Tommaso Romano, "Alchimia della Polvere. Aforisminattuali con Autoritratto feroce" (Ed. All’Insegna dell’Ippogrifo) - di Carmelo Muscato

Ci sono i libri. E le recensioni. A parte pochi casi particolari, per lo più si recensisce un libro per decantarne il valore, così da aumentarne le vendite. Non è questo il caso per un motivo semplice: il libro di cui stiamo parlando non ha un prezzo di copertina e non è in vendita. Nell’ultima pagina si legge: «Questo libro in edizione non venale […] è stato stampato il 22 Aprile 2019 in 999 copie». E nella postilla: «Il libro è, per mia volontà, un omaggio. Chi leggerà avrà modo di capire perché lo riceve» (p. 15). Quanto segue, più che una recensione, intende essere una riflessione, un proseguimento del dialogo avviato dall’Autore. E siccome il libro nasce da un’esigenza di chiarificazione (p. 10), a suo modo questa riflessione intende contribuire alla stessa finalità.
Alchimia della polvere è un piccolo libro di aforismi e pensieri vari, seguiti da un Autoritratto feroce. Un libro probabilmente non tra i più importanti della considerevole mole di scritti filosofici e letterari dell’Autore. E tuttavia nell’ottica del “Mosaicosmo” – espressione con cui Tommaso Romano definisce la propria opera – ogni “pezzo” è insostituibile come le tessere di un puzzle, e può essere rivelativo del tutto. Comunque sia, si tratta di un libro prezioso, come è prezioso ogni scritto che consente al lettore di fermarsi, “astrarsi” da ciò che lo circonda e stare in compagnia di se stesso. Esso in ogni caso ha il merito specifico, che è appunto quello di fare chiarezza intorno all’Autore e alla sua opera.
Innanzitutto possiamo chiederci: parlando di chiarificazione, l’Autore intende fare chiarezza con se stesso? o piuttosto si propone di fare chiarezza a beneficio del lettore che, magari a causa di qualche pregiudizio, potrebbe essere indotto a pensare ciò che in effetti non è? Mi sembra che non ci sia una netta linea di divisione tra queste due eventualità: i due sensi della chiarificazione tendono a intrecciarsi. È bensì vero che c’è una priorità, direi quasi ontologica: centrale rimane la chiarezza che l’Autore si propone di realizzare con se stesso («Chi più ci conosce intimamente e sa: noi stessi», p. 21). E tuttavia è abbastanza evidente che Tommaso Romano è alla ricerca della “parola veritativa”: interroga se stesso e gli altri quasi con equanimità. Ciò che lo spinge a scrivere e a parlare è la fiducia che la parola possa diventare svelamento del sé, ed è secondario se il merito di tale svelamento di volta in volta sia da ascriversi a se stesso o all’interlocutore: «La terapia della parola veritativa allevia, anche chi ascolta. Questa è la profondità» (p. 40).
Tommaso Romano è certamente un personaggio pubblico: la sua opera di scrittore come il suo impegno politico sono noti. A scanso di equivoci, il mio intento non è celebrativo. Anche perché so che, se così fosse, non mi accattiverei per questo le sue simpatie. Limitiamoci a considerare il mero fatto esteriore: nel campo della politica e soprattutto della cultura, Romano ha conseguito un discreto successo. Eppure ciò che fa di lui una figura interessante, direi un fenomeno straordinario, non si misura con il metro del successo. Possono esserci personaggi certamente più famosi e – perché no? – più meritevoli del Nostro. Ma c’è in lui qualcosa di unico, qualcosa che fa sì, per usare una sua stessa espressione, che Tommaso Romano sia paragonabile solo a se stesso (Nel vortice. Singolarità ed élite, CO.S.MOS., San Cipirrello (PA), p. 104). Per comprendere ciò che lo rende straordinario, è bene riflettere sul modo con cui egli si rapporta agli altri.
