“La grande menzogna della prima guerra mondiale” di Domenico Bonvegna

L’argomento della “grande guerra” mi ha attratto da sempre, ho letto diversi libri, soprattutto quelli che hanno smascherato il vero volto: una inutile strage, una carneficina. Recentemente mi è capitato tra le mani un testo interessante già dal titolo: La Grande Menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi Edizioni (254 pagine; e. 15,00; 2018). Il testo vuole raccontare la vera storia in maniera documentata e rigorosa, con una proposta di facile lettura adatta anche ai “non addetti ai lavori”. La proposta è di tre docenti, Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, fatta in occasione dei cento anni. L’intenzione degli autori è quello che il loro lavoro diventi un “antidoto” alle celebrazioni retoriche ed acritiche del centenario della fine della I guerra mondiale. Per la verità è un testo che potrebbe benissimo essere collocato in quel sano “revisionismo”, indispensabile per ogni pagina di Storia e quindi anche per la “grande guerra”, la prima guerra di massa della storia. È pur vero che il testo non ha rivelato segreti o misteri sulla I guerra mondiale. “Ci siamo limitati a raccogliere in un breve compendio molti dei risultati che la ricerca storica ha stabilito da tempo ma che non hanno raggiunto, a quanto pare, le conoscenze diffuse e comuni dei cittadini”. Infatti, il libro cita diversi lavori sul tema, qualcuno è stato recensito dal sottoscritto come quello di Monticone e Forcella, Plotone di esecuzione. I processi della I guerra mondiale”, Laterza.

“La Grande Menzogna”, il libro edito da Dissensi, riesce a portare a conoscenza dei lettori una serie di fatti, di innumerevoli omissioni che sono riusciti a sopravvivere per decenni. Tra questi nell’introduzione fa riferimento alla catastrofica esplosione a Roma dell’antico Forte dell’Acqua santa, sulla Via Appia Nuova, dove si fabbricavano bombe. Ufficialmente si disse che avesse provocato 79 morti, solo nel 2017, grazie ad uno studio, col recupero di carte inedite, si è scoperto che i morti furono oltre 240.

IL testo come raccontano gli autori ha avuto un certo successo, anche se ancora è poco “di fronte alla macchina celebrativa governativa, ministeriale e militaresca che con convegni, mostre e pubblicazioni ha continuato l’opera della frode e della falsificazione- che va avanti da cento anni – omettendo tutte le fonti in grado di produrre dubbi sulla necessità e inevitabilità della I guerra mondiale, sui suoi orrori, sulle stragi e sugli scandali […]”.

Il testo di Gigante Kocci e Tanzarella cerca di smontare anche un certo attivismo militare, lo scrivono nell’introduzione, che viene apertamente proposto nelle scuole, attraverso commemorazioni, celebrazioni inerenti alla grande vittoria della guerra del 15-18. In particolare, sottolineano l’influsso esercitato dalla figura del guerrafondaio e pericoloso intellettuale Gabriele D’Annunzio, propugnatore di una mistica di guerra che tanto influsso ebbe in quegli anni. Traspare negli autori del testo una certa ideologia antimilitarista e antimperialista, tipica di una certa sinistra, che si evidenzia in particolare, nell’ultima parte del libro, quando si fa riferimento alle canzoni di lotta contro la guerra.

Sono trascorsi ormai più di cento anni dall’inizio della I guerra mondiale, “tutti i protagonisti di quegli anni – vittime e carnefici – sono morti, ma non è morta né la retorica, né la mistificazione, né la menzogna che pretende di ricordare e celebrare, oggi come allora, la catastrofe di quegli anni”.

Dopo un secolo, in Italia non conosciamo se non approssimativamente il numero dei soldati morti, di quelli feriti, dei civili deceduti direttamente e indirettamente e di coloro che in seguito agli stenti della guerra furono più esposti all’epidemia della “spagnola”. Pertanto, si continua a tacere della morte di oltre 650.000 soldati italiani, di 500.000 feriti gravi, di 600.000 prigionieri abbandonati dall’Italia – senza aiuti e assistenza – perché considerati disertori e codardi, di errori strategici pacchiani, di 40.000 soldati impazziti. In pratica si continua a far finta di niente del pesante indebitamento a causa della guerra e soprattutto sulla colossale truffa sulle spese di guerra con imputati generali, politici, industriali – tra cui i grandi gruppi Ansaldo e Ilva– tutti rimasti impuniti. “Quella guerra fu soltanto una catastrofe nazionale totale che ancora viene presentata ed edulcorata con le patriottarde parole di “eroico sacrificio”, riproponendo così dopo un secolo la mistica di guerra della propaganda”.

