“Un palazzo, una famiglia, nelle pagine di Simonetta Agnello Hornby” di Maria Nivea Zagarella
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- Category: Scritture
- Creato: 19 Maggio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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Il romanzo Piano nobile (ottobre 2020) di Simonetta Agnello Hornby fa parte con Caffè amaro (2016) e Punto pieno (ancora da completare) di una trilogia che verte su storie di famiglie che -come scrive l’autrice- hanno occupato la sua immaginazione per anni in un significativo impasto di riferimenti reali e invenzioni. Fanno da sfondo segmenti di storia della Sicilia: in Caffè amaro dai fasci siciliani alla due guerre mondiali; in Piano nobile da giugno 1942 ad aprile 1955, con flash sulla Palermo di fine Ottocento (i Whitaker, i Florio) e non mancano i raccordi con i protagonisti del primo romanzo (Maria Sala, Giosuè Sacerdoti) nel segno dell’amore vero, struggente. Singolare la struttura narrativa di Piano Nobile. I 16 capitoli giustappongono e vedono separatamente in azione le ”voci” di singoli personaggi (Dice Enrico Sorci, Dice Peppe Vallo, Dice Laura de Nittis…), i quali in prima persona, attraverso modalità diverse, ora la narrazione/confessione orale (appunto “il dire soggettivo”), ora una sequela di lettere (Carlino Sorci), ora delle pagine di diario (Mariolina Sorci), raccontano di sé e degli altri membri della numerosa famiglia (una quarantina di adulti complicati e litigiosi), “costruendo” o “ri-costruendo”, con continui salti e incroci di tempo e di luoghi e da punti di vista personali, le tante storie all’interno dell’unica “storia di famiglia”. La scrittura nuda, essenziale, tende a definire “dall’esterno” caratteri e situazioni, più che a enuclearli dall’interno, e li “colorisce” qua e là con radi, ma sapidi dialettismi di lessico (cosuzza, fimmine, maniari, curtigghi, ciarmulìo, taliata, famiata, nutrica, nascaredda, vappariari, perciano…) e di espressioni (scimunito e longo a matula; sapurita è sta picciotta, m’a vasassi tutta…; tanto una puvirazza era!…; tu ci curpi…; fussi la vota bona che m’alliberto di moglie e figlio… mani e piedi ci vaso; a u baruneddu ci penso io, voscenza può stare tranquillo…). Analogamente avverrà con il ricorso alla lingua inglese nelle vicende americane di Carlino. Punto focale e spazio fisico e simbolico dell’unità della famiglia, reale o presunta, resta per tutto il romanzo il piano nobile del restaurato settecentesco palazzo Sorci, a due passi dai Quattro Canti e dalla Cattedrale di Palermo, palazzo che è la dimora del barone Enrico (il piano nobile) e dei quattro figli maschi con le rispettive famiglie (appartamenti del secondo e terzo piano). Il piano nobile con le sue vicissitudini (affollarsi di parenti, cambio di destinazione, progressivo svuotamento) accompagna lo sfaldarsi della “famiglia”. Il romanzo si apre e si chiude con due morti emblematiche. Quella di Enrico (1942), padre di sette figli legittimi, quattro maschi e tre donne (e di due bastardi noti, l’amatissima Stellina, e il mai incontrato da adulto Peppe Vallo), è scandita dalle notizie di stampa “mascherate” dell’agonizzante regime fascista (i toni reboanti di una nazione che continua a credersi un impero… un impero che sembra uscito da un’operetta fin de siècle) e dagli echi dei bombardamenti alleati con relativi minacciosi volantini. Mentre nella fase terminale della malattia ricapitola sul letto di morte tutta la sua esistenza, e “esplora” il destino di figli e nipoti (Questi pupi miei. D’incerto destino. D’anima lacerata e nera), Enrico si autoqualifica e interroga: “Io sono io; e io sono il palazzo. E io sono la famiglia. Per quanto ancora?”. Il figlio minore Andrea (1955) da sempre malato di nervi, uccisa la cameriera Ersilia in un parossistico accesso d’ira, va a morire invece su una panchina alla Marina con addosso il cappotto del padre (sic!), quasi a evidenziare e “compensare” il lungo vuoto paterno di amore, comprensione, dialogo (padre cumannero e fimminaro), vuoto da lui sempre patito più degli altri fratelli, da bambino infelice ad adulto mutanghero e tormentato, costretto a sposarsi contro voglia e senza amore.
