Maria Nivea Zagarella recensisce "La casa dell'Ammiraglio" di Tommaso Romano (CulturelitEdizioni)

L’ultimo romanzo di Tommaso Romano, La casa dell’Ammiraglio (maggio 2020), segnala già nel titolo il carattere selettivo del suo contenuto, la casa “singolare” di un individuo altrettanto “singolare”: un Ammiraglio a riposo della Marina Militare di Stato. Uno spazio chiuso, che si rivelerà spazio d’anima, con protagonista unico, alla cui intellettuale raffinatezza e caratteristico abito mentale corrisponderanno nelle pagine taluni preziosismi di lessico e di stile. Dagli occhi nerissimi, intensi, enigmatici, impeccabile come un dandy d’altri tempi nei vestiti e nelle cravatte, imponente e asciutto nel fisico, metodico negli orari, l’Ammiraglio ha la passione del collezionismo, non per fatua, volgare, voglia di “apparire” o per egoistico “possedere”, ma per amore e instancabile ricerca del Bello. Di origini altoborghesi e solido benestante, in una delle sue tre case, la casanima, una sorta di arca simbolico-affettiva della quale le altre due (quella in cui vive con la moglie e quella di campagna) costituiscono dei prolungamenti vitali e sentimentali, raccoglie una straordinaria quantità di oggetti: sculture in marmo, terrecotte centenarie, la più fine porcellana, antichi gessi, calchi e legni scolpiti, mobili… quadri, stampe, arazzi, disegni… tappeti… merletti, e moltissimi libri (comprensivi di volumi rari, incunaboli, prime edizioni..) scelti -sottolinea il narratore- per intima necessità di conoscenza e per una non comune curiosità intellettuale. Fra tutte queste “cose” apparentemente inerti il protagonista, estraneo nel profondo alla vita abituale degli altri, trascorre in piacevole reclusione molte ore delle sue giornate, convinto che è libertà anche il bisogno del superfluo e dell’inessenziale se non si mortifica nessuno, e che -secondo le parole di Flaubert: Le style c’est la vie! C’est le sang meme de la pensée. E questo è il punto, il nodo strutturante per l’Ammiraglio del “suo” specifico senso di essere e di esistere, il suo ideale di perfezione umana e personale. Affascinato a tredici anni dalla visita al Vittoriale dannunziano, dove -come scriveva lo stesso D’Annunzio- ogni oggetto da lui scelto e lì raccolto era una forma della sua mente, un aspetto della sua anima, una prova del suo fervore, una espressione insomma totalizzante del suo essere, il protagonista concepisce sin da giovanissimo l’idea di dare anch’egli una forma alla sua “soggettiva” ricerca della Bellezza quale sostanza dell’infinito, della grazia, dell’armonia. Viene così costruendo negli anni quella casanima, gradualmente e parimenti come un atto e un’opera di una vita intera o, più icasticamente alla Nietzsche, come una scultura di sé. L’ Ammiraglio, di contro a quella che gli appare una apocalittica degradazione civile e valoriale della società contemporanea fra terroristi fanatici e politici imbelli, finti intellettuali e nuove genie di sciacalli e camaleonti (lui circondato invece da ritratti e foto di antenati carichi di decoro civile e discrezione morale realmente aristocratica) e  ancora, di contro alla avvilente deprivazione estetica delle generazioni di oggi, che sacrificando alla efficienza, funzionalità, utilità, la “bellezza” e la “grazia” rendono le case moderne simili a eleganti sale d’aspetto di una clinica o di un obitorio, preferisce rileggersi in solitudine il suo Huysmans e sentirsi un Des Esseintes del ventunesimo secolo tuttora pieno dello spirito ottocentesco di quella fase storica, fra fine ‘800 e inizio ‘900, in cui -secondo il suo punto di vista- continuava a respirarsi l’ultimo alito del buon vivere, della gentilezza, dello sfarzo, del lusso, della penombra, dell’erotismo lirico, della capacità di dominare la tecnica. Non è un caso dunque che le predilezioni