Vivere per la grazia di un verso: Recensione a Guglielmo Peralta, "Sul far della poesia", (Spazio Cultura) – di Mario Inglese

Il termine “poesia” è, in assoluto, la prima parola della silloge ed è anche presente nell’ultima, brevissima strofa del libro. Non è un caso, io credo. Come vedremo più avanti, accanto a questo lessema ve ne sono altri impiegati innumerevoli volte nel corso della raccolta. Iniziamo quindi dicendo che Sul far della poesia è un libro – esattamente come lascia intendere il titolo – sulla poesia stessa. Peralta fa dunque, oltre che poesia, metapoesia. Si interroga, cioè, sulla natura della creazione poetica, sullo statuto del verso. Abbiamo a che fare, nondimeno, con tutta una serie di istanze non solo poetologiche ma anche filosofiche ed esistenziali. Già dal titolo capiamo che la prospettiva da cui osservare il discorso che Peralta dipana è proprio quello della genesi (diremmo della “germinazione” per via di quelle metafore biologiche care all’autore) della poesia. “Sul far” come “sul nascere” (si pensi all’espressione sul “far del giorno”). Quindi siamo di fronte all’aurorale inverarsi del verso. “Sul far” comunque rimanda, come detto, sia pur indirettamente, al fare, forgiare, poiein, creare.

Subito ci accorgiamo che la poesia così come la concepisce Peralta è una questione molto seria, ha qualcosa di sacrale, un’aura ieratica – diremmo. E se la poesia, o la letteratura in genere, non si esaurisce con i temi o i motivi che la animano ma anche con il come tutto questo si attualizza, come questo prende corpo nella pagina, nel testo come struttura compiuta, non possiamo non prestare attenzione agli accorgimenti grafici e tipografici, al graphein, a cui Peralta dedica tanta cura. Ecco dunque, oltre all’impiego ripetuto, quasi ossessivo, di specifici lessemi, l’uso anticanonico delle maiuscole, il corsivo, il trattino posto a evidenziare l’etimologia o la composizione di un singolo termine, la spaziatura all’interno di una parola, e così via. E sempre sul côté grafico si ricordi l’uso delle parole tronche di sapore aulico (es. Amor, Stupor). Lo stile aulico, elevato, è altresi veicolato da risorse sintagmatiche quali l’aggettivo attributivo preposto spessissimo al sostantivo (per esempio impalpabile sogno, fertile canto, invisibile poema, perduta luce, sonoro silenzio, desolata landa, rotonda visione, odorosa stella, pallido respiro, placida oscurità, e così di seguito – le occorrenze sono davvero numerosissime). Abbondano inoltre l’ossimoro, la sinestesia, la personificazione, l’apostrofe. Ma per il momento ci si può fermare con questa strumentazione retorica.

Quello che in generale si evidenzia leggendo la raccolta è una levigatezza di linguaggio che, di certo, è consustanziale con il ruolo che la poesia assume nella visione di Peralta e con la bellezza che a essa è strettamente collegata. L’autore non fa mistero di echeggiare la celebre – a dire il vero spesso abusata – frase di Dostoevsky sulla bellezza, e la fede di Peralta nel posto e nella funzione salvifica di quest’ultima è così incrollabile che il nostro poeta non esita a suggerire la necessità di una resa totale da parte dei mortali. Non è un caso che in un testo significativamente intitolato “Arrendiamoci alla bellezza” venga dispiegata tutta una serie di metafore scopertamente militari  (bombe, invade, attacco, centrale nucleare).

Non solo lo stile orbita tra le altezze di un registro elevato, venato di arcaismi e preziosismi – ma senza eccessi – ma anche i rimandi culturali sono, da una parte, spia di letture serrate e ampie, dall’altra non disdegnano altri campi della creazione estetica. Penso alla musica, sia classica che “leggera”, al cinema, alla pittura e così via. Si vedano, a questo proposito, poesie quali “La grande bellezza”, un titolo di chiara derivazione filmica. In questo testo notiamo la giustapposizione di riferimenti ai grandi personaggi della letteratura, da Dostoevsky a Nievo, a  Deledda, alla buona televisione di una volta, agli attori dei classici del cinema, ai cantautori, e così via. Se alcuni testi tributano apertamente un omaggio ad antecedenti letterari quali Leopardi, Proust, Montale, Quasimodo, ecc., in altri luoghi possiamo facilmente scorgere echi o analogie con altri poeti e scrittori che rimangono come in filigrana, testimonianza di quella sorta di DNA culturale che ogni scrittore, in quanto lettore innamorato della parola, porta dentro di sé. Si pensi al simbolo montaliano del girasole e all’espressione “impazzire di luce”, peraltro titolo di un componimento della raccolta. Il tessuto poetico di Peralta si sostanzia, d’altro canto, di memorie personali, di lacerti dell’infanzia amata e vista attraverso la lente della nostalgia (viene in mente una poesia come “Quelli erano i giorni”, titolo che ricalca quello della celebre canzone di Dalida “Quelli erano giorni”).