È impressionante il numero di rapporti che egli intrattiene con personalità di spicco del mondo della cultura, della politica, dell’arte: si va da esponenti di casate reali ad alte cariche dello Stato, passando per figure intellettuali di profilo internazionale e persino grandi maestri della Tradizione iniziatica. Leggi i suoi testi, visiti il suo studio, vedi – navigando in rete – le attività che organizza e rimani stupito dal numero di personalità a vario titolo coinvolte. Ma soprattutto ti colpisce la varietà di tali personalità: di estrazione, di orientamenti, di sensibilità. A tutta prima, considerata l’importanza delle sue amicizie insieme alla sua dichiarata sensibilità elitaria, di cui sono chiari segni, ad esempio, il suo libro dal sapore aristocratico, Elogio della distinzione (Thule, Palermo 2016) o il social magazine che ha chiamato “Culturelite”, è facile farsi un’immagine dell’Autore come di persona snob e altezzosa. Immagine che sembra trovare conferma anche nel libro di cui stiamo parlando (…i moralisti da strapazzo predicano uguaglianza, p. 89; …la falsa logica egualitaria, p. 91; il gregge belante che applaude tutto e tutti… p. 46, l’insopportabile egualitaria “libertà” di espressione, ibidem; evito di salutare chi, nei posti di lavoro compresi, non conoscendomi, mi dà subito del tu, pp. 95-96). Eppure questa immagine quanto meno ha bisogno di essere precisata. Questo libro ci spiega la tendenza di Tommaso Romano a selezionare i rapporti, facendone a volte abbastanza prosaicamente una questione di tempo: «Amo la mia e l’altrui riservatezza, non voglio raccontare al primo incontrato i fatti miei e non voglio stare a sentire i suoi. Non gli interessano probabilmente i miei e non mi interessano certamente i suoi, anche per economia di tempo» (p. 85); «… Eviteremo tempo reciproco da disperdere inutilmente» (p. 92). Da certi rapporti superficiali è meglio distaccarsi definitivamente, «senza chiasso e senza rimpianti, nella consapevolezza che per loro ho soltanto perso tempo e che tutto questo non mi è più consentito farlo» (p. 76).
Tuttavia occorre pure notare che tale sensibilità elitaria è declinata in maniera insolita. Il criterio della “elezione” di questa cerchia ristretta, che poi tanto ristretta non è, non è il prestigio sociale o politico. E non è nemmeno l’accordo di vedute. Per questo poi non è raro che si riveli generoso di tempo e di apprezzamenti con chi non se l’aspetta, per cui capita che alcuni si stupiscano sentendosi da lui sopravvalutati (p. 15). Ma sopravvalutati o sottovalutati in che senso? Dal suo punto di vista, è solo la giusta valutazione: «Le persone vanno sempre valutate una ad una. Possono sorprenderti, a volte. Ricredersi non è una fragile incoerenza» (71). Come dire: la valutazione deve prescindere dalle etichette e da considerazioni esteriori, e persino dalle proprie precedenti opinioni. E allora capisci che il suo metro di giudizio è altro. Essenziale è il grado di autenticità che un rapporto può offrire. Laddove autenticità non significa condivisione di fatti privati ma svelamento del sé (con Karl Kraus gli piace ripetere: «Io evito di impicciarmi dei miei fatti privati», p. 85).
