“La lezione della caduta dell’impero romano un insegnamento per noi” di Domenico Bonvegna

Mentre imperversa la guerra in Ucraina, non ho trovato di meglio che studiare un argomento fondamentale per gli studiosi di Storia e forse anche per comprendere l’epoca storica in cui stiamo vivendo: perché e come è scomparsa una struttura millenaria come l’Impero Romano. Ho letto la documentata opera di Michel De Jaeghere, “Gli ultimi giorni dell’Impero Romano”, Leg edizioni (euro 34,00; pagg. 623; 2016).

L’opera si compone di tre parti, quella introduttiva, La catastrofe (pp. 13-39); quella centrale e molto ponderosa, L’Ingranaggio (pp. 43-499), dove l’autore descrive gli avvenimenti dal 376, anno dell’irruzione dei goti in Tracia, nell’estremità sudorientale della penisola balcanica, al 476, quando viene deposto Romolo Augusto (461 ca.-dopo il 511), l’ultimo imperatore d’Occi­dente, noto anche con il diminutivo di «Augustolo», cioè «piccolo Augusto»; e la terza, intitolata L’avvertimento (pp. 503-560), in cui prende in esame le interpretazioni sulla fine dell’impero e indaga sulle cause della sua caduta «[…] per cercare di trarne delle lezioni». De Jaeghere ritiene, infatti, che «la storia dell’impero romano possa essere un insegnamento per noi», poiché il suo lungo declino ricorda da vicino quello della nostra civiltà.

Per una maggiore completezza dello studio del libro di De Jaeghere, mi avvalgo della recensione all’edizione francese di Francesco Pappalardo, pubblicata dalla rivista Cristianità, il 7 dicembre 2015, dal titolo, “Gli ultimi giorni. La fine dell’impero Romano d’Occidente”.

“La scomparsa di un edificio millenario, che era stato portatore di una civiltà straordinaria e aveva riunito sotto un unico scettro tutti i popoli del Mediterraneo e una parte non piccola di quelli dell’Europa continentale, non poteva non colpire l’immaginazione di tanti, che si sono interrogati sul perché di un così grande avvenimento”. Addirittura c’è qualche storico che ne ha trovati ben 210 motivi.

In realtà, osserva lo storico Giuseppe Galasso, “perché mai (ci chiediamo) l’impero di Roma non doveva cadere? Quale altro impero non è caduto?”. Forse è più corretto chiedersi come è caduto. E sul come si è appuntata nei secoli l’attenzio­ne di letterati e di storici. Ecco nel dibattito si è inserito lo storico e giornalista francese Michel De Jaeghere — direttore di Figaro Hors-Série dal 2001 e del bimestrale Figaro Histoire dal 2012, con la sua monumentale opera uscita in Francia, nel 2014, per Les Belles Lettres, “Les derniers jours".

Il testo dello storico francese è una narrazione densa di drammaticità, non ci risparmia sorprese, soprattutto sfoggia una vastissima cultura in materia. Michel De Jagheire mette in rilievo una serie di grandi figure protagoniste di questi secoli a partire da Teodorico, Teodosio, Stilicone, Alarico, Galla Placida, Attila, Ezio e tanti altri meticolosamente riportati. Una serie di popoli, sbrigativamente chiamati “barbari” invasori come gli Alani, Alemanni, Burgundi, Goti, Unni, Visigoti. Il testo, infine, è corredato di 22 mappe a colori indispensabili per comprendere gli intrigati avvenimenti. De Jaeghere ha creato un capolavoro su un topos intramontabile. Per farlo si è avvalso di una serie di innumerevoli studiosi antichi e moderni, come si può notare da un'impressionante annotazione alla fine di ogni capitolo. Spicca tra tutti Ammiano Marcellino, il greco Zosimo, lo storico inglese, Peter Heather, il torinese Alessandro Barbero e poi tanti altri.

L’Impero Romano d’Occidente finisce nel 476 d.C., dopo che Roma è stata saccheggiata dai visigoti di Alarico (370 ca.-410) nel 410 e dai vandali di Genserico (m. 477) nel 455, mentre la parte orientale dell’impero sopravvive attorno a Costantinopoli, la Nuova Roma creata dall’imperatore Costantino I il Grande (280 ca.-337) dove sorgeva la vecchia Bisanzio.

