crolla miseramente”.

In questo libro gli storici americani sostengono che in quattordici mesi dal 1937 al 1938, ci sono stati ben 690.000 assassinii. “Il computo delle vittime è uno degli elementi fondamentali della valutazione storica”. Una risposta a chi squalifica l’importanza dei numeri.

Courtois punta la sua attenzione sulla figura di Stalin, che considera, “l’uomo di potere più efficace del XX secolo”. Per trentacinque anni ha magistralmente condotto gli affari bolscevichi, dando prova di essere capace, più di chiunque altro. Attenzione, non è quello che è stato considerato sbrigativamente dai media. Fu un uomo dalla volontà di ferro, “dal senso politico eccezionale e dalla professionalità di gran lunga superiore a quella del dilettante Hitler”.

Courtois commentando il libro degli studiosi americani, riporta un dialogo tragico, contenuto in una lettera di un esponente comunista un certo Aseev, il quale messo sotto accusa, preferì suicidarsi: “Perché mi avete distrutto?... Io non posso vivere al di fuori del partito. Il partito mi è indispensabile quanto l’aria”. “Essere esclusi dal partito – precisa Courtois – equivale a essere respinti nelle tenebre: perdere il lavoro, la casa, il sostentamento per sé e per la propria famiglia, prima di perdere la libertà ed eventualmente la vita”. È un dramma che si è ripetuto negli anni Cinquanta con l’eliminazione di alcuni capi comunisti in diversi Paesi dell’Est. Ho raccontato la storia di Rudolf Slanskij, segretario del Partito comunista cecoslovacco, caduto in disgrazia nel 1951, poi impiccato l’anno successivo. («Slanskij 1952. Processo & impiccagione di un gerarca comunista», Edizioni Ares, 2010). Potremmo scrivere che la Rivoluzione divora i suoi stessi figli, capitò con la madre di tutte le rivoluzioni: la Rivoluzione francese, che ha molte analogie con quella bolscevica. Tutti sanno che il bolscevismo fa riferimento alla fase giacobina e terrorista.

Nonostante l’apertura degli archivi, l’ampia documentazione pubblicata da tanti storici, c’è ancora chi distingue tra l’ideale e la realtà comunista. C’è in giro ancora molta storiografia neocomunista che persiste nel raccontare la favola del “buon ideale” comunista.

A rafforzare questa tesi si fa l’esempio di Bucharin, presentato come il simbolo stesso dell’idealista comunista, opposto alla deviazione stalinista. Il libro riporta le sue parole che evidenziano una sua visione utopistica, chiuso nel suo fanatismo ideologico, viscerale. Interessante e allo stesso tempo raccapricciante, la lettera di Bucharin, quando giunge a dichiarare il suo rispetto e il suo amore per Stalin, che poi lo farà morire.

Courtois da conto del dibattito aperto sugli anni del potere comunista nei Paesi dell’Est, una delle sorprese maggiori della storia della pubblicazione del Libro nero del comunismo è stata la pubblicazione e il suo successo in tutti i Paesi dell’Europa dell’Est, tranne che in qualche Paese.

Lo storico francese durante le sue numerose conferenze di presentazione del Libro, tra i tanti obiettivi, dichiara che il testo si pone soprattutto di onorare la memoria delle vittime e di rendere loro giustizia. Emerge quindi la questione che Krzysztof Pomian ha definito “l’impossibile processo al comunismo”.  L’idea non è nuova, torna in mente il precedente storico del processo di Norimberga. Anche lo stesso Vladimir Bukovskij, lo aveva invocato, proponendo di giudicare i crimini del comunismo di fronte al mondo. Tuttavia, gli autori del Libro Nero, non hanno mai proposto una “Norimberga del comunismo”, anche perché sembra tecnicamente impossibile. I fattori sono diversi, e sono tanti, rispetto alla Germania nazista e Courtois lo spiega bene. Tuttavia, forse, l’ostacolo maggiore, al procedere per un processo al comunismo è quello che non è stato sconfitto militarmente come il nazismo. Pomian scrive che è morto di vecchiaia. C’è da rilevare che “la maggior parte dei comunisti si è comportata come se la storia non li avesse sconfitti. Molti di loro ritengono di aver perso una battaglia ma non la guerra, la guerra di classe”.

