Maria Concetta Ucciardi, "Una stella di nome Marta" (Ed. Thule) - di Giuseppe Bagnasco

Maria Concetta Ucciardi circa trent’anni fa ha scritto un testo, inusuale per una poetessa, col quale ci trasmette alcune sue considerazioni sullo stato dei valori in una società, già d’allora, avviata verso la disgregazione e questo nella sua più importante cellula: la famiglia. Una stella di nome Marta (Ed. Thule – Palermo 2021), non è un racconto di fatti o che comunque abbiano alcun riscontro storico, ma riteniamo abbia tutte le caratteristiche per essere ascritto come una favola. A dare man forte che si tratta di una storia favolistica, c’è la conferma nella copertina della egregia Ilaria Caputo che pone una Sirena sopra una vasca su cui fa sgorgare dell’acqua. E vediamo pure come la Sirena,  essendo un personaggio mitologico, ben si adatta ad annunciare questa favola . E questo, anche a voler rischiare una digressione di stile, proprio negli anni precedenti la stesura del suddetto testo, in cui una stupenda artista (Mia Martini), ricordando il “buon tempo” passato, in “La nevicata del ‘56”, cantava:… “com’è, com’è che c’era posto pure per le favole…”. Una coincidenza? Può darsi, ma è per certo che si sia trattato di una esigenza per cui due artiste, diverse per ruolo,  abbiano avvertito, se non lo storico “grido di dolore”, il bisogno di dirlo, ciascuna con la propria verve artistica.  Noi, succintamente, per non togliere ad alcuno dei “25” lettori manzoniani il piacere di gustare la narrazione, ne riepiloghiamo la trama. Laura, la protagonista della storia, in una notte di mezza estate, dalla finestra del suo appartamento posto in un condominio costruito giusto laddove un tempo insisteva la sunnominata fontana, vede come attorno la stessa danzasse una bambina mentre cantava un ritornello: “ sono la stella che brilla lassù, sono la stella che brilla di più”. Dalla spettatrice occasionale il tutto sarebbe stato ricondotto ad una allucinazione, se non fosse che  giorni dopo, per un caso del destino (?), non trovasse, in una rivista d’arte, l’immagine di quella stessa fontana. Intuisce che la scena vista quella notte non è più una visione e pertanto decide di dare inizio ad una inusitata ricerca per sapere, nello specifico, chi mai fosse quella bambina e nel caso, cosa avesse quell’evento da comunicarle. Inizia così una ricerca spasmodica piena di “suspence”per dipanare un mistero in cui la comparsa  della bionda bambina, come dedurrà il lettore, non è del tutto casuale. E la trama, grande merito della scrittrice, diventerà tanto più avvincente sì da creare nei lettori uno stato d’ansia come se assistessero ad un thriller di buona fattura. Sullo sfondo dei fatti che si avvicendano, si fanno strada, secondo la nostra “lettura”, tre “incidenti”, cioè nel senso (anomalo) che incidono nella narrazione della storia dei personaggi: in primis l’Amore nella sua completa semantica, poi il Peccato e in ultimo l’Elusione della verità. Maria Concetta Ucciardi non è Fedro, ma la storia immaginata ha una sua valenza morale anzi più di una, nel descrivere situazioni insieme alle rispettive contrapposizioni. Abbiamo già accennato alla famiglia e a quei valori che già, all’epoca della stesura del libro, si erano già disgregati, ma la Nostra ve ne aggiunge uno ulteriore: il valore della Confessione. Prima però di addentrarci nell’esame del primo “incidente”, è opportuno fare una considerazione storica che ci è stata tramandata da una determinata cultura. Dalla cacciata dei greci-bizantini e fino all’arrivo dei normanni, la Sicilia fu governata per circa duecentocinquanta anni dagli arabi. Adesso qui, non richiamiamo la lapidazione delle donne ree secondo le ataviche leggi ebraiche, ma di sicuro, nel retaggio della cultura araba, è rimasto l’assoluto divieto alle fanciulle in età da marito, pena la lapidazione, di conservare il loro stato verginale fino al matrimonio. Nella nostra cultura cristiana, si ritiene che la confessione di un peccato sia necessaria se si vuole raggiungere la serenità dello spirito. Il mancato rispetto di ciò, specie se si tratta di un amore  consumato non in regime di matrimonio, a maggior ragione se  produce inevitabili conseguenze, è sanzionato come un peccato. E’ su questa  omissione-decisione che ruota il mistero della nostra storia, lasciando la “peccatrice” come “color che son sospesi”, senza l’ovvia speranza, dopo il trapasso alla non-vita, di raggiungere la serenità, la pace. E, a porvi riparo è per ciò chiamata l’anima della bambina che si prefigge di richiamare l’attenzione apparendo  a  Laura. La prima cosa che la “prediletta” fa è cercare uno storico che sappia dare informazioni sui monumenti di Palermo, nello specifico su quella fontana, e lo trova in una persona eccezionale: don Peppino. Un insolito signore d’altri tempi appassionato della Palermo che fu, che con garbo narra a Laura come in quella fontana sia annegata, per un fortuito incidente, una bambina. Non andiamo oltre nella narrazione lasciando che siano i lettori a scoprirne i “sequels”. Passiamo pertanto alle nostre deduzioni. L’Autrice usa il mezzo della storia per parlare della solitudine e della solidarietà. La prima viene appalesata dalla vita condotta dal sunnominato don Peppino: Vive da solo in una casa il cui solo conforto gli viene dato dalla presenza di tanti oggetti di memoria che gli fanno compagnia come fossero dei familiari. La seconda, quella della solidarietà, viene offerta dai tre figli di Laura che si affezionano all’anziano al punto di chiamarlo nonno e che per sottrarlo alla solitudine lo accolgono in casa con il bonario consenso dei loro genitori. E’ qui che viene dato risalto alla contrapposizione tra solitudine e famiglia, tra inquietudine e serenità. E’ giocoforza vedervi la finalità della scrittrice che pone la famiglia come il perno su cui ruota la vita, dando a questa un ruolo pregnante, un senso compiuto. Il tutto però nel rispetto della tradizione come, seguendo l’educazione familiare, l’andare a messa la domenica o festeggiare con entusiasmo il Natale. Una stella di nome Marta è una storia ben raccontata si cui aleggia quell’accennato mistero e, si sa, come una storia misteriosa risulti sempre affascinante sì da trascinare il lettore nell’ambito della complicità. Un mistero che alla fine viene svelato nel modo, aggiungiamo noi, del più classico epilogo romantico-sentimentale ponendovi il risvolto della morale che la storia racchiude. Maria Concetta Ucciardi, senza scomodare quanti, da Platone a Fichte ad Hegel, giusto per citarne alcuni tra i grandi del pensiero che si dedicarono alla ricerca della Verità, si cimenta, con questa favola, in questo compito. Un compito difficile da eseguire e differente per ciascuno che la ricerchi. Niente a che vedere col Diogene che cercava l’uomo con la lanterna perchè la ricerca della Verità è un mistero e a volte non basta una vita per scoprirlo, oppure altre volte si, come l’Adelchi manzoniano quando afferma : “Gran mistero è la vita, e nol comprende, che l’ora estrema..”.  Maria Concetta Ucciardi l’ha fatto, o almeno nel suo piccolo, traendolo dalla sua educazione, l’ha tentato usando come mezzo dialettico la presente favola. In essa  è  racchiusa, secondo la nostra personale intuizione, un semplice aforisma: “La Verità sta nella serenità e nell’armonia della famiglia”. Noi, per parafrasare il grande Parmenide, aggiungiamo: La famiglia è, la non-famiglia non è. Infatti come la conoscenza dà la libertà, la verità dà la serenità contrapponendola al mistero che invece la imprigiona.  E in questo rientra anche il nascondimento della verità, il terzo “incidente”.  Un incidente-intrigo in cui la Stella di nome Marta, quale vero Deus ex machina, scende dall’alto affinché nella vita dei protagonisti torni la serenità. E’ ciò che succede a don Peppino e alla famiglia di Laura dove alla fine tutto rientra nella normalità, anche la strada della fantomatica vasca e soprattutto don Peppino che rientrerà  nella sua casa senza più quell’ombra che ne aveva angustiato la vita ma questo, solo dopo aver conosciuto la verità perché la verità ha le sue prerogative e, giusto per paragrafare Goethe, non si lascia strappare i suoi diritti. In fondo la Ucciardi, con questo lavoro, contrappone ai disvalori, complice un certo progressismo (pensiamo alla manipolazione genetica e ultima, all’intelligenza artificiale), contrappone ai disvalori, quelli della generazione a cui appartiene, e lo fa, ripetiamo, rimarcando ed esaltando i concetti della famiglia, dell’amore di mamma, dell’armonia, del rispetto per gli anziani, delle tradizioni  non escluse quelle di carattere religioso.  Da parte nostra non possiamo lasciare queste note senza un’ultima considerazione. Maria Concetta Ucciardi ha preso spunto dalla fontana, per cercare e descrivere, per bocca dell’inesauribile don Peppino, alcuni monumenti che adornano la Palermo Liberty. Una città a cui l’Autrice è fortemente legata sì da farla apparire ed accostare alla “Felicissima” di Nino Basile. Ma solo qualche accenno per non turbare il destino di Una stella di nome Marta.

 

Casteldaccia. A.D. 2023 nel giorno del ritorno all’ora solare.

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