artistiche del protagonista vadano allo stile Liberty nato intorno a quei lontani anni per reazione al mondo industriale e alla produzione seriale, e quale libera espressione della creatività fantastica dell’artista e del vitalismo e dinamismo della Natura recuperata nella perfezione visibile/invisibile delle sue armoniose, flessuose, forme. Un nostalgico è l’Ammiraglio (che cita spesso Platone e la sua idea di Bellezza afferente anche al giusto, al buono e al vero) di “singolarità” e “unicità” individuale nell’attuale, globale, prevalere di un pensiero unico e massificante, oltre che di una aristocrazia del sentire al di qua degli schiamazzi e nefandezze del quotidiano. Perciò si autopercepisce fra le mareggiate del mondo in una continua diaspora dello Spirito. Perciò nelle stanze della sua casanima fa regnare sovrana l’armonia, che regola la gerarchica collocazione/distribuzione degli oggetti, in vista non dell’accumulo ma della perfezione dell’insieme, quasi a mimare la completezza di un mosaico o di un affresco, in cui pure il particolare, “quel” particolare, rappresenta un necessario ultimativo complemento della sete estetica della sua anima. Perciò, infine, la collocazione degli oggetti non è fissa nel tempo, ma varia secondo successive risistemazioni e/o occasionali arricchimenti di nuovi oggetti, sì che vengono volta a volta spostati e riposizionati quasi (si noti l’alone estetizzante delle voci verbali scelte) in un “danzare” o “svolazzare lieve” da un angolo all’altro delle diverse stanze. Collocazione che il narratore, in totale complicità col protagonista, contestualizza come un compiersi sempre temporaneo dell’Opera (alchemica) della costruzione della casa-arca e che si esplica pertanto come un cammino oltre la soglia, una sorta di iniziazione alla maggiore consapevolezza del bello. Da qui le strane “epifanie” che da una certa notte cominciano a verificarsi nella casanima: luci, rumori, voci purissime, umane, di uccelli, gatti… Epifanie le quali altro non sono -quanto al disorientato Ammiraglio che va invece interrogando psicanalisti, teologi, esperti di esoterismo e esorcismo- che progressive intuizioni/rivelazioni di un metafisico Oltre, che nelle intenzioni dell’autore/narratore vogliono risacralizzare la Vita e le ragioni del vivere. Gli abitanti della casanima, in perfetta simbiosi emozionale e di pensiero con l’Ammiraglio, che fra quelle sue “cose”, non solo eleganti, insolite, rare, ma anche “semplici” (come gli oggetti entnoantropologici popolari restaurati nella casa di campagna, preziosa eredità morale dell’infanzia) si sente un uomo libero, con poche ma solide certezze e una fede pascaliana nella trascendenza, gli “abitanti” -dicevo- della casanima inaspettatamente e misteriosamente prendono a parlargli. Inizia Cometa, collocata nella stanza centrale, la bianca fanciulla di marmo china a scrivere su un libro, visione simbolica (alchemica?) di una autentica purezza originaria e segno di una rinascita lieve e profonda, la quale gli conferma che tutte quelle figure di animali e uomini e donne in atteggiamenti diversi (come mostrano le illustrazioni che accompagnano il testo) non sono aleatorie decorazioni, ma declinazioni in forme definite e a tutto tondo, entro il divenire del tempo storico, della Bellezza invisibile, visibile cioè continuazione, attraverso la mano dell’uomo, dell’opera creatrice originaria (di quel primo Creatore a cui pare che oggi in pochi credano). Sono dunque oggetti “viventi” portatori dentro il loro materiale involucro di quella dignità, e precisa identità spazio-temporale, e anima (l’essenza originaria che vive oltre e spesso contro il tempo…) da sempre a loro riconosciute, e attribuite, dall’innamorato e “stupito” Ammiraglio. “Stupito” come ai primordi della nascita del “mito” o meglio dei “miti”! E