La I guerra mondiale è stata una delle più cruente della Storia. Un avvenimento che ha interessato circa 74 milioni di persone (60 nella sola Europa), il cui numero preciso di morti ancora oggi sfugge alla notazione statistica: oltre 9 milioni restarono uccise combattendo, mentre circa 7 milioni furono le vittime tra i civili, a causa di scontri e delle conseguenti carestie ed epidemie.
Una guerra definita o considerata dalla storia ufficiale in diversi modi, Grande Guerra, vittoria mutilata, quarta guerra d’indipendenza, guerra di conquista, guerra giusta, guerra buona, sono tante e diverse le angolazioni con cui gli italiani hanno guardato al primo conflitto mondiale.

 Il nostro governo di allora, dopo una iniziale indecisione, rompendo la propria neutralità, si schierò al fianco delle potenze dell’Intesa – Regno Unito, Francia e Impero russo – contro la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, quello Ottomano e la Bulgaria, a circa 10 mesi dallo scoppio della guerra.
Fu davvero necessario la rottura della neutralità da parte dell’Italia? O non si volle, piuttosto, far passare il messaggio che la nostra partecipazione al conflitto fosse indispensabile per il completamento dell’unità nazionale e la coesione di popolo, con l’acquisizione del Trentino Alto Adige e della Venezia Giulia?
Già nei primi mesi del 1915, in realtà, l’Austria era pronta a cedere Trento e Trieste ma, nonostante ciò, il 26 aprile 1915, il generale Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sydney Sonnino firmarono con i rappresentanti della Triplice Intesa un accordo segreto che, in cambio dell’entrata in guerra dell’Italia di lì a un mese, stabiliva – in caso di vittoria – rilevanti ricompense territoriali per il nostro Paese. Il cosiddetto Patto di Londra fu una sorta di “colpo di Stato”, sottoscritto in spregio del convinto neutralismo espresso dalla prevalenza del Parlamento (giolittiani, maggior parte dei socialisti, cattolici che – insieme al Vaticano – non volevano una sconfitta dell’Austria-Ungheria, ultima grande potenza dichiaratamente cattolica), all’insaputa del resto della compagine governativa e senza il consenso popolare.
L’effettiva necessità di un’adesione dell’Italia al conflitto è solo la prima di una serie di questioni affrontate ne La Grande Menzogna. Attraverso microsaggi (19 capitoli), densi e al contempo scorrevoli, il pamphlet prende in esame diversi controversi argomenti attorno alla Prima guerra mondiale degli italiani a cominciare dagli interessi della grande industria, lo scandalo delle forniture militari, il macrosistema di corruzione e corruttele che ne derivò ma che fu impossibile scoperchiare fino in fondo perché la commissione d’inchiesta voluta da Giolitti nel 1920 venne, poi, chiusa da Mussolini nel 1923. Ci sono due capitoli per verificare come l’intervento in guerra dell’Italia era “interessato”, era un affare alla grande industria. Intanto il Paese si indebitava. Prima della guerra il nostro debito era di 13 miliardi. Dopo è arrivato a 94 miliardi.

Per l’entrata in guerra un ruolo particolare l’hanno avuto gli intellettuali, è l’argomento del 1 capitolo (Dalla penna al fucile: gli intellettuali con l’elemetto). Nel 1915, un vasto ed eterogeneo schieramento concorde per l’intervento. In prima fila il Partito nazionalista, contraddistinto da una politica aggressiva ed espansionistica, i liberali di destra, i sindacalisti rivoluzionari, tra questi si distinguevano gli intellettuali. Da Marinetti a D’Annunzio e poi Papini, Ungaretti, Prezzolini e tanti altri. “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo”. Tuttavia, ad incarnare più di tutti l’interventismo è Gabriele D’Annunzio, ritorna in Italia e parla quasi ogni giorno in una piazza d’Italia, per incitare la folla a manifestare e mobilitarsi a favore della guerra. Peraltro, con toni minacciosi, incitava alla violenza contro Giolitti. Per questi intellettuali la guerra era addirittura un’operazione malthusiana. Secondo loro eravamo troppi, pertanto era meglio che un po' di bocche sparissero.