Un lungo guasto interiore ha reso da sempre “l’intimità” familiare dei Sorci più formale che sostanziale, intimità enfatizzata sì dal rito quotidiano, dal 1920 in poi, del pranzo e della cena al piano nobile, insieme col barone Enrico rimasto vedovo, di tutti i quattro figli maschi con le famiglie. Ma in realtà corsa da tensioni (i matrimoni “imposti”, per avidità patrimoniale, nel 1877 ad Enrico giovane con la mite e accomodante Rosaria, nel 1919 al figlio maggiore di Enrico, Cola, con Margherita, e nel 1924, per ambizioni nobiliari, ad Andrea con Laura, figlia del marchese Antonio de Nittis) e da angosce nascoste (delle donne soprattutto). Tensioni e angosce accentuatesi dal 1930 per l’adulterio di Cola con Laura (pur sinceramente amando Cola il fratello e essendo l’unico capace di placarne sin dall’infanzia i patologici scompensi emotivi e le terribili crisi nervose), e dopo, per la morte stessa del barone (solo Cola si addosserà il pagamento della legittima alle sorelle indebitandosi con la banca). Enrico confessa di non avere mai amato Rosaria, di esserle stato infedele con le ragazze dei “ricottari”, specie la splendida Estrella (maestosa e accogliente, i seni pieni di luce…), e con tutte le serve e le sguattere di casa che gli piacevano e, morendo, le chiede perdono di averla anche costretta a sopprimere con la tecnica del “panno freddo” (tecnica diffusa alla pari tra i poveri e tra i ricchi) tre delle loro figlie, perché i Sorci volevano solo figli maschi, consentendole (…mi implorasti. Mi sembrasti pietosa e acconsentii) di tenerne solo tre: Maria Teresa, Anna, Lia, che abiteranno poi insieme da sposate in un altro grande palazzo di famiglia costruito all’Albergheria. Afferma tuttavia Enrico che aveva cercato di fare “godere” a Rosaria la vita (bei viaggi in Italia) e di avere provato piacere nel soddisfarne i desideri: acquisti di vestiti, guanti, gioielli, oltre che la raffinata biancheria di Frette, che la moglie ordinava direttamente dal catalogo della ditta per sé, per le figlie, per la casa, e per la servitù, alla quale donava generosamente dei pezzi ogni 13 di dicembre in una festa, con cibo, dolci, vinelli, che era il femminile momento di gloria di Rosaria, e anche la sola occasione in cui servi e padroni stavano insieme, in tempi in cui i rapporti tra le classi sociali erano tesi. Occasione nella quale però il barone -come era “scontato” per la sua classe e tutti i rampolli maschi- non smetteva di sentirsi a caccia di fimmine (Le guardavo mentre sorseggiavo un bicchierino di marsala. Tanta carne di fimmina. Tanta allegria. Tanto vuciare e tanta vitalità). Molto più grigio invece il menage familiare del sensibile Cola e dell’insoddisfatta e astiosa Margherita (ho sopportato la donna che mi hai imposto -confida al padre nel colloquio muto con la salma di lui- sono stato un figlio ubbidiente…). I rapporti fra i due coniugi si raffreddano dopo la nascita della terza figlia, cessando presto del tutto, e rimediando Cola con le donnine dell’Albergheria e con amanti della buona società palermitana fino alla scoperta dell’amore per Laura, la donna della mia vita -dice- che amo di un amore che diventa ogni giorno più forte e potente. Nella vita coniugale degli altri due fratelli serpeggia invece la violenza su mogli e figli. Del furbo e ambizioso Filippo, lo ’sperto di famiglia, verso la prima moglie Carmela, e verso la seconda, la bellissima Stefania dagli occhi tristi, costretta a due aborti da Filippo che aveva già due figli maschi di primo letto, come si legge nel diario di Mariolina, sua terza figlia, la quale annota che ci sono voluti tre anni per convincere suo padre e uno stratagemma escogitato da Stefania (la guepière di stecche di balena che ha nascosto la terza gravidanza fino al quarto mese) per farla nascere. E la violenza dell’ignorante e nevrotico Andrea (mai fatto curare dal padre che non accettava le malattie della mente) verso Laura, come sanno bene Cola dai lividi sulle braccia della cognata, Rico, figlio