XVIII Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

Il ministro Nicola Capria

Alcuni anni successivi al periodo che sto rivelando...No, meglio continuare secondo le cadenze naturali del tempo. Doveva andar via, allontanarmi soprattutto da me stesso, difficile, impossibile, almeno dalla casa, dalle strade, dalla città, dalla ripetizione che ormai mi comprimeva, una sorveglianza sul mio essere in casa, in strada, in città, viste, continuamente, perfino in casa, passare da una stanza all'altra, sono in bagno, sono nelle scale, sto uscendo, una sorveglianza che era un rifiuto. Gli anni finivano il decennio dal 1950 al 1960, credo che in Calabria non esistesse Università, o forse a Cosenza. Coloro che volevano continuare gli studi giungevano a Messina, prossima, affiancata, tra costoro, molti, un giovane di qualche anno maggiore di me, ben costruito, volto solido, occhi di sfolgorante azzurro, capelli marroncini, larghe mani, voce ragionevole, serena, idiomatica alquanto nel suono, aspetto più adulto dei suoi giovanissimi anni. Non ho memoria del come ci conoscemmo, di certo all'Università, o qualche convegno, fu un altro amico fondamentale, si chiamava Nicola, Nicola Capria, in futuro Ministro del Commercio Estero durante i governi socialisti e in altri Governi. Era appassionatissimo di lettura, in condizioni non sostanziose io gli prestavo i libri. Mi fece conoscere un poeta che poi divenne “mio” anche come personalità, Guido Gozzano, io in specie gli diedi i Racconti dell'autore che mi fece scoprire il nostro tempo, Alberto Moravia, incredibilmente qualche anno successivo sarei diventato amico di Alberto Moravia, che pubblicandomi nella Sua rivista, Nuovi Argomenti, avrebbe messo a conoscenza della cultura mondiale i miei scritti.