E veniamo dunque, dopo questa succinta carrellata di alcune delle caratteristiche formali della lirica di Peralta, ai motivi tematico-concettuali che la innervano. Come dicevo prima, questo libro è imperniato sulla natura e sul senso del fare poesia. In verità la poesia, per Peralta, è data al poeta come la grazia è concessa all’eletto. Echi e analogie religiose sono peraltro disseminate in tutta la silloge. Basta leggere la brevissima poesia “Transustanziazione”: “Il verso ricevuto / in plena grazia / è ostia sacra dove / Poesia / si transustanzia”; oppure “Comunione”: “Con l’ostia sacra / del  verso / ricevo te / Poesia / in plena grazia”, che è di fatto una variazione della precedente. La poesia si manifesta precipuamente nella dimensione notturna del sogno (altra parola chiave), si dispiega nella capacità del canto da parte del poeta (il termine “canto” con i suoi derivati è un altro cardine). Scoperte sono le reminiscenze stilnovisticche e del Dante lirico. Basti citare la breve poesia dal titolo “Lo stile dell’Amor”:

 

Sguardo, onde s’apprese il mirabil viso

nel mio cor fanciullo, ancora mi nutri

della prima visione che rinnova

lo stile dell’Amor che in ogni tempo

veste e fa dolce il canto dei poeti

 

Con levità del corpo, tutt’anima

mi rendi col tuo impalpabile tocco,

sì che alla luce come fior mi volgo

l’immateriale Bellezza contemplando

E per la grazia dell’amato riso

angelico miracolo si mostra

 

Il miracolo epifanico della poesia si verifica nella dimensione privilegiata della contemplazione notturna del nostro essere tutt’uno con l’universo, con il creato. Solo nella ‘contemplazione attiva’ (Kafka parlava di Tatbeobachtung) l’uomo può cogliere il dominio buono e salvifico della bellezza. Lo sguardo “soale” (nel senso che Peralta dà a questo neologismo riferito alla fusione di sogno e realtà) può garantire, da una parte, il senso di comunione dell’uomo e delle altre creature con la grandiosità della creazione divina, dall’altra la capacità da parte dell’uomo-poeta, dell’uomo creatore di bellezza, di partecipare attivamente al canto armonioso che lo riannoda al pulsare della natura e del firmamento. È nel “dentro”  dell’interiorità creativa che germina la parola. Il “fuori” è invece spesso associato all’inautentico (per dirla con Heidegger), all’alienante agire che mortifica la bellezza, obbedendo alle brutture di un profitto e di un consumo senza anima, senza salvezza.

Non è un caso, dunque, che se la poesia di Peralta perviene a un orizzonte ‘estatico’, nel senso etimologico di ék-stasis, questa dimensione trova in effetti la sua genesi nell’intimo della casa, dell’isolamento, del nido  (eco di Pascoli?). Il poeta si perde estaticamente nel mare dei versi, tra simboli, metafore, corrispondenze e tutta quella ricchezza che l’alchimia del verbo (come non pensare a Baudelaire?) offre a chi sa vivere la realtà del sogno. La bellezza e la poesia sono l’esatto opposto della rovina della desolata landa. Il poeta coglie l’armonia del creato nella sua multiforme manifestazione immanente e trascendente, dove tutto si tiene insieme e col quale egli entra in comunione in un amoroso moto di sim-patia (ancora una volta nel senso etimologico del termine, di sympátheia, da sýn+páthos, con + affezione, sentimento). La “brama di solitudine” apre la porta alla meraviglia, all’incanto che sconfigge, la “vita grama”, l’inganno, l’“amara condizione”. Per Peralta la poesia – come per William Wordsworth il contatto panteistico con la bellezza della natura – porta gioia e consolazione, lenisce il dolore del male del mondo e della vita. La visione estatica si nutre delle esperienze del “corpo estetico”. Non siamo neanche lontani da un panismo di ascendenza dannunziana. Basta leggere i seguenti versi:

 

O sacra visione che fai buona ogni immagine!

