Serena Lao, "Vaneddi" (Ed. Arianna)

di Dorothea Matranga

 

 

Leggere "Vaneddi" di Serena Lao è come aprire una finestra sul passato, assaporare una boccata d'aria buona, aria salubre che ci fa respirare a pieni polmoni, ci restituisce Palermo e la sua storia, la Ballarò degli anni 50. Solo lei può, a pieno titolo, portarci in un mondo reale, che ha quasi del surreale, a paragone con i tempi attuali e moderni, perché lei è nata nei vicoli di Ballarò, vicoli che hanno assorbito il suo respiro, e lei ha respirato quei vicoli. Un modernismo che, a nostro parere, ha perso molto della vera umanità, che respira ancora tra le pagine di questo piccolo volume, le cui dimensioni diminuiscono per ingigantire e impreziosire, non per minimizzare o riassumere. Un piccolo libro, "Vaneddi", edizione Arianna 2016, con pregiata prefazione di Tommaso Romano, tra le cui pagine vive ancora Ballarò con i suoi pregi e difetti, con le sue stradine "vaneddi", le persone, il vocio dei bambini e le grida degli "abbanniatura", il sapore buono della semplicità e della fragranza dei rapporti umani, che a quel tempo erano ancora contatti diretti, con tutti i pro e i contro di quella vicinanza, da cui potevano scaturire alleanze o separazioni, ma pur sempre specchio di una umanità con le sue contraddizioni veraci e piene di soffio d'anima. Una bella immagine di copertina ci offre l'autrice, Serena Lao, ancora bambina, sorridente, quadro rappresentativo di una fanciullezza vissuta tra i vicoli di Ballarò, fanciullezza protesa nella memoria all'infinito. Una bimba che vive ancora in quel tempo dorato, e torna a camminare, a sognare, a calpestare le strade, a parlare, a farci assaporare quel clima, le storie quotidiane con dovizia di particolari, mostrandoci le proprie emozioni, le sue sensazioni come il timore, la paura, la felicità, l'ebbrezza, la timidezza, a volte anche la noia. Rivive con lucidità mnemonica superlativa, attimo per attimo, quel tempo che è rimasto nella sua memoria, eterno ristagno di valori e benessere, per quella sensibilità d'animo di cui lei abbonda, che la induce ad emozionarsi ed emozionare, riuscendo a coinvolgere il lettore in un battito di cuori, che incanta con il suo magistrale modo di condurre la narrazione, prendendoci, lei bambina, per mano e riportandoci nel passato, un passato che non può e non deve scomparire. "Vaneddi" è sottotitolato in copertina "memorie ed emozioni" della mia Ballarò. Evidenziamo dal punto di vista critico il possessivo aggettivante " mia", come a voler sottolineare il rapporto intimistico e privato tra lei, l'autrice, e la sua Ballarò. Un rapporto affettivo, caro, prezioso, unico e raro tra i luoghi e lei stessa, Serena Lao. Osmosi e personificazione di un luogo, ma anche un rapporto biunivoco nel doppio senso direzionale. Lei, autrice si fa luogo. Una compenetrazione di lei nei luoghi, e dei luoghi in lei. Serena Lao è Ballarò, e senza di lei, Ballarò non può essere quella che è stata. Questo particolarissimo modo di vivere i luoghi a lei cari, questo farne parte in modo così speciale, ergendo a tempio, Ballarò pur nella sua accezione popolare della Palermo antica, e lei stessa diventare artista di valore monumentale, conduce inevitabilmente all'espansione corale di un rapporto intimistico che esonda e straripa, coinvolge e innamora, per una miriade di motivi che cercheremo di mettere in luce e palesare, esaminando anche le ombre, che della luce sono forse l'aspetto del silenzio, che ha anch'esso il suo valore, come emerge dalle stradine, "vaneddi" che non hanno voce, ma parlano, e sono spettatrici dell'anima di Ballarò, della sua vita intrinseca. Scrive Tommaso Romano: "ognuno di noi ricorda una stagione irripetibile qual è la giovinezza, non è solo un'operazione nostalgica, è una necessità che urge dentro". Quanta verità in questa affermazione! Testimonianze a riguardo provengono dai grandi della letteratura, da Leopardi e Pascoli. Leopardiana e pascoliana necessità questa visione oggettivante, nel senso concreto del termine, secondo  la cui direzione, il bisogno dell'anima deve divenire concretezza di manifestazione, ma lo è anche in senso oggettivo, per il bisogno non solo soggettivo di custodire i ricordi, le radici, la memoria, per un iter singolo e singolare, ma in senso anche più generale, come bisogno di tutti gli uomini di eternare la giovinezza e il suo tempo dorato, dove ha preso forma il carattere e la personalità di ognuno di noi, per poter ritrovare nella pienezza del