maggiore di Cola, che da bambino vedeva la zia scendere nel loro appartamento con gli occhi gonfi, portandosi dietro i piccoli Antonio e Matilde, e come racconta la “voce” della stessa Laura che parla della bigotteria morbosa di Andrea, delle sue escandescenze al piangere dei figli, di rapporti sessuali espletati da quello con fretta e astio (mi si gettava addosso con furia, cercando il mio corpo con mani che all’improvviso si rivelavano rozze, ignare, cattive), e di sguardi altalenanti fra mansuetudine e aggressività. E Laura invece era per natura gioiosa (gioia che ha fatto emergere Cola, rendendola donna amata e felice), culturalmente aperta, naturalmente elegante, amante dei concerti, del teatro, dei ricevimenti, tutte cose odiate da Andrea, e che la giovane aveva potuto fruire solo grazie agli inviti di Cola e Margherita negli anni in cui andava a ricamare e a prendere il tè dalla cognata amica. Ma l’adulterio (1930) e la sua colpevole gravidanza accrescono l’ostilità di Margherita, e di Andrea (ostilità troppo compressa da questi negli anni fino all’esplosione abnorme dell’omicidio), pur non incrinando ufficialmente “l’unità” familiare grazie al patto proposto dalle Tre Sagge, le due sorelle anziane di Enrico, Sara e Rachele, e la loro cugina Beatrice, definite dal nipote Rico sante protettrici della “famiglia” (sic!). Patto approvato da Enrico, che ha sempre avuto (e conservato anche dopo l’adulterio) stima per la giovane infelice nuora, e accettato dalle due coppie: Carlino, considerato a tutti gli effetti figlio di Andrea, e battezzato e “assistito” come figlioccio da Cola e Margherita, avrebbe saputo la verità solo a 21 anni; Laura al compimento dei tredici anni di Carlino doveva separarsi da Andrea, lasciare il palazzo e andare a vivere in un appartamento affittato per lei da suo suocero, e con un dignitoso appannaggio. Tutti -come si vede- alla fine protagonisti di una commedia/farsa sempre sull’orlo della tragedia, pensa giustamente Laura, ma Cola le spiega, tranquillizzandola, che la politica non è soltanto cosa di corti reali o parlamenti… tiene assieme qualsiasi aggregazione umana, e non c’e nulla di più politico di una famiglia. Nel caso specifico erano da salvaguardare il potere, il prestigio, il nome dei Sorci (e dei futuri “baroni”: Cola e suo figlio Rico) e i loro molti beni: terre, case, una fabbrica del ghiaccio, una conceria, una miniera di zolfo, un mulino. Ma anche proteggere “il più debole”: Carlino.
E Carlino nel silenzio sovrano della famiglia nascerà e crescerà ignaro e felice nel palazzo, sinceramente amato da Rico, dalla cugina Rosarietta, figlia dell’altro dei fratelli Sorci, Ludovico, mutanghero come Andrea e dagli occhi spenti, sposato con l’avida Caterina, ma soprattutto sarà in naturale confidenziale simbiosi, perché coetanei, con l’ingenua e vivace e bionda cugina Mariolina, come lui piena di sogni e attese per l’avvenire. Si troverà però Carlino anche oggetto delle attenzioni interessate di Margherita, che costretta ad accettarlo ne intuisce precocemente l’effeminatezza, e lo fa perciò giocare bambino con i suoi trucchi e profumi, lo imbelletta, gli arriccia i capelli, gli passa il rossetto sulle labbra, il mascara sulle ciglia, gli insegna il ricamo, segnandone il destino futuro, suscitando il rammarico della madre (Lo guardava [Margherita] sculettare via e di certo esultava: il figlio dell’amore fedifrago era già un precoce invertito!), il disagio di Rico e Cola, e il disprezzo di Andrea e del fratellastro Antonio, e i loro frizzi cattivi. Carlino attraversa nel romanzo tutta la sua educazione sentimentale (e parlandone sempre con estrema sincerità con Mariolina, nel loro fanciullesco ciarmuliare, nelle loro passeggiate all’Orto botanico di Palermo o nelle sue lettere dall’America): dai giochi femminili con la zia Margherita (alla quale da giovane sarà però grato per avergli fatto scoprire e accettare senza rimorsi la sua condizione) ai primi approcci con lui ragazzino