Tommaso Romano non ama i sentimentalismi, al punto da ostentare se non proprio una freddezza, una essenzialità estrema nella comunicazione. Eppure a chi sa recepirla, la sua parola – anche in una telefonata o in un saluto per strada – è molta comunicativa proprio per questa sua essenzialità. In un certo senso la comunicazione di Tommaso Romano oscilla tra la parola e il silenzio, così come la sua disposizione verso gli altri oscilla tra la “scelta compagnia” e la propensione alla solitudine. Per esempio: «Visito con la dovuta parsimonia mostre e monumenti da solo, senza guide improvvise ed improvvisate, semmai in compagnia di chi scelgo io». Oppure: la natura mi intriga, mi coinvolge, poco importa se mare o boschi, montagne o pianure: ciò che importa è lo stupore che essa è capace di produrre. Esperienza che va fruita… «in scelta compagnia o in non sempre cercata solitudine» (pp. 84-85). Come dire, a volte la solitudine non è una scelta ma una necessità. O ancora questo pensiero, che vale la pena di rileggere per esteso: «Stare a teatro da soli in un palco di un sabato pomeriggio per gustarsi in silenzio un concerto sinfonico o jazz, offre riparo temporaneo all’aggressione esterna dell’obbligata frenesia che, o ti lusinga o ti confonde o ti strapazza. Nel tempo breve delle esecuzioni, può risuonare un inusitato risveglio, uno stato spirituale riconciliato ai sensi, un silenzio interiore, foriero di attenzione come catarsi, a cellulare spento, nello spazio di un rettangolo pompeiano e sentendosi finalmente al di fuori della mischia, in un clima e tepore d’anima che direzione e orchestrazione vivamente, e non raramente, propongono. Un concerto è come l’ora d’aria, un contorno essenziale dalla prigionia dell’infausto, l’isolamento lenito come solitudine lenta e ricompresa come forza. Il ringraziamento va, infine, a chi ha mancato l’invito» (p. 48).
Risuona ancora la stessa nota: conta di andare al concerto in compagnia “scelta”, ma di fronte al silenzio interiore, ricercato come l’ora d’aria, non dispiace nemmeno che l’invito non sia stato raccolto. Arrivando persino a provare gratitudine per chi ha mancato quell’invito: pur inconsapevole, l’invitato ha favorito l’esperienza di sé con stesso.
È dunque questa l’ottica in cui va letta la sua sensibilità elitaria, non la supponenza o la vanità, ma l’aspirazione all’autenticità, allo svelamento del sé che solo certi rapporti possono offrire. Niente a che vedere con la logica elitaria nel senso esteriore. Sempre in questo senso va letto l’aggettivo “feroce” con cui ha intitolato il suo autoritratto: «senza compassione verso me stesso» non significa con autofustigazione, ma più semplicemente “senza veli edulcoranti”. E se ci sono aspetti da rettificare, come quelli dell’autocompiacimento intellettuale, Tommaso Romano lo fa con lucidità («Ne sono protagonista e vittima, malgrado tutti i proponimenti, anch’io», p. 90). Perché «Non bisogna porsi il problema di essere esemplari o esempi, quanto il rispondere alla propria coscienza» (p. 26). E ancora: «Il tribunale della propria coscienza non è infallibile, ma considera, prova o valuta con rara efficacia e predisposizione al vero» (pp. 31-32).
Questa è la disposizione, potremmo dire, la posizione coscienziale da cui Tommaso Romano scrive, agisce e si rapporta. Ma qual è il contenuto dei pensieri? Quali i suoi orientamenti? A questo proposito il libro offre una serie di interessanti spunti di riflessioni. Come quelli intorno alla scuola, riguardo alla quale spazia da idee più comuni (l’uccisione dell’autentica cultura della formazione nella scuola dei progetti), a quelle più inattuali sullo studio delle lingue (obbligatorie il latino e il greco insieme all’ebraico; solo facoltativo l’inglese), all’importanza dell’ora di religione che però ha bisogno di essere «radicalmente rivisitata», per finire – udite udite! – all’abolizione del valore legale del titolo di studio: proposta scandalosa eppure interessantissima (pp. 87-88). Ancora, in economia, contesta «la dittatura infame del capitalismo, del mondialismo, la logica livellante del codice a barre», ma parimenti detesta il comunismo e le dittature “democratiche”, che con la loro falsa logica egualitaria in realtà sono foriere di sfruttamento (p. 91). Altri interessanti pensieri riguardano l’arte e la religione.