Con Nicola ci vedevamo realmente tutti i giorni e conversavamo immensamente. Aveva un fratello, Vito, che diverrà medico, perirà giovanissimo in un incidente automobilistico, anche un altro medico, ed altri, perirono, l'altro medico era coniuge di Nennella La Ferla, figlia del Notaio Salvatore, fratello del mio patrigno. Nicola abitava ai confini della città, zona popolare, andavo da lui, o a casa mia, la madre, anziana, vestita a nero, di naturale cortesia, e quasi inesistente   per non dare peso, salutava e spariva. Ma erano una piccola tribù, anche nipoti, figli di parenti adulti, tra i quali una ragazzona di corpo accentuato, quando, raramente, andavamo in macchina, non so di chi, ed io sedevo accanto a questa guerriera irrimediabilmente sbattevo con le gambone e cercavo di rattrappirmi. Con riguardo alle automobili fu tardissimo che scoprii l’essere trasportato in macchina. Giuseppe Russotti ne possedeva e addirittura guidava, io sedetti avanti, con altri compagni raggiungemmo le collinette dalle quali si coglie interamente il mare dello Stretto e gli spazi e le Calabrie, e scorgevo l'insieme come uno scorrimento di spettacolo, ai bordi di una stradina sul precipizio, avvinto da quel che ammiravo e ansioso per lo strapiombo. Con Nicola inevitabilmente andavano a Piazza Cairoli, da Irrera, i tavoli sotto il canto, il vocio, il cinguettio di uccelli a migliaia, non se ne vedeva alcuno, nascosti, infrondati, noi chiacchieravamo sterminatamente, anche di un qualcosa che non conoscevo, la Politica. Nicola era Socialista ma come si dice un socialista molto liberale non alla maniera sovietica. Invece io a quel tempo mi perdevo nelle biografie, amavo i singoli, i personaggi, l'incarnazione degli ideali nelle persone, al dunque le persone, i Personaggi, e fu Ludwig van Beethoven, un musicista/filosofo che mi esaltava e ancora oggi. Ma leggendo, leggendo vi erano anche personaggi della politica, per qualche minimo periodo mi trasse Benito Mussolini ed il Fascismo, addirittura quando lo storico Giorgio Spini venne in Città e dichiarò il danno cagionato dal Fascismo io che iniziavo a non essere retrattile vantai la Carta del Lavoro, le Corporazioni, le attività assistenziali, le avevo vissute. Ma poi c'era la ragione decisiva, mi sentivo italiano, patriota, quando l’esercito si presentava   mi alzavo. Poi una conversione, Stalin e l'Unione Sovietica, appassionato, leggevo tutte le biografie di Stalin, tutte le vicende della Rivoluzione, tutti i protagonisti, non so perché Stalin e poco o niente Lenin, presso che ignoto Troskii o vituperato. Erano gli Anni Cinquanta, incombeva la presenza della guerra mondiale, l'Unione Sovietica aveva parte decisiva nella rovina del nazismo, la miseria, la povertà avvilivano i popoli, presentarsi come vincitori del nazismo e fautori del benessere del popolo (proletari, contadini) attribuiva sconfinata aura al comunismo sovietico. più futuristica l'idea che il proletariato avrebbe conquistato il potere a beneficio dell'umanità. Queste convinzioni, questa Fede ereditavano il Cristianesimo. Ero naturalmente cristiano, come sentimento mio, non sopportavo l'asservimento sugli altri, l'altrui sofferenza mancante di compassione. Quando mio zio, lo sa il cielo, quello che ritenevo gigantesco, Nunzio, divenne avvocato, fece studio vicino Messina, poi a Messina, o insieme. Andai a vederlo fuori Città, era con lui un servitore, diciamo, io avevo una borsa, fece atto di togliermi il peso, mi rifiutai violentemente, non permettevo che il mio prossimo diventasse un “mezzo” a mio uso. Ad esperienza, gran parte dei comunisti erano dei cristiani senza Dio, moralmente, anzi sentimentalmente cristiani che ritenevano il comunismo compimento del rimedio della sofferenza, dello sfruttamento. Non  ero credente ma con fortissime esigenze morali, la pietà, evitare la sofferenza e questo nella mia formulazione giovanile, allora, al finire degli studi liceali si realizzava nel comunismo, non  mi  insospettivo della  dittatura del proletariato, annientamento della borghesia, collettivizzazione dell'economia, della dialettica tra rapporti di produzione e strumenti di produzione, essenza del comunismo marxista, mi affliggevano  i poveri, gli umiliati, non dovevano continuare a restare poveri, umiliati, l'Unione Sovietica aveva realizzato il cristianesimo senza Dio! Il marxismo dominò lunghi anni della mia vita, al punto che scrissi, nel 1983, la più estesa biografia di Marx, “Marx contro Marx”, Editore Dino, ancora in circolazione. Lascio il riferimento al suo tempo. Ne dirò.

