La crisi del mondo occidentale – di Domenico Bonvegna

Diversi sono i segnali che manifestano la frantumazione del sogno egemonico dell’Occidente. Dopo la fine della cosiddetta “Guerra fredda”, con la nuova fase della globalizzazione, sembra che si affacciava un’età dell’oro per il mondo occidentale, per la verità in alcune parti del mondo l’influenza occidentale si è accresciuta, “ma nel complesso il peso dell'Occidente a livello planetario si è sicuramente ridimensionato dal punto di vista economico, politico, demografico e culturale, mentre è aumentato quello di altre aree e altre nazioni”. Di questa opinione è il professore Eugenio Capozzi, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, autore di un libretto di 180 pagine dove racconta la crisi dell’Occidente, “Storia del mondo post-occidentale”, sottotitolo: “Cosa resta dell’età Globale?”, edito da Rubbettino, all’inizio dell’anno. Il testo del professore sta avendo successo tra i vari siti online e numerose sono le sedi dove è stato presentato e discusso. Peraltro il libro di Capozzi potrebbe essere un ottimo strumento di studio per gli operatori che stanno lavorando per far nascere in Italia una forza politica conservatrice. Oggi serve una forte dose di realismo per capire gli eventi che stiamo vivendo. E il testo di Capozzi con un approccio realistico giudica gli ultimi trent’anni della storia mondiale. Partendo dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, un anno che fa da “spartiacque” della storia recente. A trent’anni di distanza è doveroso chiedersi che cosa è stato il mondo globalizzato, che cosa ne è oggi, come è cambiato il nostro modo di vedere i processi di globalizzazione, e soprattutto che fine hanno fatto questi processi: continuano, sono finiti, sono cambiati?

Capozzi ha cercato di rispondere a queste domande, analizzando i vari eventi che si sono susseguiti dalla caduta del Muro fino ai nostri giorni, cercando di tenere insieme tutte le dimensioni della storia: politica, culturale, economica, della comunicazione e delle tecnologie, delle relazioni internazionali. La sentenza definitiva del saggio del professore potrebbe essere «che nel periodo post Guerra fredda la civiltà occidentale aveva davanti una prospettiva di egemonia mondiale che non si è però realizzata nei termini in cui tutti si aspettavano si realizzasse».

Caduto il colosso sovietico e venuto meno il rigido "equilibrio" bipolare, che aveva dominato i decenni precedenti, la scena politica sembrava “semplificata” sul piano politico e il mondo pareva avviarsi verso un ordine fondato sul modello occidentale, con il graduale superamento dei conflitti, all’insegna dell’integrazione e della globalizzazione. Tuttavia non è andata così, spiega Eugenio Capozzi, La globalizzazione, «è finita. O, molto probabilmente, non è mai davvero cominciata». Anzi, forse, “sarebbe sbagliato, dal punto di vista storiografico, affermare che l’Occidente sia diventato tout court irrilevante o marginale”. Tuttavia possiamo certamente dire che siamo entrati nel “post-Occidente”, soprattutto “perché l’aspirazione universalistica portata avanti nei secoli scorsi dall’Europa e poi dall’asse atlantico appare oggi sempre meno realistica [...]”.

Nel 1° capitolo Capozzi descrive “l’illusione unipolare”, la caduta dei “muri” tra Est e Ovest, ha rimosso indubbiamente molti ostacoli, a molti appariva come l’inizio di un’epoca nuova, “segnata dall’unificazione e dalla nuova sintesi”. Sembrava la realizzazione di un processo di “occidentalizzazione” del mondo.

Qui Capozzi ricorda il tentativo di salvare il comunismo da parte di Gorbacev, poi la nascita dei vari nazionalismi del dopo Urss. La Guerra del Golfo, dove gli Usa hanno sperimentato una specie di laboratorio della superpotenza unica. Ne  1990 George H. W. Bush parla della necessità di un “Nuovo Ordine Mondiale”, prendendo atto dei mutati equilibri rispetto alla Guerra fredda, la superpotenza americana avrebbe assunto la funzione di «poliziotto del mondo», in coordinamento con l’Onu, idea portata avanti da Bill Clinton. Ma già gli insuccessi nel focolaio della Somalia mostrarono «il primo fallimento delle ambizioni di “polizia internazionale” del new world order», così come la guerra in Rwanda rappresentò «un eloquente monito. Negli stessi anni esplodono le guerre jugoslave nel cuore dell’Europa.