Ma affinché non si pensi che il libro si risolva in un elenco di opinioni su temi sparsi, occorre notare che tutte queste riflessioni ruotano attorno a un centro. E quale sia questo centro, lo dice esplicitamente l’Autore quando, avvertendo che «qualche opinione espressa sembrerà non allinearsi a testi miei del passato» (p. 12), in maniera lapidaria dichiara: «Resto e mi sento nella Tradizione». Infatti la Tradizione «non imbalsama niente, consegna semmai e fortifica le radici che fanno svettare le cime verso l’infinito, in modo sempre nuovo e differente» (p. 13). Dunque eventuali dissonanze con opinioni espresse in passato, più che clamorose contraddizioni, riguardano semmai una inevitabile maturazione, anche uno smussamento di posizioni, ma l’essenziale non cambia. In questo modo Tommaso Romano, oltre a comunicarci il cuore pulsante del suo pensiero, ci spiega anche che cos’è la Tradizione, scritta con la maiuscola. Qualche lettore distratto potrebbe pensare al tradizionalismo, alla nostalgia dei tempi andati e non più attuali. È vero, c’è una inattualità chiara, a volte ostentata. Ma l’inattualità della Tradizione non ha a che fare tanto con il passato storico quanto con il piano metastorico, ossia con l’essenza metafisica di ciò che è e non muta.
L’essere e il divenire, la costante e il transeunte: ecco il cuore del pensiero tradizionale, di cui Romano rivendica l’appartenenza: «nessuno può imporci di non sentirci inattuali rispetto al contesto e allo spirito decaduto in cui siamo tenuti a vivere. La dimensione profonda dell’inattualità critica, lungi dal pretendere di avere un potere di cambiamento dei contesti, potrà per farci comprendere meglio il senso del transitorio, come modernariato all’asta al peggior offerente» (p. 34).
Dunque il tempo come immagine mobile dell’eternità, per dirla con Platone. Questa non è nostalgia del passato, è la consapevolezza che sarebbe arrogante il presente che pretende di avere valore per se stesso, anziché come rivelazione dell’eternità: «bisognerebbe […] sfidare il presente, che è già memoria fatta di passato e di eventuale premessa di un futuro; per ridare un senso allo scorrere del tempo, alle speranze sopite, annegate nelle immancabili illusioni e nelle nuove vicende che pure, senza calcolo o ragione, si manifesteranno. A volte svelando in noi lo stupore inatteso che persino il viandante scettico non potrà mancare di annunciare come meraviglia. Sarà un attimo, oppure un secolo, ma tale miracolo avviene e seppur raramente si manifesta» (p. 20).
Tommaso Romano è consapevole di non stare al passo con i tempi, di apparire demodé. Ma ciò non lo preoccupa affatto. Anzi è per lui un vanto («Resisto alle molestie compulsive di WhatsApp e mi consolo con me stesso quando lo comunico a chi, francamente stupito, me ne decanta le opportune, immancabili meraviglie», pp. 85-86). Ma il suo non stare al passo con i tempi non nasce da una difficoltà bensì da una scelta consapevole. Chi lo conosce, per esempio, sa che poi egli ha una conoscenza di internet e del computer superiore alla media.
Si presenta dunque uno strano paradosso, quel personaggio singolare, “paragonabile solo a se stesso”, che abbiamo descritto all’inizio, risulta ora una figura tradizionale. Ma è un paradosso solo apparente, perché la Tradizione, come «non imbalsama niente» ed è fonte di modi sempre nuovi e differenti, allo stesso modo essa è fonte di vera originalità e singolarità. Infatti è solo attingendo a ciò che non muta, che si svela il proprio sé autentico: «La non curanza del frivolo è parte fondante della necessaria cura di sé» (p. 37).
D’altra parte ciò che non muta, l’essenza metafisica del divenire, non è qualcosa di cui ci si può appropriare o di cui si può vantare di possedere. Questa è l’arroganza di credersi «la copia meglio riuscita del verbo incarnato» (p. 60). Quindi è proprio nella Tradizione che si trova un riparo dal settarismo, dall’esclusivismo e dal fanatismo: «Sono cristiano perché Cristo è il Dio in cui credo e perché Lui crede in me […] non ho, peraltro, mai praticato il clericalismo e non sopporto le marmellate ecumeniche, ma leggo e studio da sempre sia i canonici sia gli apocrifi e non disdegno alcuna vera Tradizione, che è legame ed autentica continuità, purché non sia spuria e sovvertitrice» (pp. 89-90).