La caduta dell’impero, per gli storici contemporanei, sia pagani che cristiani, è un evento così catastrofico e così inatteso che dovesse avere necessariamente cause soprannaturali. I primi hanno visto in esso un effetto della collera degli dèi abbandonati: la religione tradizionale aveva assicurato per secoli la protezione divina alla città, ma l’avvento del cristianesimo aveva rotto quella pax deorum a cui Roma doveva la propria invincibilità sui campi di battaglia e la favolosa estensione dell’impero. I secondi hanno letto la caduta come la conseguenza dei peccati di un mondo diventato cristiano solo in superficie. Sostanzialmente i romani non si erano abbastanza convertiti al cristianesimo.

Gli autori cristiani, nell’euforia per l’avvento di Costantino, avevano creduto inizialmente che l’impero avesse una missione quasi messianica, cioè che, convertitosi, rappresentasse una realizzazione almeno parziale delle loro speranze escatologiche. Sant’Agostino d’Ippona (354-430) non condivide questo ottimismo.

Peraltro, sant’Agostino non predica affatto il rifiuto totale degli affari secolari: a un contemporaneo che gli scrive, chiedendo se le calamità pubbliche non siano segni premonitori della fine del mondo, risponde che un cristiano deve prepararsi per il Giudizio e non indovinarne il momento; deve essere pronto ad accettare la catastrofe preparandovisi con la preghiera e con le buone opere, ma ciò non lo dispensa dal fare quanto in suo potere per evitare che essa sopraggiunga.

L’interesse per la tarda antichità, e in particolare per il periodo storico comprendente la decadenza e la caduta dell’impero romano d’Occidente, è stato molto vivo in età umanistica e rinascimentale. A cominciare da  Francesco Petrarca (1304-1374) — che riprendeva la tesi di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) sulla virorum penuria (4) — la caduta di Roma era dovuta soprattutto alla carenza di grandi uomini.

Mentre alcuni filosofi e storici illuministi del secolo XVIII, come il francese Fran­çois-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), e l’inglese Edward Gibbon (1737-1794), hanno ritenuto che la caduta dell’impero fosse dovuta principalmente al cristianesimo — che avrebbe contestato i tradizionali culti pagani, privando i ro­mani dell’antico spirito combattivo — e alla diffusione del monachesimo, perché «una gran parte della ricchezza pubblica e privata fu consacrata alle speciose esigenze della carità e della devozione, e la paga dei soldati fu prodigata alle inutili moltitudini di ambo i sessi, che non potevano vantare che i meriti del­l’astinenza e della carità».

Ma De Jaeghere ribadisce quanto è già noto agli storici accademici e cioè che Roma non è caduta per colpa del cristianesimo. Agl’inizi del secolo V i cristiani nell’impero romano d’Occidente sono solo il dieci per cento ma non si disinteressano affatto della cosa pubblica, anzi si mostrano molto più attrezzati dei pagani ad affrontare le grandi crisi. Come ha spiegato in chiave sociologica Rodney Stark, «in città piene di senzatetto e poveri il cristianesimo offriva carità oltre che speranza. In città piene di nuovi arrivati e stranieri, il cristianesimo offriva una base immediata di legami interpersonali. In città piene di orfani e vedove, il cristianesimo forniva un nuovo e ampio senso della famiglia. In città lacerate da violenti conflitti etnici, il cristianesimo offriva una nuova base di solidarietà sociale. […] L’assi­stenza ai malati in periodi di pestilenza, il rifiuto dell’aborto e dell’infanticidio, la fecondità e la forza organizzativa delle comunità sono concetti centrali della dottrina cristiana». Essi cercano di mantenere in vita Roma e la sua cultura, anche con vescovi e intellettuali come sant’Ambro­gio (337 ca.-397) e sant’Agostino, con validissimi generali, come Stilicone (359-408) ed Ezio (390 ca.-454), e con tanti fedeli soldati.

Nel secolo XIX si afferma una storiografia critica, che non accetta più come oro colato le testimonianze delle sole fonti letterarie e i pregiudizi ideologici di chi si sforza di spiegare la complessità del reale con ipotesi semplicistiche e tributarie di un orientamento politico o culturale.