dell’insegnante privato di matematica all’interesse nei suoi riguardi dell’omosessuale colonnello americano Hill, che Carlino nel 1948 seguirà in America. Da questi si staccherà progressivamente, rifiutandone l’amore geloso e possessivo (gli ho risposto -scrive a Mariolina- che voglio vivergli accanto, da pari, non sotto… non voglio nemmeno essere considerato un oggetto di sua proprietà), l’imposizione dei “festini”, con gli amici del colonnello e relativo uso di marijuana (lasciandomi toccare e toccando… pensi che dovrei fare armi e bagagli e sparire? Sì, forse dovrei.), fuggendo infine da Chicago e aprendosi una sua strada, autonoma e indipendente, a New York, fra spettacoli teatrali con suoi mimi canti balletti, filmetti osé con il nome d’arte “The Baron” e esperienze varie da femminiello un po’ più masculo di quelli di Posillipo, finché fatti i soldi tornerà a Palermo nel 1950 per ritrovare il suo primo amore, Emilio, l’ex compagno di liceo, ma entrambi ormai uomini consapevoli e determinati a vivere il loro rapporto. Anche Mariolina dal ’43, quando era quasi undicenne, fino al ’55 avrà il suo iter di crescita, consegnato alle pagine del suo diario, alcune inviate con dei disegni a Carlino in America. Le prime ingenue fantasie sessuali, stimolate in lei dalla vista casuale del rapporto fra i genitori nudi e dalla storia della madre, vedova di guerra con una esigua pensione, fatta sposare dai suoi nonni con il ricchissimo e anch’esso vedovo Filippo Sorci, che innamoratosi la volle subito perché -le raccontava il padre- gli era apparsa con un corpo da Venere e capelli biondi che parevano seta, fantasie e domande sessuali condivise con Carlino, ma corrette da lui più grandicello di due anni (il seme, le dice, esce dalla pipi [non dalla bocca baciandosi]…per istinto e foga, non soltanto per amore e passione). Poi il passaggio dalle iniziali incerte sensazioni indotte in lei dal primo incontro con l’avvocato americano Peppe Vallo (in realtà fratellastro del padre, ma Mariolina non lo sa) tutto allicchettato, bello e dallo sguardo fiero, all’attrazione crescente per lui confermata dai successivi incontri (nonostante le sembri un corteggiatore troppo vecchio) prima al piano nobile, divenuto dal ’43 Circolo degli Ufficiali americani, e dopo nel loro appartamento (dell’avvocato mi piacciono soprattutto gli occhi… ha una fossetta nel mento… Lui ci sa fare. Lui sa di America…), essendo il padre e Peppe business partners, fino al primo bacio nella sala del cinema Astoria (Altro che Amedeo Nazzari).
Alle vicende intime fin qui schematizzate, che si pongono come una articolata “ritrattistica” di famiglia comprensiva anche del cattivo esito del figlio legittimo di Andrea, Antonio, divenuto truffatore di vedove, si accompagna nel romanzo la descrizione dettagliata di certi aspetti del costume siciliano, nobiliare e non, fra tradizione e inevitabili ammodernamenti e cambiamenti. Il grande pranzo, ad esempio, collettivo “di famiglia” nel 1942, compresi i nuclei familiari al completo delle tre figlie, voluto dal barone morente che spira nella stanza accanto, pranzo con il mastro di casa don Peppe Zuppardo in pompa magna e con i servitori in livrea, e che ha un suo ordine gerarchico di posti; lo scenografico funerale, con le file di orfanelli e orfanelle in preghiera, e che in genere si avvaleva di un carro funebre tirato da una pariglia di cavalli neri; l’addobbo del palazzo con i teli da lutto per tre mesi, le visite da lutto per 14 giorni e il pranzo abbondante del consòlo mandato dai parenti (C’era qualcosa di osceno nella vista di tutti quei timballini, tutte quelle arancine, tutto quello sfincione. Tutti quei dolci); il rituale delle festività principali da trascorrere in campagna: per la famiglia Sorci la Pasqua nella tenuta di Bruccoleri, il Natale in quella di Camagni, “Natali” di cui Mariolina durante la guerra ricorda con nostalgia nel diario la messa di mezzanotte presenziata dalla famiglia, al cui ingresso in chiesa gli zampognari