Il mio primo tentativo di scampo è farsesco-drammatico, non sapendo che fare immaginai di consacrarmi sacerdote. Al collegio dove avevo studiato domandai, volevo essere un Gesuita! Bisogna presentarsi alla Casa Professa, Palermo, ci sarebbe stata valutazione, accoglimento o non accoglimento della mia richiesta. Che fossi valutato e non preso immediatamente mi disturbò, io potevo negare me stesso, non gli altri! Tuttavia, neanche a dirlo, a Palermo, la Casa Professa, mi ospitarono, un magnifico edificio non so dove e conoscevano ovviamente il Sant’Ignazio di Messina. Strabi1iante torre di Babele giovanile, ma ne vivrò, non ero credente e presumevo che mi dovevano accogliere. Ma il giorno del mio arrivo, sul tardi, un saggista, a quell'epoca conosciuto, adesso non ne rammento l'identificazione, conferenziava su Dio e la razionale possibilità di stabilirne l'esistenza. Concezione apprezzatissima dai Gesuiti, non da me, sicché mi animavo, mi scuotevo, si comprendeva e volevo fosse compreso che una dimostrazione secondo ragione di Dio non otteneva la mia approvazione, ed io non ottenni l'approvazione dei Gesuiti e cortesemente, in vicendevoli inchini, tornai ospite a casa mia. Ancora in quella città, in quella situazione, libri, amici, amici, libri, musica, soprattutto sempre musica. e decisi, Roma, la città imperiale, la città della civiltà greca, romana, cattolica, il porto, un treno, stazione di Messina, mare, onde, schiuma, Villa San Giovanni, notte di me stesso e del mondo, io, con la mia sorte appesa alla mia solitudine, spezzati tutti i vincoli. Mi spingo nel deserto abitato da fantasmi neri, io, solo, senza scopo, senza una determinazione oltre il fuggire. Al mattino, agenzia, Roma, no, no, no, no, a Roma giunsi nell'oscurità, la città enorme rispetto alla mia città, solitudine fulminante, immediata, a Messina potevo odiare, rifiutare me stesso e gli altri ma vi erano persone, luoghi che mi accoglievano, mi riconoscevano, a Roma vi era un mondo ma non per me. Avevo un indirizzo, credo di averlo avuto, una stanza in affitto, andai, appena mi chiesero la porta e vidi il letto, le sedie, un armadietto, annegai, rifiutato dal mondo, inabissato nella disfatta, il peso buio dell'Universo mi tentacolava, oscurità e solitudine mi atterrirono. Fuggire, sfuggire. A Messina giunsi all'alba. Mia madre vedendomi ,pure se angosciata dalla mia partenza,lei,  persona che osava senza tremore, certamente felice del mio ritorno, rassicurata,  non mi considerò coraggioso. La mia vita continuò come prima. Qualche tempo.

Franco Giacobbe, un docente ma non insegnava, forse era stato allontanato, forse non poteva mantenere le relazioni di fiducia, ottenimento di un risultato, imprevedibile, nervosissimo, a agitatissimo, gli occhi scavati, segnati ,accesi, irrequieto nei movimenti ,gridante sempre e a voce altissima anche in strada ,gesticolante, il fiocco nero anarchico al collo, soprattutto innamoratissimo della madre, donna bellissima, levigata, venusiana, odiatore, Franco, del padre, un fratello, Giovanni, opposto, cattolicissimo,(Franco era ateissimo), religiosissimo, pregantissimo, inginocchiatissimo, lo si vedeva addirittura in orazione con la porta spalancata della chiesa di San Nicola a Viale San Martino o San Nicolò, ebbe carriera di magistrato, di professore universitario, e funzioni  di rilievo in qualche istituzione Cattolica. Giovanni era l'opposto di Franco, dicevo, misurato ragionatore, dimostrativo, sposò una Giuffrè, i proprietari della casa editrice che stampava libri giuridici, si trasferisce a Roma. Franco vagheggiava il mondo, aveva sicure difficoltà di rapporti con le donne, ne discuteva ossessivamente ma si fermava al discorrere. Ecco, era essenzialmente uno che parlava, il suo fare era dire, anzi gridare. Parlavamo di tutto e di niente, a Franco Giacobbe importava sbracciarsi, vociferare, farsi notare, conquistare  Viale San Martino. Talvolta recava valigette di libri quasi dovesse partire o non saprei. Di partire, diceva spesso, del resto era l'aspirazione di moltissimi. Ambizioni deluse, il vincolo con la madre, non so, era perennemente sul punto di fare quel che non faceva. L’unico risultato era quella voce che gridava, quelle mani agitate, quegli occhi da insonne infelice. Voleva traversare il mondo. Restò a Messina. Qualche anno dopo quando io non ero più nella città ed infine nel Continente, questa volta per sempre, seppi che Franco Giacobbe era morto 

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