“La rosa rossa abbandonata di G” di Vitaldo Conte

 
Il mio sguardo incontra, in una sera d’autunno, la cartella rossa sopra l’ultima mensola della libreria.  È poggiata in alto, dove nascondo le cose che appartengono al mondo dei miei ricordi e segreti. (…) Nella cartella c’è, fra le varie carte, una busta ingiallita con dentro una lettera. È accompagnata dalla presenza di petali secchi di una rosa rossa, ormai friabile trasparenza. La carta ingiallita si offre al mio sguardo.
Forse la passione per un fiore, la rosa rossa, che accompagna la mia esistenza sotterranea, m’induce a scriverti. (…) questa rosa può intrecciarsi alla statua immobile di un ricordo, quello di un angelo barocco. È la tua, amore mio irraggiungibile.
 
È G. Il ricordo di lei s’incarna, mentre inizio a leggere la lettera. Aveva gli occhi e i capelli di un nero d’oriente, la bocca carnosa a forma di cuore. Assumeva un’aria strana, ondeggiante fra la strega e la maliarda, che mi aveva intrigato ma anche insospettito.
È stata una sfida con me stessa trovare il coraggio d’invadere il tuo privato. Perché proprio a te e non agli altri uomini? Perché farlo con gli altri è troppo facile: sono uomini-uomini, sconosciuti e scontati. Tu sei per me, che sono stata una vita in oriente, il millesimo e uno: sei il più difficile, misterioso e deludente. (…) A te offrii la mia rosa di carne: era rossa di passione. Ma tu l’abbandonasti.
 
Il ritrovamento della lettera m’induce, come per un viaggio naturale, a ricordare il periodo narrato. Ero poco più che un ragazzo quando conobbi G. Mi fu presentata da un’amica poetessa. Lei, nota scrittrice, m’invitò, qualche giorno dopo, a casa della comune amica di cui era ospite, per leggere le mie poesie.
Il nostro colloquio, nell’incontro, divenne intimo. Le mani s’incrociarono più volte, come le nostre bocche. Ma, avendo nella serata un appuntamento con un’altra donna, le dissi, a un certo momento, che dovevo andare via. Lei però considerò questa decisione un abbandono per non rapportarmi sessualmente con lei. Forse aveva ragione. (…)
Gli uomini non mi amano e non so perché. Qualcuno mi ha detto che ho troppa aggressività,  troppa personalità. (…) Ti posso chiedere ora perché anche tu sei fuggito da me e mi hai abbandonato? (…)
 
Non so perché sono fuggito da G in quel modo. Il mio appuntamento non era così prossimo nell’orario da impedirmi di stare un po’ con lei. (…) Dalle ultime parole della lettera di G mi aspetto la comprensione delle mie fughe emozionali.
Ora devo affrontare un toro buio, gonfio di sangue, con lo sguardo fisso tra le corna. Mi metto il vestito di lustrini. Avvolgo l’espada nella muleta. Il toro forse è solo un maschio che ha più paura di me. Potrei anche pregare la Vergine del Pilar come faceva Manolete. E allora mi guardo allo specchio: sono tutta nera con i miei gioielli. Ci sono tutti, tutte le piastre lucenti e quelle opache. Io stessa sono la Vergine del Pilar. Se vinco ti manderò la coda del toro o le orecchie: tu in cambio mi getterai una rosa rossa. Una volta mi sentivo io il toro, sempre e comunque condannato a morte, con una banderilla colorata sulla spalla. Oggi sono io il torero. Forse ho già vinto perché non ho più paura: né di vincere, né di perdere. Non ho neanche più paura dell’abbandono. Prepara ora per me la tua rosa rossa.
Non ho potuto offrire a G il fiore richiesto, perché non l’ho più incontrata. So che poi è morta. Oggi la rosa rossa, che palpita sul mio ventre come tatuaggio d’amore, vorrebbe incontrare il suo corpo per amarlo.
 
Nota. Dal mio racconto La rosa rossa abbandonata di G, in AA.VV., Il libro delle storie finite, FusibiliaLibri, 2020, a cura di Dona Amati, con una nota di Ugo Magnanti.
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