Courtois a proposito di onorare la memoria delle vittime del comunismo fa riferimento al lavoro eccezionale dell’associazione Memorial, che si occupa di censire tutte le vittime del comunismo.

Nei vari dibattiti in Europa orientale a cui ha partecipato lo scrittore francese, tra le tante domande che gli hanno posto, soprattutto i giovani, una viene spesso ripetuta: perché tanti intellettuali occidentali hanno sostenuto il comunismo? È stato difficile capire per chi ha subito cinquant’anni di terrore comunista. Come mai tanti giovani hanno deciso di militare nelle organizzazioni comuniste. Di fronte a queste domande che provengono dall’Est, gli europei dell’Ovest non possono fare finta di niente. Francois Furet presentando il suo libro, manifestando l’intento di voler contribuire a creare un ponte tra l’Europa occidentale e l’”altra Europa”, chiariva che “la prima ha creduto nel comunismo più a lungo della seconda e non sempre si è resa conto della catastrofe storica costituita dai regimi comunisti. La rinascita di una coscienza europea è pertanto subordinata a tale sforzo di lucidità”.

Il compito dei cittadini europei occidentali è quello di rendersi conto delle reali dimensioni della tragedia vissuta dall’Europa dell’Est per quarantacinque anni e quelli dell’ex Urss per settantaquattro anni. Si sono resi conto dell’immane tragedia? Da quello che abbiamo visto in questi anni, non sembra. Tanti possono essere gli esempi di amnesia, di voluta indifferenza nei confronti delle vittime del comunismo. Si continua a ricordare le vittime della Shoah, ma poco spazio per quelle dei Gulag comuniste. Significative sono le dichiarazioni di due esponenti comunisti francesi riportate nel libro, fanno autocritica sul loro passato, del loro contributo al comunismo: “[…] quando venivano compiuti i crimini del comunismo, non solo applaudivo, ma univo la mia voce a quella di chi si adoperava per coprire le grida delle vittime…la protezione dei carnefici ha costituito una parte importante della mia ‘vita professionale’”. E l’altro esponente: “abbiamo considerato normale vivere in un sistema poliziesco che noi stessi avevamo creato”.

In conclusione, Courtois è convinto che in Europa in molti devono fare la revisione della memoria, devono fare quello sforzo, più o meno penoso, per liberarsi della memoria “gloriosa” del comunismo, che da lungo tempo costituisce il conforto morale di rivoluzionari che fanno le rivoluzioni sulla pelle degli altri.

Il secondo contributo pubblicato nel libro è di Joachim Gauck, (La cecità volontaria nel regime comunista). Pastore della Chiesa evangelica, si è occupato della documentazione dei servizi segreti della Stasi dell’ex RDT. Studiare la RDT è importante, un’esperienza del sistema comunista che più di altre incuriosisce, per quella sorveglianza sistematica, attraverso la Stasi, che ha caratterizzato il regime comunista tedesco. Con i suoi 90 mila funzionari, è stato un sistema che con i dovuti distinguo, potrebbe assomigliare a certi sistemi democratici di oggi.

Il Libro Nero, secondo Gauck ha fatto emergere un altro fenomeno, quello della “percezione selettiva. Perché non abbiamo saputo vedere ciò che era sotto i nostri occhi? Perché non siamo venuti a sapere ciò che non sapevamo? Perché anche i nostri ricordi sono selettivi?”. È imbarazzante che all’epoca nessuno ha analizzato, l’assenza di legittimità del sistema di potere del socialismo reale. Si preferisce ricordare in modo selettivo.

Il III capitolo (Il bolscevismo, malattia sociale del XX secolo) viene occupato da Aleksandr Jakovlev, ex membro del Politburo del Partito comunista dell’Unione Sovietica, uno dei principali teorici, insieme a Gorbacev della perestrojka.