Tuttavia, se gli studiosi ottocenteschi e novecenteschi hanno presentato la fine dell’impero romano d’Occidente in termini catastrofici, come una profonda rottura causata dagl’invasori germanici, negli ultimi decenni si è fatta strada una visione assai meno drammatica, riassunta in una formula spiritosa e paradossale da Patrick J. Geary: «Il mondo germanico fu la più grande e la più duratura opera del genio politico e militare di Roma». Nel 1971 lo storico irlandese Peter Brown ha messo al bando le idee di decadenza e di crollo, sostituite da quella di una rivoluzione culturale e religiosa che ha portato piuttosto a una grande trasformazione, iniziata sotto il tardo impero, all’incirca nel secolo II, e proseguita a lungo dopo la sua fine. Anche lo studioso canadese Walter Goffart ha parlato di mito storiografico: «Ciò che noi chiamiamo la caduta dell’impero romano d’Occidente non era che un esperimento originale andato un po’ fuori controllo».

Si preferisce, dunque, parlare di una mutazione feconda, quasi indolore, di una lunga fase di transizione, definita ora come «tarda antichità», che va dal secolo III al secolo VI, in cui avviene l’epocale passaggio storico dal mondo classico e pagano a quello cristiano, e si ritiene che i barbari romanizzati abbiano conservato l’essenziale delle istituzioni preesistenti e consentito lo sviluppo di una civilizzazione per niente inferiore a quella romana.

Lo stesso De Jaeghere fa riferimento alla mostra, “Roma e i barbari. La nascita di un nuovo mondo”, tenutasi nel 2008 a Venezia. Qui lo storico francese  mette in evidenza una certa continuità artistica, mirando a ricusare l’idea che la scomparsa dell’impero si fosse tradotta in una scomparsa di civiltà e ad avallare l’idea di un cambiamento fecondo, di un nuovo inizio.

Nel catalogo della mostra la tesi viene così riassunta: «Lungi dall’essere la fine di tutto, questo sommovimento rappresenta il punto di partenza di una nuova storia e questa immigrazione salutare, allora così mal gestita, ha costituito un elemento essenziale della ricchezza dell’Occi­dente. Que­st’ultimo era ormai abbandonato a se stesso e ai “suoi” barbari da un impero d’Oriente che si sforzava di sopravvivere, più lontano che mai. Ma un fenomeno ancora inedito si impose e produsse in Europa effetti uguali se non maggiori delle conquiste guerriere: l’integrazione, promessa di un mondo nuovo».

Così ridefinite, le invasioni germaniche cessano di essere un oggetto di studio e diventano il supporto di una rilettura ideologica destinata a rassicurare coloro che, osservando gli ultimi secoli di vita dell’impero, sono indotti a riflettere sulla situazione dell’Europa contemporanea:«[…] ogni analogia fra la nostra situazione e quella dell’impero romano— rileva De Jaeghere — finisce alla lunga con l’essere interdetta e sospettata di retropensieri xenofobi».

Anche al medievista Paolo Delogu sembra che «[…] la storiografia recente tenda a descrivere i fenomeni del passato in modo consentaneo ai problemi dell’odierna società occidentale avanzata, che si avvia a diventare multietnica e si preoccupa di attenuare il peso dei contrasti di civiltà, esaltando invece le ipotesi di integrazione fra gruppi etnici e culturali posti a contatto dalle nuove migrazioni».

Per quanto riguarda le cause della caduta dell’impero, ci sono cause esterne e interne. Quanto alle prime, è impossibile negare il carattere decisivo della grande migrazione degli unni, che, come illustrato dallo storico britannico Peter Heather, ha letteralmente scagliato il mondo germanico contro l’Occidente. Tuttavia, le invasioni barbariche non sono l’unico problema che Roma deve affrontare nell’ulti­mo secolo di vita. Le guerre civili, le agitazioni sociali, l’ecce­zionale appesantimento dell’apparato governativo e la dilatazione di spese improduttive in­nescano una spirale di problemi, cui si aggiungono la decadenza dei costumi, come ha ricordato Papa Benedetto XVI (2005-2013) parlando«[…] del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino».

A partire dal secolo III si manifesta un palese declino demografico, che lo storico francese identifica come causa principale della decadenza. La crisi economica e l’insicurezza scoraggiano una natalità già debole da tempo e le nascite non riescono a compensare le significative perdite umane dovute alle invasioni e alle guerre, oltre che a varie epidemie, fra le quali la Peste Antonina (165-180), una pandemia di vaiolo o forse di tifo, che produce almeno cinque milioni di morti, e la Peste di Cipriano — così detta dal nome di san Cipriano (210 ca.-258), vescovo di Cartagine —, probabilmente un’epidemia di morbillo o ancora di vaiolo, che imperversa in tutto l’impero fra il 251 e il 270.