intonavano Tu scendi dalle stelle e Astro del ciel, e il grande presepe allestito nell’androne del palazzo, con l’abituale ascolto della novena e la distribuzione finale ai paesani di mustazzoli e buccellato; le occupazioni quotidiane dei carusi poveri in campagna (alias l’infanzia del bastardo Peppe): prendere l’acqua all’abbeveratoio con l’asino, i bummuli e le quartare di terracotta; raccogliere, oltre le olive da salare rimaste fra le pietre, le verdure spontanee, i capperi e i babbaluci; pulire il pollaio e cercare le uova nella paglia; togliere il mallo a noci, mandorle e pistacchi per farli seccare. O ancora, il giorno della famiata, ogni due settimane, quando le donne impastavano e cuocevano il pane nello stanzone del forno, e per il baglio si sentiva il profumo dei pani appena formati, e messi a lievitare, passare dall’acido al dolciastro. Ma anche l’arrivo e l’uso entusiasta nelle case di ricchi e nobili dei prodotti industriali del “continente”, che facevano già nei primissimi anni del Novecento della Sicilia una “colonia”: oltre le telerie di Frette, i prodotti alimentari e i vini della Latteria Ignazio Grun, dei Fratelli Buitoni, dei Fratelli Burgio Nobili, fra cui il Martini Rosso di Torino; le caramelle Fantasia di Varese; il materiale elettrico della ditta milanese Koelliker, e naturalmente la radio, i macchinari agricoli, la macchina da scrivere, la cabina del telefono, e infine nel 1954 la televisione, che Andrea però andrà a vedere a volte la sera in casa di Margherita e Cola al Cassaro. Nella nuova Palermo dei condomini postguerra con tanti piani, tante famiglie, tanti locatari, palazzo Sorci infatti, dalla manutenzione ormai troppo costosa, spoglio di suppellettili finite dagli antiquari e invaso dalla polvere, si è svuotato da anni dei suoi proprietari: vi vaga di notte, accudito dalla sventurata Ersilia, solo Andrea, con addosso la vestaglia del padre (e il suo inquieto fantasma dentro l’anima). Venduta dall’affarista Filippo e dal malinconico Cola pure la tenuta di Bruccoleri, con l’elegante casina settecentesca a ferro di cavallo che guardava la valle, e chiuse anche le miniere. E non mancano, all’intento di ambientazione storica dell’autrice, l’evolvere della guerra e le trasformazioni della politica, che coinvolgono più o meno profondamente alcuni membri della famiglia. Nel ’42 le leggi razziali e le vittorie dell’Asse preoccupano la figlia di Maria Teresa e suo marito di sangue ebreo anche perché sono entrambi decisamente antifascisti e sentono doppiamente in pericolo i propri figli; lo stesso Cola non ha simpatia per il regime e considera una ingiustizia la discriminazione degli ebrei e la loro esclusione da ogni settore della vita civile; Leonardo, figlio di Lia, simpatizza per il movimento indipendentista siciliano, vedendolo come possibile riscatto delle classi inferiori, e si ritroverà perciò comunista infelice dopo Portella della Ginestra; Rico, che si vergogna del fascismo e di Mussolini, ma serve la Patria come ufficiale dell’esercito regio, gravemente ferito in un bombardamento a Messina, è costretto a lasciare la carriera militare. La guerra porta il mercato nero fin nei magazzini di palazzo Sorci, organizzatovi dal portiere don Totò, da Filippo e dalla cognata Caterina all’insaputa di Cola. Determina inoltre dopo l’occupazione americana della città, poiché Margherita non è voluta andare ad abitare al piano nobile, l’affitto di questo come Circolo degli Ufficiali americani, circolo frequentato da aristocratici, professionisti, docenti universitari palermitani, preti, ma anche da mafiosi in rapporti con Peppe Vallo, emigrato ragazzo in America, divenuto ricco rappresentante di macchinari agricoli e poi avvocato di successo a Palermo, e spia dei servizi segreti statunitensi. Peppe tornato in Sicilia per pustiare il padre, non ha mai voluto conoscerlo faccia a faccia per l’odio e lo schifo rimastigli dentro per un calcio avuto da lui a cinque anni che gli fece quasi scafazzare il