Il 4 capitolo, il testo dei tre storici si occupa della “guerra sui corpi umani”, le nuove armi, frutto dei risultati dell’alta tecnologia sempre più sofisticata procurano oltre a una spaventosa carneficina, una devastazione fisica di milioni di invalidi e mutilati, che per vari decenni, dopo la guerra avrebbero offerto uno spettacolo mostruoso. Il testo pubblica alcune foto raccapriccianti di soldati dal volto sfigurato. Ahi, voglia a pubblicare le rassicuranti illustrazioni di Achille Beltrami della Domenica del Corriere cercavano di far vedere un’altra guerra. Negli anni ’60 queste illustrazioni particolari, sono state riproposte, io le ricordo perché mio padre era abbonato alla rivista. E qui si dovrebbe aprire la parentesi, che riguarda la stampa, ormai succube del sistema. “Molti giornalisti, una volta arrivati al fronte, iniziarono a descrivere la guerra sotto vesti del tutto false e idealizzate, allo scopo di nascondere la terribile, e sanguinosa, realtà della guerra”. La propaganda era al lavoro, ora bisognava costruire il mito eroico dei nostri soldati.

Il 5 capitolo dà conto dei tribunali speciali e delle decimazioni, una vera e propria strategia del terrore. Non c’era nessuna tolleranza per chi non ubbidisce. Il testo riporta le parole del generale Cadorna, il capo di Stato maggiore, dove traspare un codice di estrema durezza e di terrore. Gli autori del libro usano epiteti abbastanza pesanti sul generale. Su questo tema anche gli autori della “Grande menzogna” citano il libro di Monticone e Forcella, “Plotone di esecuzione”. Il testo riporta alcuni episodi di fucilazione e decimazione dei nostri soldati, anche se innocenti. In pratica veniva messa in atto un’azione arbitraria dei tribunali militari, i quali, attraverso circolari e regolamenti, emisero provvedimenti che, con il pretesto dell’emergenza, di fatto ammettevano il restringimento di qualunque diritto degli imputati fino alla giustificazione della famigerata pratica della decimazione. Un altro capitolo da analizzare era quello della gestione del tempo libero al fronte, con prostitute segregate a forza in case d’appuntamento previste esclusivamente per i soldati al fine di tutelarli da possibili malattie infettive che ne avrebbero minato l’integrità fisica.

Poi c’è il ruolo della Chiesa con – da un lato – l’inflessibile e costante condanna della guerra di papa Benedetto XV, e – dall’altro – l’apporto decisivo dei cappellani militari nel consolidamento di un’ideologia filobellica (l’interdizione della parola “pace”, quand’anche si trattasse di quella eterna) e la mobilitazione patriottico-religiosa abbastanza discutibile dell’allora capitano medico Agostino Gemelli e del cappellano Giovanni Semeria. I tre storici sono abbastanza critici sul comportamento subordinato dei cappellani ai vertici militari, forse si aspettavano uno spirito più autonomo dei religiosi. Tuttavia, nell’8 capitolo dedicato al Papa sconosciuto Benedetto XV, sottolineano il suo impegno per la pace, che per certi versi capovolge la retorica militaresca, definendo la guerra una orrenda carneficina. Il testo riporta le parole del papa, nell’esortazione apostolica ai popoli belligeranti e la Nota ai capi degli Stati in guerra. Purtroppo, gli autori del testo non fanno riferimento alla posizione del giovane imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, che in sintonia col papa si era prodigato per arrivare a una pace giusta. Ma anche Carlo d’Austria non venne ascoltato dai belligeranti, il progetto ideologico di polverizzare gli imperi centrali, doveva andare avanti. Progetto che non viene preso in considerazione dal libro.

Un altro argomento particolare è l’impazzimento di circa 40.000 soldati superstiti, i cosiddetti “scemi di guerra”. L’argomento viene trattato nel 9 capitolo (pazzi di guerra), anche questi cancellati dalla storiografia ufficiale. “Uomini dei quali era meglio non parlare e la cui presenza destava non poco imbarazzo ai retori e ai celebranti la guerra”. Due donne, ricercatrici, Maria Vittoria Adami, e Maria Grazia Salonna, hanno lavorato sul recupero di cartelle cliniche, gli epistolari e le memorie scritte dai medici, dei militari ricoverati in numerosi ospedali psichiatrici delle retrovie e poi in tutto il paese. Ma non solo loro, ci sono altre citazioni di opere importanti sul tema. Questi soldati infermi, hanno fatto “riemergere progressivamente vite e volti che raccontano un’altra guerra, di una guerra che non si limitava a dilaniare corpi ma che frantumava la mente, che svuotava totalmente la vita”. Inoltre, spesso capitava che gli alti comandi e i medici militari, non credessero ai disturbi, erano convinti che volessero disertare il combattimento e quindi stavano solo simulando. E quindi infierivano sui loro corpi con vere e proprie torture, scariche elettriche, violenze e percosse, per saggiarne la sincerità.