Si produce quella che lo storico irlandese Eric Dodds (1893-1979) ha definito «età dell’angoscia»: la denatalità porta alla crisi dell’amministra­zio­ne, del sistema stradale e dell’erogazione di acqua su lunghe distanze e così aumentano la vulnerabilità alle malattie e l’emigrazione. L’aristocrazia romana si trasforma da élite militare a élite latifondista, interessata più ai piaceri che alla difesa dell’impero, e smette di fare figli. Lo storico Publio Cornelio Tacito (56/58-120 ca.) evoca le manovre dei senatori per aggirare le norme che vietavano l’accesso alle magistrature a coloro che non avevano discendenza: «I matrimoni divennero sempre meno frequenti e si allevarono sempre meno figli, perché era meglio essere senza eredi». L’esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. Lo scrittore Petronio Arbitro (27-66) denuncia nel Satyricon che «[…] nessuno riconosce i figli, poiché chiunque ha eredi legittimi, non trova posto né a pranzi né a spettacoli, ma, escluso da ogni vantaggio, si perde tra i rifiuti. Quelli invece che non presero mai moglie e non hanno parenti prossimi, conseguono i più alti onori, come a dire che passano per campioni di ardimento, per campioni di fermezza, non che per anime candide».

Lo storico francese Pierre Chaunu (1923-2009) ha analizzato il crollo de­mografico del tardo impero, dai sessanta milioni di abitanti del secolo II ai trenta milioni del secolo IV. È quella che De Jaeghere definisce «demografia del declino». Nel secolo IV il ritorno a una relativa pace non si traduce, infatti, in un aumento della natalità: le famiglie sono fragili e poco feconde, dilagano l’a­borto e l’infanticidio, il concubinato resta la regola, sotto l’influsso dei costumi ellenistici il divorzio è sempre più frequente, la mortalità rimane alta e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Di conseguenza, per mancanza di braccia, aumenta considerevolmente la superficie delle terre non più coltivate. Dal punto di vista economico meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse.

Le costituzioni imperiali della fine del secolo IV e dei primi decenni del secolo V testimoniano una massiccia riduzione dell’imponibile fondiario, in Italia come in Africa. L’impero reagisce aumentando le tasse, fino a deprimere l’eco­nomia e anche a incassare meno, perché molti vanno in rovina. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non sono in grado di pagare vanno a ingrossare le schiere della criminalità e del banditismo.

A questa situazione, si affianca la schiavitù, caratteristica di tutte le civiltà antiche, gli schiavi però non hanno interesse a difendere i loro padroni. Intanto è pronta l’immigrazione che rappresenta un serbatoio di mano d’opera servile, soprattutto alle frontiere e così si crea un vero e proprio mercato di schiavi a buon prezzo. Alcuni gruppi e tribù germaniche entrano pacificamente nell’impero attraverso le frontiere ormai deboli e vi s’installano. È un fenomeno che viene tollerato e molti sono accolti per ripopolare zone ormai abbandonate e per rilanciare l’agricoltura. Fra il 376 e il 411, un milione di barbari entrano nei territori dell’impero, inquadrati in varie categorie: immigrati, rifugiati o deportati. Le popolazioni germaniche entrano nell’impero a causa della pressione degli unni, che non può essere imputata alle classi dirigenti romane, le quali, però, non sanno governare bene l’immigrazione, favorendo accessi indiscriminati.

Infine, il calo demografico generale riduce le capacità militari e di sicurez­za dell’im­pero. Già i poeti Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Sesto Properzio (47-14 a.C.) e lo storico Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) avevano deplorato la scomparsa dei contadini della campagna romana, che avevano rappresentato fino ad allora il nerbo delle legioni. Peraltro, l’editto dell’imperatore Caracalla (188-217), che nel 212 — soprattutto per cercare di aumentare le entrate — concedeva la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero, rendeva meno appetibile l’arruolamento a quanti si accingevano ad assumere quel gravoso impegno proprio con il miraggio della cittadinanza, concessa appunto a quanti combattevano sotto le aquile romane.