“Con il venir meno delle “guerre di religione” ideologiche, tra totalitarismi, e poi tra Occidente liberaldemocratico e comunismo”, emerge la strutturale insufficienza del sistema di istituzioni internazionali come l’Onu.

Intanto emerge un nuovo attore: la Cina che con Xi Jinping sta giocando il ruolo di superpotenza sulla scena mondiale. Quello che attualmente viviamo è piuttosto un mondo multipolare – lo era anche prima sotto la “coltre” della guerra fredda che mimetizzava i numerosi «conflitti di faglia» destinati a riesplodere.

Il 2° capitolo affronta l’”età dell’oro”, sono gli anni di Clinton. In questo periodo a complicare lo scenario internazionale contribuì «un cambiamento politico culturale sostanziale» in atto nel mondo islamico, dove maturava il rifiuto tout court di qualsiasi modello occidentale per tornare alla umma, che fondeva l’identità politica con quella religiosa. «In questa ossessione restauratrice si inscriveva una reviviscenza della retorica della jihad» e «un progressivo intensificarsi di azioni violente contro la presenza statunitense e occidentale in tutta l’area islamica», sin dagli anni Novanta, «riconducibili a una sempre più fitta e fluida rete terroristica islamista: quella che venne definita Al Qaida (“la base”)». E siamo agli anni del sogno globalista, affrontato nel 3° capitolo (La globalizzazione, i suoi problemi e i suoi critici) favorito da «una crescita economica sempre più decisa» e da «un imponente aumento degli scambi internazionali». Nello stesso tempo nascono i movimenti No Global che toccarono il loro apice di scontro tra il 1999 e il 2001, con le contestazioni di Seattle e di Genova, in occasione del G8. Intanto si “scopre” lo “scontro di civiltà”, spesso attribuito al politologo Samuel Huntington con il suo omonimo libro, tante volte citato ma forse poco letto. In questo saggio Huntington contestava alla radice l’idea, allora condivisa da molti, che “i conflitti determinanti nella storia sono quelli economici, sociali, politici, ideologici”. Questa idea per lo studioso statunitense discende da un pregiudizio eurocentrico di origine illuminista, e poi idealista. In realtà esistono differenze strutturali tra le singole civiltà, che magari convivono per periodi lunghissimi, ma che difficilmente possono confluire tutte in un’unica, astratta civiltà umana e magari fondersi o confondersi naturalmente pacificamente. Anzi quando vengono a contatto tra loro, generano “attrito” e reazione. Pertanto dopo la fine dei conflitti ideologici tra il modello liberaldemocratico e comunismo, gli Stati Uniti con i loro alleati, pensavano di poter egemonizzare definitivamente le altre civiltà, invece appaiono i “vecchi” conflitti strutturali più profondi, le cosiddette “guerre di faglia” tra le diverse civiltà.

Pertanto secondo Huntington l’unica alternativa per il mondo occidentale è quella di acquisire la consapevolezza, “dell’impossibilità di occidentalizzare il mondo, e la conseguente concentrazione delle proprie energie nello sforzo di rendere più compatta e forte la propria identità, contrastando le spinte centrifughe e nichiliste [...]”. Le tesi del politologo fecero enorme scalpore e sollevarono un vespaio di polemiche nel mondo culturale, politico, mediatico. Huntington dai liberal progressisti venne accusato di sostenere idee reazionarie e di combattere l’integrazione tra le culture e tra i popoli, di essere razzista e di fomentare progetti bellicisti. Poi è arrivato il trauma provocato dall’11 settembre, il “colpo di gong” inferto dagli assalti integralisti islamici al mondo occidentale, come l’ha definito Giovanni Cantoni. “Con la sua riflessione Huntington - scrive Capozzi - affermava una visione realista ai limiti del pessimismo nella politica internazionale, e depotenziava ogni aspettativa non solo di occidentalizzazione del mondo, ma della sostenibilità di qualsiasi universalismo fondato sui ‘ diritti umani’, che era stato alla base del new world order’ unilaterale [...]”.

In questo contesto di scontro Capozzi evidenzia il grave fenomeno dell’Inverno demografico, che riguarda soprattutto l’Occidente, specialmente l’Europa, che piano piano si sta estinguendo, perché nascono sempre meno bambini. E qui non mi soffermo alle analisi socio culturali del professore napoletano sul calo delle nascite, sull’aumento degli anziani e sulla distruzione del pilastro fondamentale della famiglia fondata sul matrimonio. All'età dell’oro del boom economico occidentale, “le ‘società opulente’ sono diventate a tutti gli effetti ‘società anziane’. Calo demografico, invecchiamento e relativi effetti economici, sociali, psicologici, culturali hanno non soltanto cambiato il volto di quelle società, ma hanno contribuito significativamente a cambiare i rapporti di forza tra l’Occidente e il resto del mondo.