Porsi nella Tradizione significa porsi oltre l’illusione dell’io, per svelare l’anima oltre le apparenze dell’individualità. Si comprende quindi in che senso la sensibilità elitaria di Romano è cosa ben diversa dall’elitismo volgarmente inteso. Essa richiede e produce umiltà. L’umiltà che scaturisce dalla consapevolezza che ciò che conta realmente, l’essenza metafisica, è sempre al di là di ogni possibile espressione, spiegazione e rappresentazione. Da qui l’importanza del mistero, del sacro, del silenzio: «non tutto può e deve svelarsi del sé. L’indicibile vive, finché viviamo» (p. 30); «servirebbero umili apostoli del Mistero per testimoniare il sacro e per salvare l’anima» (pp. 55-56); «Nei silenzi staziona la profondità indicibile» (p. 38).
Il titolo, Alchimia della polvere, riassume tutto ciò. Perché per Tommaso Romano la cultura non è erudizione ma il coltivarsi per la fioritura di sé (p. 60). Infatti l’alchimia è l’arte di trasformare il piombo in oro, «un processo di trasmutazione interiore», la cui metà è «l’oro della conoscenza e non quello della cupidigia o delle false vanità» (p. 104). La polvere poi è, a un tempo, il fastidioso pulviscolo atmosferico, metafora di impurità che ci circondano, ma anche la nobile polvere stellare a cui tendono gli alchimisti. Quindi Alchimia della polvere è un proposito, un auspicio che l’Autore rivolge a se stesso e al lettore, di ascendere dalla polvere terrena a quella delle stelle «con lievità e ironia» (ibidem). Perché “polvere” è anche simbolo di leggerezza. E il libro è un dono fatto con leggerezza: «Nulla chiedo, sinceramente, e nulla mi aspetto. Neppure la cordiale benevolenza o le congratulazioni ipocrite o frutto di “buona” educazione, che non si negherebbero, in fondo, neppure a me» (p. 14). E chi vuole, si senta libero di destinare il libro alla raccolta differenziata: «Non mi turberò di certo. Mi auguro il contrario, ma non mi aspetto una aprioristica conservazione” (ibidem).
Né bisogna pensare che siano parole di circostanza: chi lo conosce, sa che quanto scrive Tommaso Romano va preso sul serio. Anche per questo il libro è bello da leggere, perché consente di osservare – spiegati nella pagina – alcuni tratti della personalità, che nelle pieghe della vita l’Autore lascia intravedere con discrezione a chi ha la fortuna di frequentarlo. Solo per fare un esempio, leggere che lo soddisfa la sua vecchia automobile e non sente il bisogno di averne una migliore, che guida poco e vorrebbe guidare ancora meno, anche per evitare le multe seriali, mi ha fatto tornare alla mente la compostezza con cui un giorno l’ho visto raccogliere una multa dal parabrezza: come se al bar gli avessero detto che non avevano acqua gassata ma solo naturale. È chiaro, per continuare il parallelismo, che avrebbe preferito non ricevere la multa come sarebbe più contento se la propria opera venisse apprezzata, ma non ne fa un dramma: non lo turba né la multa né l’eventualità che la propria opera venga cestinata.
In chiusura opportunamente il libro richiama le parole di Tommaso d’Aquino, il quale alla fine Summa dichiara che davanti al mistero di Dio, tutto ciò che aveva scritto era paglia (p. 105). Anche per questo è un libro riuscito: pensato per essere un dono, regala la leggerezza e la consapevolezza che – per dirla con l’Advaita Vedanta – ciò che conta “non è questo, non è questo” perché “Tu sei Quello”: non ci sono parole, dottrine o libri, e dunque nemmeno quello che ha egli ha finito di scrivere e il lettore ha finito di leggere, che abbiano veramente valore di fronte al tuo Sé, ciò che veramente tu sei.
 
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