gusto antico, sé stessi, la propria essenza originaria. Serena Lao è un'artista a tutto tondo: cantante, ha portato la sua voce e il suo personaggio, nella sua unicità, nei palcoscenici di tutta Italia. Cantautrice, poetessa, scrittrice, attrice, autrice di testi e opere di teatro musicale. Studiosa ricercatrice di tutto ciò che concerne le tradizioni popolari. Sotto questo aspetto "Vaneddi" è un'opera sublime, dal grande valore storico, per l'impianto narrativo che procede dall'analisi capillare dei luoghi e delle tradizioni, per il registro linguistico che mette in bella mostra il dialetto siciliano, con alcuni termini, oggi poco usati, che abbelliscono il testo, conferendogli, nella sovrapposizione tra lingua e personaggi, quella interezza di quadro antico, nella pienezza del ritrovamento del sapore integro del tempo andato. L'alternanza del doppio registro linguistico, la lingua italiana e la lingua dialettale siciliana, camilleriana sembianza, conferisce a "Vaneddi" il cuore della Palermo che fu. È codominio esemplare di un dominio che dovrebbe prevalere per bellezza, che invece è spento e rifulge di luce non propria, ombra del suo glorioso, indimenticabile passato storico. Ambientato nel periodo del dopoguerra, il volume "Vaneddi", vive l'alternanza narrativa temporale tra ieri e oggi. Non c'è solo questo nell'opera. L'autrice è al tempo stesso, voce narrante e personaggio.  Delinea, da un lato, l'itinerario personale e privato, ma al tempo stesso è voce narrante che si fa portatrice di tutta l'umanità che popola "Vaneddi". Un modo qualificatissimo, molto appropriato di portare avanti il filo conduttore, con grande capacità espressiva. Una forza trainante che trascina senza mai stancare, o sfocare le immagini, attirando il lettore con la sua abilità tecnica. Chi legge rimane rapito, non per la nostalgica emozione, ma l'interesse che lo cattura e trattiene. Si attua una triplice intesa tra autrice-luoghi di Ballarò-lettore. Una specie di interdipendenza narrativa, che svetta per bellezza d'intenti e d'intreccio. Il volume non tralascia nulla della Ballarò. Dirige la navigazione in modo attento e rigoroso, ci mostra le immagini, indica le vie e i loro nomi, i luoghi. Tutto con grande chiarezza e precisione. L'autrice si esprime così: "l'igiene non era il massimo, ma quanta poesia c'era dentro quei ruvidi sacchi di tela grezza dove facevano bella nostra i legumi". Ecco che tra le stradine riprendono vita i fruttivendoli, l'alivaru. "U pignatuni ca meusa" e "u pignatuni ra quarumi" diventano quasi dei monumenti. Cibo di strada lo chiamiamo oggi, ma ieri era il cibo quotidiano, da consumare in allegria tra le stradine, motivo di aggregazione e di condivisione del cibo tipico di Palermo. Ballarò, nel cuore dell'antichissimo quartiere dell'Albergheria, era un quartiere popolare. Ma è tra la gente del popolo che si respira la vera essenza della terra, senza velature e senza false coperture. Serena Lao riesce a restituirci non solo i sapori, ci fa sentire anche gli odori. Attraverso i suoi sensi, i suoi occhi ci dà il senso pieno dei ricordi. Nel suo, lento, cadenzato raccontare i suoi ricordi di bambini giocosi, o della gente, che con pochi spiccioli si poteva rinfrescare, o soddisfare il palato, ci mette con le spalle al muro. Porta a fare riflessioni sui tempi di oggi, dove non ci si diverte più con poco, e se non si spendono grosse cifre, non si apprezza la vita. Quando l'autrice ci parla del famoso "capannuni", di forma rettangolare, col tetto di lamiera, dove i pescivendoli pulivano il pesce, e ci dice che "senza u capannuni Ballarò ha perso parte del suo fascino e della sua storia" ci fa capire proprio quanto abbiamo perso. Dopo un lungo elenco di strade e stradine, l'autrice, sempre con grande dimestichezza e amorevolezza, ci mostra i personaggi di "vaneddi" come "u Sulinu" che andava "pi strati e vaneddi" in cerca del suo amato cartone. Il termine amato ci fa riflettere come Sulinu viveva di cartone. Oggi questa frase ci dà ilarità, ma ai tempi in cui era ambientato "vaneddi" il cartone era la reggia e il mondo di Sulinu, e c'era ben poco da ridere. A seguire, oltre a Sulinu, c'era u carbunaru, a signora Rusina, Tinuzza a immuruta. Non manca in "vaneddi" il ricordo delle ricorrenze: "la festa dei morti" quando nessuno parlava ancora di Babbo Natale che portava i doni. L'autrice racconta le sue sensazioni, la sua ansia nell'attesa di ricevere i regali, le sue palpitazioni e il rito "ru cannistru" dove, in