Altro fattore destabilizzante nell’Occidente è stato quello della secolarizzazione radicale, spesso viene sottovalutato il fattore religioso. “La comune appartenenza religiosa - per Capozzi - gioca un ruolo primario nella compattezza, nella continuità, nella proiezione esterna delle civiltà”.

A fronte di un Occidente senza figli e secolarizzato, si profila la sfida del radicalismo islamico (e siamo al 4° capitolo). Lo shock delle Torri Gemelle. La guerra in Afghanistan, in Iraq. Il sanguinoso dopoguerra iracheno.

Arriviamo alla svolta asiatica della globalizzazione con l’ingresso della Cina nel WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio. L’importanza dell’enorme mercato del paese più popoloso del mondo. Ma le previsioni ottimistiche sul mercato cinese si dimostrarono errate. A cominciare dalla visione ottimistica del processo di globalizzazione, in cui «le dinamiche del mercato e della finanza mondiale si sposavano spontaneamente con ordinamenti fondati sulla libertà, i diritti umani, l’uguaglianza politica, il pluralismo». E come veicolo di pacificazione mondiale.

A questo punto il professore passa in rassegna gli sviluppi tecnologici (la terza rivoluzione digitale: social network, App, Device) le innovazioni digitali, in particolare internet, che «realizzava il sogno di una comunicazione personalizzata a livello globale», inaugurando la cosiddetta new economy, comprendente tutte le imprese connesse alle nuove tecnologie e «che operavano nello spazio “immateriale” di internet». La bolla finanziaria che ne derivò si sgonfiò nel giro di pochi anni, ma la fiducia illimitata riposta nei nuovi attori tecnologici ed economici «era sintomatica di un clima generale in cui si riteneva che nei processi di globalizzazione in corso praticamente tutto diventasse possibile».

Il 7° e 8° capitolo il saggio di Capozzi descrive il mondo sempre più diviso, tra squilibri e conflitti, con la Cina di Xi Jimping che diventa sempre più protagonista con la sua politica aggressiva nei confronti Hong Kong, mentre gli Stati Uniti di Obama sono sempre più esitanti. Si registra il caos nel Medio Oriente con le cosiddette Primavere Arabe in Siria e Libia, per gli sviluppi tragici, qualcuno li ha definite “Inverno Arabo”. Intanto il libro dà conto del deterioramento dei rapporti tra l’Occidente e la Russia, e qui si inizia a parlare della lunga crisi Ucraina.

L’8° capitolo affronta L’era di Trump e il bipolarismo Usa/Cina”.

Qui si affronta la querelle tra la società elitaria e quella dei “dimenticati”, in particolare nell’ambiente americano, tra i partiti sovranisti e antiglobalisti e quelli progressisti favorevoli alla globalizzazione. Si pone l’attenzione sui riferimenti politici della sinistra, che da tempo hanno abbandonato le classi lavoratrici per favorire quelli borghesi, abitanti nei centri metropolitani, culturalmente cosmopolite. Capozzi fa i nomi dei politici che criticano l’UE e poi si sofferma sul ciclone populista, rappresentato da Donald Trump e dei suoi elettori, definiti dalla Clinton dei “deplorables”, cioè socialmente e culturalmente disprezzabili. Capozzi presenta tutti gli aspetti della politica trumpiana, compresa la svolta bioetica e Pro Life. Il 9° e ultimo capitolo (I “furiosi anni Venti”. Derive ideologiche e ritorno alla geopolitica) Si analizza il “Politicamente corretto”, fino alla cultura Woke che processa la cultura euro-occidentale in quanto tale, la razionalità occidentale, le istituzioni e i costumi occidentali, accusati in primo luogo di aver prodotto l’imperialismo, colonialismo, sfruttamento dei popoli e delle risorse naturali, discriminato le culture e le minoranze di ogni tipo. Questa nuova ideologia, viene chiamata il "diversitarismo" e i tratti filosofici e culturali sono il relativismo culturale, legittimazione dei desideri con stili di vita individuali, rottura con la tradizione e le autorità storicamente consolidate. Sono i movimenti di liberazione femminista e omosessuali e poi LGBT. La terza espressione è tutto quel mondo che fa riferimento all’ecologismo.

 

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