L’esercito comincia a soffrire di questa penuria di uomini e in parallelo il fisco fa fatica a raccogliere i fondi necessari per arruolare le truppe mercenarie. Sarà fatale, a quel punto, la decisione di reclutare gl’im­migrati, snaturando la composizione delle legioni. All’inizio del secolo V gli arruolati ammontano a circa mezzo milione di uomini, ma più della metà sono di origine germanica e la loro lealtà appare legata più alla persona dei comandanti che all’impero. A poco a poco, i germani accedono ai gradi superiori dell’eser­cito, al consolato e, alla fine del secolo IV, alla famiglia imperiale: Flavio Onorio (384-423), figlio di Teodosio (347-395), sposa la figlia del vandalo Stilicone, il primo dei magister militum di origine barbarica. La caduta in disgrazia di questi e la sua morte sono seguite da ondate di diserzioni, che vanno a ingrossare le file dell’esercito di Alarico, il quale due anni dopo può saccheggiare Roma, a otto secoli di distanza dall’in­gresso delle tribù galliche nell’Urbe.

Cercando la causa delle cause, De Jaeghere cita lo storico e accademico francese René Grousset (1885-1952), secondo il quale “nessuna civiltà […] viene distrutta dall’esterno senza essere prima caduta essa stessa, nessun impero viene conquistato dall’esterno se non si è prima suicidato. E una società, una civiltà, non si distrugge con le sue mani se non quando ha cessato di comprendere la sua ragion d’essere, quando l’idea dominante attorno a cui essa fu in origine organizzata gli diviene come estranea. Tale fu il caso del mondo antico”.

Pierre Grimal (1912-1996), storico e latinista francese, interessandosi non alle cause della caduta dell’impero ma a quelle della sua ascesa e restando lontano da ogni idealizzazione dei costumi dell’antica Roma, pone in evidenza le due virtù caratteristiche della romanità, la pietas e la fides.

La pietas, cioè la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri, aveva dato ai romani l’energia vitale per sopravvivere e perpetuarsi; la fides, la fedeltà alla parola data e agl’impegni assunti come cittadini romani nei confronti della patria, aveva costituito il mezzo per non soccombere alla vertigine dell’onnipotenza e quindi si basa sull’assimilazione dei vinti. “Il popolo romano - dichiarò Scipione dopo aver preso Cartagine - preferisce vincolare gli uomini grazie ai benefici, anzichè al timore, e tenere legate a sé le nazioni straniere in buona fede e alleanza, anziché sottometterle a una triste schiavitù”.

 «Fides e pietas: la caduta dell’impero non si deve forse al fatto che i romani si erano allontanati da entrambe le virtù fondatrici?».

La perdita della pietas si tradusse in uno spopolamento che avrebbe avuto un grande peso nei destini del mondo romano.

De Jaeghere non indaga ulteriormente sulle ragioni strettamente religiose del declino, sulle quali si è soffermato invece il sociologo delle religioni Rodney Stark, mostrando come la crisi della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, sia alle origini del declino della pietas. Nel corso delle grandi epidemie anche il paganesimo si era ammalato seriamente, rivelandosi incapace di affrontare la crisi socialmente e spiritualmente; il cristianesimo, che sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l’impero, era però ancora minoritario e non poteva costituire — almeno per il momento — una valida alternativa alle antiche religioni.

Pur con tutte le cautele necessarie a evitare giudizi anacronistici, abitualmente interroghiamo il passato in relazione alle domande che ci pongono i nostri tempi. L’opera di De Jaeghere, che sembra tener costantemente di mira il presente, offre delle risposte convincenti.

La caduta di Roma mostra che tutte le grandi civiltà finiscono e che generalmente l’inizio del declino è demografico: cadono quando non fanno più figli, perché la denatalità innesca una spirale di tasse insostenibili, statalismo dell’e­conomia e cattivo governo dell’immigrazione. A ciò si aggiunge di regola la crisi delle religioni tradizionali e il conseguente tracollo della moralità, sia pubblica sia personale. Per di più oggi gl’immigrati, a differenza delle popolazioni germaniche di un tempo, sono portatori di un pensiero molto forte e non ambiscono ad assimilare la nostra cultura, anzi vogliono convincerci della superiorità della loro e talvolta ci riescono. «La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l’Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell’Impero romano d’Occidente non è un puro esercizio intellettuale»..

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