nel “dialogo dello Spirito” aperto da Cometa (dal nome chiaramente allusivo) si inseriscono via via gli altri “oggetti” che sbozzando ora le tante sfaccettature positive dell’umano, ora i tanti segni della sua attuale disintegrazione e del capovolgimento nichilistico di arte e etica, accompagnano l’Ammiraglio nella sua sempre più salda e liberatoria, rispetto ai tempi presenti, presa di coscienza di “sé” e della “sua” scelta d’esistere, sempre più distante tale scelta, in rapporto alle pagine iniziali del romanzo, dall’artificio estetizzante dannunziano, e più pregna invece di tensione morale e di sincretico, religioso, misticismo. Si succedono pertanto le varie “incarnazioni”/espressioni dell’amore e dell’amore di coppia; l’elogio della marionetta birmana alla “grazia” che va conquistata, e della donna delle ninfee all’acqua purissima del suo invisibile stagno tale da centoventi anni; la deplorazione della tartaruga per la fretta del mondo moderno segno di disordine interiore; il rimprovero dell’hidalgo spagnolo all’eccesso odierno di libertà individuale degenerata in licenza, egoismo, violenza e il suo rimpianto per l’ideale antico di “nobiltà” identificato con l’ammonimento dantesco: fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza; il lungo discorso della gatta Stecchina la quale afferma che loro, meri oggetti, sono più veri dei mortivivi della città che vagano come impazziti e non conoscono più il senso e il valore del canto, dell’aria, degli odori, dei sapori, della terra bagnata, dell’amore vero e non per i surrogati del desiderio e, dopo avere denunciato i molti attentati all’ordine delle natura (gli atti di sadismo contro i cani e i gatti, la soppressione dei feti umani indesiderati, il mercimonio degli uteri in affitto), conclude dicendo: forse solo fra noi aleggia ormai la vera vita, fra noi oggetti, cose, benedetti da un’anima invisibile, perché da solitari, ormai, riusciamo a contemplare in silenzio l’eternità. E a misurarsi con l’Eterno al di sopra delle miserie e della decadenza del mondo, nella quale il protagonista (che non esita a definirsi tradizionalista, conservatore e forse un ingombrante reazionario) inscrive anche il relativismo della Chiesa di oggi, invita l’Ammiraglio la voce della Madonna, che si alza dalla chiesetta rustica nella sua proprietà di campagna, esortandolo a non fare perire il significato profondo dell’essere e delle cose. Hai avuto -gli dice- il dono della sintonizzazione dello Spirito puro. Deve perciò continuare a ribattezzare il profano, a salvare l’invisibile (il linguaggio dell’Anima cosmica) nel visibile, a sottrarre al naufragio definitivo quella minuscola memoria del mondo che aveva pazientemente e con amore raccolto nelle sue case. Infinitesima parte del tutto, ma emblematica del fare Bellezza. Il suo collezionismo insomma risulta una costruzione ideale, un concentrato del bello del mondo e del buono dell’universo che egli ha saputo rintracciare e ereditare ridandogli -come gli dice nella casanima anche il calco di Eleonora- un metafisico credito. Questa la progressiva costruzione/realizzazione di sé dell’Ammiraglio, individuo/anima il cui “viaggio” nell’ascesi mistica finale culmina nella visione del secondo Angelo, quello di porcellana del dono di battesimo che, staccatosi dal bimbo del passato, si manifesta all’adulto in una luce accecante, ardente, in tutta la sua sovrannaturale essenza di potenza portatrice della luce del bene.  E il narratore annota che la luce e il fuoco (alchemici?) non spensero la certezza di una permanenza inestinguibile. Può dunque nelle righe conclusive del romanzo l’Ammiraglio addormentarsi, fuori del tempo storico, definitivamente quietato e affrancato nell’intimo da ogni negativo peso di contingenza e necessità.

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