“Dateci un partito di rivoluzionari e ribalteremo la Russia”, esclamava con voce patetica Lenin. In effetti scrive Jakovlev l’ha ribaltata, stravolgendola, col risultato che il Paese ha un ritardo di un secolo rispetto ai paesi civilizzati. “Decine di milioni di persone sono state ammazzate. Il paese è povero e arretrato e si ritrova con un capitale biologico impoverito”. Per Jakovlev, “bolscevismo e fascismo sono le due facce di una stessa medaglia. La medaglia del male universale”.

Jakovlev racconta le aberrazioni iniziali del terrore bolscevico, della guerra civile alimentata da Lenin, “la popolazione fu costretta a vivere in un’anarchia tirannica e criminale […] Qualsiasi cekista mascalzone, poteva di sua libera iniziativa, condannare a morte una persona che considerava appartenente a una classe inferiore”.

Il bolscevismo è vissuto costantemente nella menzogna, l’informazione controllata, le radio straniere venivano disturbate, la censura spinta ai limiti dell’assurdo, i giornali “borghesi” vietati. Il partito stabiliva quali libri si dovevano leggere, quali canzoni si dovevano cantare, quali argomenti si dovevano discutere, e persino il modo in cui si doveva farlo. “Il controllo dell’informazione e la chiusura delle frontiere, il gulag e l’assenza di leggi, tutte queste umiliazioni indussero la popolazione sovietica a scambiare per vita vera questa pseudorealtà in cui la si costringeva a vivere”. Ecco perchè il motto di Solgenicyn, “vivere senza menzogna”, divenne la frase più frequente contro il totalitarismo.

“La storia non ha mai conosciuto un potere criminale della portata del bolscevismo”, che peraltro diceva di operare per il bene dell’umanità. Per Jakovlev, “il terrore non è stato altro che una carneficina in nome del sol dell’avvenire. Risulta particolarmente difficile sintetizzare in un unico concetto il cannibalismo sociale, il ‘cainismo’ e i peccati di Giuda nelle loro manifestazioni estreme […]”.

Tutto viene giustificato in nome della rivoluzione. Con una simile morale, è facile giustificare ogni crimine, ogni sterminio. Soprattutto quando la posta in gioco è il potere, si ricorre alla violenza, alla repressione. L’ex membro del Politburo si chiede: “Come può essere che milioni di persone, assolutamente innocenti, siano state sterminate per la sola volontà di un ristretto gruppo di criminali, mentre milioni di altre venivano condannate a interminabili sofferenze ed erano escluse dalla società, vittime della crudeltà della macchina dello Stato?”.

Quello di Jakovlev è una spietata requisitoria sulle gravi responsabilità dell’ideologia bolscevica che ha distrutto la Russia. A pagina 143, fa un elenco dettagliato delle più gravi responsabilità del bolscevismo, che in definitiva ha causato la scomparsa di sessanta milioni di persone e la distruzione della Russia stessa. Un sistema quello comunista bolscevico, fondato sulla follia sociale, per Jakovlev, che ha eliminato fisicamente intere classi sociali: contadini, nobili, commercianti, imprenditori, uomini di Chiesa, intellettuali. Un sistema che per settant’anni ha sistematicamente fatto una guerra civile permanente contro il suo stesso popolo, ricorrendo a tutti i mezzi possibili e immaginabili. Jakovlev sentenzia: Il comunismo reale non è mai esistito, e mai potrà esistere. La teoria comunista è un’utopia, un gioco intellettuale, un crudele imbroglio, una scommessa sugli istinti, una speculazione sulle mostruosità e le contraddizioni sociali”.

Il denso racconto di Jakovlev è tutto da leggere, fin dall’inizio, il suo contributo ben documentato, arricchisce e dà forza a tutto il Libro nero del comunismo. Dovrebbero leggerlo e meditarlo tutti quelli che ancora non sono convinti del progetto diabolico, dell’esperimento comunista, come lo chiama il grande scrittore cattolico Eugenio Corti. Ritornerò per affrontare come è stato vissuto il comunismo all’Est e all’Ovest.

 

 

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