Nel tuo poema ognuno vive la sua favola

Si supera ogni destino umano

E io che bevo dal tuo calice la luce delle stelle

in te rinasco e in te tutto divento

E nelle forme che da te attingono acque lustrali io tocco

                                                                                      l’anima estatica.

 

La poesia dà senso all’esistere e all’essere-per-la-morte. La consapevolezza della transitorietà della vita e di quel sentimento quasi petrarchesco di caducità e labilità di ogni cosa è riscattata dall’oltre dell’ékstasis che solo la contemplazione della bellezza può garantire. Così leggiamo:

 

Felice di non essere sul calar della sera

se l’oltre offre il grembo alla Bellezza

se Poesia si fa specchio di Dio

alba nuova del mondo e degli occhi

se un destino di felicità abita la morte.

 

O ancora:    “(...) Eppure altro non resta che il sogno / l’amara potenza di evocare la consolazione di scaldarsi / al fuoco sacro della Poesia”.

Nuovamente a Montale vien fatto di pensare quando ci imbattiamo in un incipit come “Non chiedermi del silenzio di Dio”. Se Dio sembra dunque assente, o perlomeno muto, se Cristo non scende più sulla terra, resta pur sempre il mistero onnipresente della bellezza, della creazione artistica, della Parola. Sta al “folle hidalgo” – oserei dire al “puro folle” alla Parsifal – additare una via, nel momento in cui si fa cavaliere alla corte di Madonna Poesia, mentre la tenebra cala sul mondo e il naufragio si consuma davanti ai nostri occhi: “natura snaturata / di umanità spogliata”, scrive Peralta. Questi versi sono tratti da “Icaro”, uno dei rari componimenti della silloge dove i disastri globali che ci minacciano, per l’insipienza dell’uomo stesso, sono enumerati con inequivocabile perentorietà. Leggiamo dunque dell’aggressione alla natura, dell’avidità consumistica, della tecnologia senz’anima, di tutta quella “mota”, per dirla con il poeta, in cui rischiamo di affogare.

            Tuttavia prevale nella silloge un’aura mistico-sacrale, una visione estetica e – come dicevo — estatica, che sembra, da una parte, prendere le distanze dalla più smaccata ostensione del male e della corruzione, che sono pur sempre postulati e tenuti in giusto conto, dall’altra offrire un’alternativa, una sorta di antidoto agli assalti delle brutture dell’inautentico. Scrive Peralta: “(...) e sogno il nuovo Eden / E vivo sì io vivo / per la grazia di un verso”. La vita potrà pur essere in “uscita” ma rimane – spes contra spem – la poesia a vegliare, a dare senso a ciò che sembra non averne, tanto che il poeta può dichiarare: “È il sogno. Ciò che resta” e, un po’ più avanti, con quasi ungarettiana incisività: “Nel cuore nessuna / luce manca. / Mi distendo nell’albore. Attendo / che passi il firmamento”.

            Ad onta di tutto ciò che sembra congiurare contro (il “selvaggio progresso”, la “perdita d’amore”, il “nerissimo scontento”,  gli “uomini-inverno”), Peralta crede ancora – lo accennavo prima – che il poeta, il bardo, abbia una missione da assolvere, quella di indicare nella poesia una possibile via di salvazione. E qui l’apostrofe veicola esattamente questo compito: “Oh! Uomini stolti / fatevi alberi e uccelli / per il dì di festa / che tarda / dall’infanzia  del mondo / ad arrivare”. È come se fossimo a un bivio estremo, sembra avvertirci Peralta, “si eclissa l’ultimo bardo”, scrive. Solo recuperando una profonda fiducia fanciullesca: (“io eterno adolescente”, leggiamo, e vien fatto di pensare ancora una volta sia a Pascoli sia al saggio bambino di Wordsworth, padre dell’uomo adulto, corrotto e smaliziato), è possibile comprendere, secondo Peralta, la nostra vera umanità, il senso ultimo del nostro esistere nell’universo.

 

                                                                                                          Mario Inglese

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