Al 10 capitolo si parla della prigionia di massa, uno degli elementi caratteristici della Prima guerra mondiale: circa 8 milioni e 500.000 detenuti, di cui 600.000 italiani, una percentuale altissima, se paragonata agli altri Stati vincitori, che combatterono un anno in più e con eserciti di gran lunga più numerosi. Il “caso italiano” si caratterizza ulteriormente in negativo, l’Italia ha il primato della percentuale di prigionieri morti: oltre 100.000. Il governo italiano è stato l’unico tra tutti i paesi belligeranti a non inviare derrate alimentari, abiti e scarpe. Per giunta rifiutava di scambiare i prigionieri. Tutto questo perché “i prigionieri italiani sono etichettati come disertori, vigliacchi che si sono consegnati spontaneamente al nemico per fuggire dalla guerra, preferendo la prigionia alla trincea”. Infatti, secondo Cadorna la disfatta di Caporetto è colpa di questi soldati, pertanto secondo questa logica, vanno puniti, non fornendo quell’assistenza indispensabile alla sopravvivenza. Ecco perché la prigionia per i soldati italiani diventa un inferno.

Il 12 capitolo dà conto dell’opposizione popolare alla guerra, anche questa cancellata dalla storiografia ufficiale. Ci sono state tante proteste in Italia, protagoniste le donne, madri, mogli, che chiedevano il ritorno a casa dei loro uomini. Anche qui il governo italiano agisce con l’abituale durissima repressione. Il libro cita la manifestazione di Torino, dove fra i dimostranti si contano 50 morti.

Infine, il libro “La grande menzogna” fa delle significative riflessioni in merito alla costruzione del mito della guerra – da tragedia a epopea – attraverso l’uso politico della memoria – dall’edificazione di almeno 12.000 monumenti ai caduti e sacrari militari sino alla simbologia potentissima del milite ignoto. Si tratta di una vera e propria “frenesia commemorativa”, a cominciare dai caduti illustri come Francesco Baracca, Enrico Toti, i “martiri dell’irredentismo”, Battisti, Filzi e Chiesa. Di questo uso politico della memoria se ne avvalse il fascismo, soprattutto nella scuola, il fante-contadino viene trasformato in fante-guerriero. Nasce così una nuova religione della Patria. “Il culto dei caduti è la ‘prima universale manifestazione liturgica’ di questa nuova ‘religione della patria’, i monumenti ai caduti – insieme ai sacrari e al Milite ignoto – sono templi attorno ai quali questi riti vengono celebrati”. Sostanzialmente, insistono i tre storici, “la memoria della ‘grande guerra’ – e in particolare della morte nella ‘grande guerra’- è diventata proprietà esclusiva del regime che la deforma e la piega ai propri fini”.
In conclusione, gli autori sono convinti che gli aspetti spinosi proposti nel testo rimangono non adeguatamente conosciuti dal grosso dell’opinione pubblica nostrana, o perché contenuti in testi difficilmente reperibili – all’interno di archivi locali o dispersi in pubblicazioni per addetti ai lavori – o perché reputati non in sintonia con la retorica dell’unità patria e della costruzione dell’identità europea, che – secondo le interpretazioni ufficiali – trarrebbero linfa proprio dalle ceneri della Grande Guerra. Una prospettiva storica, questa, che, dal fascismo in poi, non ha fatto altro che rinsaldarsi.
Soltanto alla fine degli anni Sessanta del Novecento, in specie con i contributi di Mario Isnenghi e Antonio Gibelli, si è fatta finalmente strada una storiografia volta a far emergere e ristabilire verità documentate altrimenti sottaciute, seppure la manualistica scolastica non ne risulti ancora scalfita a sufficienza.
Il 2015, anno in cui ricorre il centenario dell’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, poteva essere l’occasione giusta per oltrepassare qualsiasi retorica della vittoria e rappresentazione trionfalistica, avendo ben chiaro, invece, che la guerra è stata ed è soltanto “il territorio dove politica e morte si intrecciano”.
Rigettando senza se e senza ma la tesi dell’inevitabilità della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale e denunciandone le brutture, il libro degli storici Gigante, Kocci e Tanzarella rigetta l’idea che la guerra in generale resti un’alternativa possibile pur nella sua drammaticità, e ammonisce a difendersi più che mai da tale “narrazione”.

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