bella mostra, brillava di luci e colori la "marturana" di pasta reale, con al centro, maestosa, come Serena Lao la definisce, la "pupaccena", una dolce scultura di dama, o cavaliere, o paladino. Del Festino, l'autrice ha pochi ricordi, perché lei afferma, erano feste per gli adulti. Anche nel ricordo del Festino, festa in onore della "santuzza", ovvero Santa Rosalia, patrona di Palermo, è tutto un elenco particolareggiato di cibi consueti, e consuetudini passate alla storia. Ci sono ricordi anche sul Natale, dei giorni che precedevano il Natale, a partire dalla festività di Santa Lucia, di Pasqua, di Capodanno e altre feste rionali, del carnevale. Ricordi anche sulle usanze popolari e cerimonie del tempo antico, come il fidanzamento e il matrimonio che riprendono un cerimoniale ormai in disuso. Antiche manifestazioni sulle quali c'è tanto da ridire. L'autrice esamina anche questi aspetti con dovizia di particolari, utilizza colorite espressioni del linguaggio popolare del quotidiano. Colloqui che fanno scaturire una sana ironia per certe usanze davvero senza senso, ma che a quei tempi erano luoghi comuni dei rioni popolari di Palermo. Come la pratica di mostrare all'esterno delle abitazioni, le lenzuola imbrattate di sangue per provare la verginità della sposina. Prova obbligatoria, ma a nostro parere, priva di senso. Anche sotto questo aspetto la voce narrante dell'autrice interviene in prima persona, a indicare il suo dissenso. Oppure la consuetudine dei fidanzati di uscire "scortati", così si esprime Serena Lao, dai genitori a m di processione, oppure sorvegliati da un fratello o sorella, la quale si rivelava, a volte, più intransigente degli adulti. L'autrice non manca di citare la famosa "fuitina". A volte una vera messinscena, portata avanti con la complicità della stessa famiglia, per risparmiare sulle spese del matrimonio. Serena Lao interviene spesso, durante lo svolgimento narrativo, a chiarire il suo pensiero. Non vuole negare il valore alla trasformazione in senso moderno della vita, ma vuole sottolineare come la gente, ai tempi della Ballarò di una volta, era più semplice, più propensa a gioire delle piccole cose. Il volume si arricchisce anche di consuetudini, molto in uso in quel tempo passato come: "a riffa", "u toccu", "i bagni", "u jocu ra ntinna e ri pignateddi", "scalò", "a vampa ri San Giuseppi". E ancora i personaggi come "i sunatura", "i funamboli" e "i trampolieri". L'autrice completa il suo quadro storico di memorie ed emozioni palesando la sua amarezza, aprendosi confidenzialmente con il lettore, rendendolo partecipe del tuffo al cuore, da lei provato, ritornando oggi nei luoghi della sua fanciullezza, tra le stradine, "vaneddi" di Ballarò. Era tornata lì, un assolato pomeriggio di Ferragosto, per fare una sorta di "viaggio della memoria" ed era rimasta senza parole. La casa in cui era nata era divenuta un magazzino. I luoghi erano dolorosamente mutati, ai personaggi di un tempo erano subentrati gli extracomunitari che la scrutavano con diffidenza e curiosità, come se lei fosse una marziana. Si era sentita estranea a quei luoghi. La stessa sensazione provata dal personaggio Ntoni nei Malavoglia. Ritornato nella vecchia casa dopo tanto tempo, aveva trovato un’atmosfera indifferente e fredda. "Quella non era la mia Ballarò" afferma Serena Lao. "Una morsa mi attanagliava la gola, a stento riuscii a non piangere". Poi l'autrice decide che: "la mia Ballarò esisterà ancora dentro di me, immutata". Un volere chiudere i ricordi in uno scrigno, dentro al proprio cuore, e farli rivivere quando ne sentirà la necessità fino alla fine dei propri giorni. "Tu, Ballarò, sì a vuci ra me picciuttanza, e non ti scorderò mai". Così conclude l'autrice il suo libro, insieme a un ricco dizionario di termini in lingua dialettale siciliana, un grande aiuto a chi ha l'opportunità di leggere questo bel quadro dell'antica Ballarò. Un testo di indubbio valore storico-culturale e umano. Il volume è una perla di memoria, da tenere molto cara e custodire come un'opera sublime, non solo come testo pregiato delle nostre tradizioni popolari, è anche e soprattutto un vero capolavoro sociologico e antropologico, per chi vuole conoscere la memoria storica del glorioso tempo della Palermo dorata, che vive ancora nel cuore dell'autrice, e di tutti noi che di quel passato, mai dimenticato, abbiamo fatto parte. Storia splendida della nostra amata e bella città.

 

 

 

 

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