Giuseppe Bagnasco recensisce "Solfeggi d'oblio" di Tommaso Romano

Ho bisogno di silenzi, perché niente  venga a turbare il raccoglimento dei pensieri, delle motivazioni, delle percezioni che stanno sulla porta, pronti ad essere colti e consegnati a queste note. Ho bisogno di silenzi, perché in Solfeggi d’oblio, una smilza raccolta di poesie (così l’aggettiva l’Autore), c’è un vaso di idee, un vaso ripieno di contenuti di saggezza, di considerazioni etiche, di riflessi filosofici per cui si avverte l’esigenza di una attenta critica valutazione. La raccolta, forse perché smilza, non gode del beneficio di una prefazione, né le poesie vengono predefinite da titoli che ingabbiano il contesto. Ed è proprio questo il fine del poeta Tommaso Romano. Scrivere in libertà, senza un argomento prefissato. Un vaso no-pandoriano di pensieri, messi in fila spesso identificati con parole antagoniste, perché il riflesso di un concetto può non coincidere con la sua immagine. Affermava Magritte che un oggetto riflesso da uno specchio riproduce solo la sua immagine non quello che è. Un concetto ripreso dallo stesso Autore quando cita, primo fra tutte le frasi riportate in epigrafe, il pensiero del Vico dove afferma che compito della poesia è dare un senso alle cose insensate. Ma per fare ciò occorre evidenziare le dicotomie e le contrapposizioni quali si evincono in parole quali sapienza-insipienza, velare senza svelare, il fare e il non fare, illusioni e speranze, salpare o annegare ecc.  Ed è proprio nell’affrontare queste dicotomie e nel tentativo di  superarle che alla fine soccorre la speranza indicando una ragionevole ma incerta via d’uscita che comunque non porta a sentenze esaustive ma a volitive aspettative. Il tutto esposto in otto poesie dove il Poeta affronta tutte le percezioni che investono la vita in genere rapportata ai suoi personali ricordi quando afferma:“qualche ricordo/ pochi volti e voci/ che si diluiscono stanchi/ quasi fotogrammi sbiaditi”. Una vita dove tutto passa malgrado restino le contraddizioni che stanno tra un’idea e il suo opposto, una armonia disarmonica come direbbe il Nostro, che trova soprattutto eco nelle frange di questa società. E sono otto poesie supportate a mò di titoli da citazioni di grandi pensatori da Dàvila a Eraclito, da Macchiavelli a Nietzsche, da D’Azeglio a Flaubert poste nell’angolo corniciale e che argomentano su idee socio-spirituali, otto poesie scritte di getto sotto la spinta, asserisce l’Autore, di una creativa necessità. Un bisogno impellente di dire tanto non escluso la considerazione sulla natura che già da tempo non indirizza né  accompagna più l’armonia della  vita sociale estirpando alle città anima e corpo. Otto poesie tutte datate e create nell’arco “smilzo” racchiuso tra il 2 ottobre e il 24 novembre del decorso anno, un periodo di tempo che tuttavia  il Nostro dilata a cento giorni giacchè aggiunge a queste otto ben altre tre poesie che esulano  dalle ragionevoli riflessioni e dai ricordi amaro-romantici che in quelle si percepiscono. Tre poesie aventi come padrini negli pseudo-titoli le citazioni dei Màrai, Pirandello e Shakespeare in cui si parla di passione, di anime che si danno del tu e naturalmente d’amore. Tre poesie significativamente non datate dal momento che il sentimento non si può ancorare ad  un certo giorno. E siamo di fronte al dubbio: rimpianti o semplicemente illusioni/delusioni ?. Resta, annota il Poeta, “ ora/ solo il consumarsi lento/ (ascoltando)… una sirena/ con ferito (d’amore) a bordo/ verso l’inutile ospedale del cuore”. Oppure in un’altra dove il Poeta esprime l’amarezza per la natura violentata da “oscene pale eoliche” o da “stazioni cementate… che (per il progresso) diranno vitale, utile, nuovo…” Ma a soccorrere l’animo “c’è sempre il solfeggio del mare”, il canto cadenzato delle onde che invitano a partire o annegare nell’oblio. Ecco come viene fuori, a parer nostro, il titolo Solfeggi d’oblio. Un alternarsi nel solfeggio-altalena delle onde tra sensazioni liberanti e dubbi ritornanti…fino alla resa sotto il giogo di un “oblio di ghiaccio”. Un pessimismo  totalizzatore?.A nostro modesto avviso non è la resa, la parola ultimativa (anche se chiude la raccolta) perché il contesto  si presenta  molto più complesso. Semmai uno scoramento poiché  il Poeta non vede, e noi con lui, alcuna alba, alcun barlume nell’oscurità della notte. Non ancora. Allora non resta che affidarsi all’attesa, un’attesa consumata  in una “monotonia informe” insieme alla certezza, questa sì, dei ricordi che nessuno può estirpare, tranne l’oblio. E’ questo il nemico da combattere. Solfeggi d’oblio dopo Un regalo bellissimo e L’airone celeste completa una trilogia di poesie dove tra un  dubbio e una certezza  si esplora l’anima alla ricerca della bellezza, con uno stare a metà tra ciò che è e ciò che si vorrebbe che fosse. Un alternarsi tra uno sconforto e un volo, un meditare tra ciò che fu il Tempo dorato e ciò che ci offre in Solfeggi d’oblio l’odierna e inutile pesantezza del compiere, un vuoto in cui prende comunque posto uno spiraglio di speranza per ciò che ci perviene dall’Oltre e per quei valori senza i quali non vale nemmeno la pena invocare dagli altri l’oblio di se stessi, visto che per essi non c’è stata un’alba di vita. Un’alba di vita che ci permette di esigere un bisogno di silenzi affinché seduti (come il Poeta) nell’ultimo posto dell’ultima fila, ci si può isolare e in silenzio “ascoltare la bellezza” che sia della natura o del cuore o semplicemente, come attesta il Poeta, del Ravel con La Valse coi suoi romantici valzer o con Bolero che, esulando dalla ragione, ci trascina coi suoi turbinosi ritmi nell’estasi portando all’anima il giusto premio anche se precario. Solfeggi d’oblio in fondo dà corpo all’alternarsi delle certezze che stanno nei ricordi, coi dubbi che stanno nel futuro. Il tutto circoscritto da una sorta di ansia lenita appena dal rifugio nell’amore e nella solitudine non beata evitando che  un’illusoria primavera (come dice l’Autore)  piomba in un ingrigito autunno, come la speranza nella delusione. E questo per nascondere il gioco innocente della vita che il tempo nell’attesa consuma consegnandola all’incalzante “Mistero”. Chiude la raccolta delle otto poesie la parola pace. Una pace che non trova nel Poeta il suo destinatario visto l’alternarsi delle certezze ai dubbi, dell’ondeggiare tra una rassegnazione e una speranza, un perenne pendolo che come un minuetto sembra quasi la musica di un concerto per cui  alla fine  non si va/ e non si torna/ in pace. E‘ pertanto la ricerca della pace ciò che affligge nel silenzio un’anima tormentata che pur resta mai doma insieme alla domanda amletica di vivere o non vivere, di dimenticare o di ricordare. E’ questo il dilemma che ci lascia il poeta Tommaso Romano, un dilemma che ci porta ad un bivio, un bivio come quello forzatamente affrontato da don Abbondio che alla vista del “bravi” non sa se proseguire o fare finta di non vederli. Ma il futuro non si può evitare e lo conosceremo, come sembrano suggerire queste liriche,  solo quando saremo davanti alla “Grande Opera”, questa sì, compiuta.       

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