cranio contro il muro. Ha sempre saputo tutto però, grazie ai clienti del suo studio, delle vicende dei suoi fratellastri ed è stato da tempo in affari con Filippo, con il quale si lancerà, piano Marshall consentendolo, anche nel business edilizio della “ricostruzione” in una Sicilia nella quale i Sorci della vecchia generazione sono allineati con la Democrazia cristiana, ma -dice Leonardo- i principi di don Sturzo sono rispettati a parole, in realtà sono morti e sepolti, e dove sia Leonardo che Stefano, figlio di Anna, (per Carlino entrambi della razza dei combattenti) segnalano la compromissione di una certa chiesa con la mafia. Tuttavia il vero filo rosso del romanzo non sono i mutamenti storico-politici e la ventata di modernità portata, di contro il proverbiale fatalismo, indolenza, rassegnazione siciliani, dall’individualismo pragmatico e creativo americano (Allora lei vedrà un nuovo Carlino, uomo moderno padrone del suo destino- dice Peppe a Laura per invogliarla a lasciare partire il figlio, e altrove di sé aveva già affermato: Da cittadino americano credo che un uomo valga per quello che è, e che ha saputo costruire, e per come si comporta, non per le imprese compiute dai suoi antenati o per il suo nome. Io credo in me. E basta), una modernità non scevra di contraddizioni, dato il palese razzismo negli Stati Uniti di quegli anni ‘40/’50 (Stati Uniti degli enormi Stores e delle immense distese di monoculture) sia verso i negri sia verso gli indiani considerati inferiori. La focalizzazione in Piano nobile è sulle persone e sulle loro relazioni, e in negativo (l’uso delle fimmine sempre e solo per tornaconto e piacere; una “paternità” carente che ha -come il barone Enrico giudica di sé- solo sommato, assemblato, senza scandagliare, senza governo, senza tenere i fili a differenza dell’oprante gentile/Padre gentile), e in positiva alternativa: la verità/coraggio cioè dei sentimenti oltre ogni avversità, imposizione, conformismo, oltre la prassi dell’impedire, nascondere, confondere, tipica delle famiglie tradizionali. L’amore dunque tenero e fedele di Laura per Cola dalla sera del colloquio nel pistacchieto agli incontri furtivi nel gazebo in terrazza all’appartamento di via Bandiera; la storia tragica di Rosarietta (Dolce e leale, fin troppo) e Pietro, precocemente morta lei, suicida per disperazione lui, sempre innamoratissimi entrambi, nonostante pare l’impotenza di lui; l’amore tenace, e paziente nell’attesa, di Rico per Rita Sala, che lo “scopre” in ritardo (ed era come se mi vedesse per la prima volta) e lo ricambia finalmente, previo concordato elenco però di suoi diritti/autonomie, come aveva fatto in passato la madre Maria con Pietro Sala in Caffè amaro. E infine, l’aprirsi all’amore della giovane Mariolina per il sessantenne Peppe, quasi a superare il disagio per il padre biologico Filippo dalle molte falle, fra cui anche inadempienze contrattuali, falso in atto pubblico, furto, usucapione, bustarelle e ricattucci vari. E quello trasgressivo di Carlino per Emilio, che Laura consacra ufficialmente, mostrandosi con i due giovani bellissimi al Teatro Massimo in un palco soltanto per loro tre, bellissima anche lei nell’abito da sera in velluto di seta verde scuro con parure di coralli regalatigli entrambi da Cola. A riassumerne il coraggio di una vita di fronte a tutti (dall’abbandono del padre sperperatore fuggito in Brasile al matrimonio infelice all’adulterio) basta la sua stessa autodefinizione: Sono sola, sono donna, sono madre. Laura morirà di tumore nel 1954. Quanto al “messaggio” del romanzo, dove si incrociano -come abbiamo visto- tante vite diverse, e diverse generazioni, facendo riandare il pensiero ai “Vicerè” di De Roberto e al “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, ma che è, e vuole essere, soprattutto uno spaccato di “anime”, credo possa riassumersi con le parole di Rico marito appagato accanto alla sua Rita: La vita è più larga che lunga, bisogna darle spazio e non aver paura. Mai.