1624: l’anno della Santuzza. Un quasi giallo dei tempi andati – di Vittorio Riera

A leggere bene la vicenda che elevò Santa Rosalia a patrona della città di Palermo spodestando d’un sol tratto quelle cui era stato affidato il compito di proteggere la città – Sant’Oliva, Santa Ninfa, Santa Cristina cui è da aggiungere Sant’Agata – sa di qualcosa di straordinario, di ‘giallo’ appunto. A ciò concorsero peraltro alcune coincidenze cui è opportuno fare cenno.

Vedremo presto il ruolo che il Cardinale Giannettino Doria del Carretto ebbe in tutta la vicenda. È allora un caso che nel luglio del 1608 divenne arcivescovo di Palermo per la morte del suo predecessore? E perché proprio lui, un forestiero, un genovese e non altri? E, per quanto i grattacapi non gli mancassero, chissà quante volte abbia volto gli occhi a quel monte che di lì a poco sarebbe divenuto noto a tutto il mondo? E chissà, è il caso di chiedersi, quante volte abbia visitato il Santuario di Santa Rosalia per rendere omaggio, da buon cardinale quale lui era, alla Santuzza?

Altrettanto significativi i due errori commessi dal viceré Filiberto di Savoia. Filiberto di Savoia, se era certamente esperto d’armi e stratega nelle sue incursioni contro i corsari e i turchi, lo era molto meno nelle strategie per contrastare la peste, facendo di testa sua senza ascoltare chi di peste se ne intendeva. Due i suoi provvidenziali errori prima che la morte lo cogliesse a Palermo nell’agosto di quell’anno fatidico che è il 1624, l’anno appunto della Santuzza.

Primo errore. Così ricostruisce Messina (Messina, 1492-1799, p. 195). “Un veliero era approdato a Trapani e si era saputo che veniva da un posto sospetto e infatti non si era voluto concedere il permesso per lo sbarco (…). Ma per ordine del viceré al veliero era stato concesso di salpare per un paese diverso da quello di destinazione, .la così detta ‘libera pratica’.

Secondo errore. È sempre il Messina che ricostruisce: “Da Trapani (il veliero) era ripartito per Palermo, e anche qui il pretore Don Vincenzo del Bosco (…) non voleva accordare lo sbarco, ma gliel’aveva ordinato il viceré” (Ib., p. 196) e quindi non poteva sottrarsi.

La conseguenza fu il contagio diffusosi anche a Palermo, dapprima, alla Fieravecchia, oggi piazza Rivoluzione, e al vicolo Cefalà dove si contavano già cinque morti per avere toccato della roba infetta.

Scrive il Messina utilizzando il suo Santa Rosalia (2006) “Le tenebre ora calavano su Palermo (p. 25). “Le povere vittime presentavano bubboni alle ascelle o all’inguine, o croste o pustole o petecchie nere per tutto il corpo” (Ib., p. 26). Messina così continua in un crescendo nella descrizione di un morbo che non conosce genere, età o censo: “Bruciate dalla febbre, erano in grave delirio e vomitavano, sconvolto il volto, gli occhi caliginosi, arida la lingua; più somiglianti ai morti che ai vivi, in coma soporoso” (Ib.).

La situazione, come si vede, si faceva sempre più drammatica tanto da costringere il Cardinale Doria a precipitarsi a Palermo da Termini dove si trovava per motivi di salute. E qua si vede il sacerdote prima ancora che il Cardinale, un sacerdote che sta accanto agli ultimi, ai diseredati, che non teme il contagio di quanti erano arsi dalla peste. Li incoraggia, li consola, spende per loro i suoi averi. Nel contempo non dimentica l’altro aspetto della sua missione in terra, quello di servire Dio. “Così volle che tutti supplicassero il Santissimo Sacramento esposto nelle chiese e che gli ordini religiosi andassero a turno alla Cattedrale in processione”. (Messina, 1492-1799, p. 196). Ma non dimentica il Doria che un Cardinale deve agire in certe situazioni diplomaticamente e discrezionalmente per non allarmare più di quanto una qualsiasi calamità non sia già di per sé fonte di preoccupazione.

Si circonda così di esperti, di medici, di virologi, diremmo oggi, cui chiede che cosa possa avere contribuito a diffondere la peste e come combatterla. Ne ha le risposte più contrastanti: chi propendeva, molto opportunamente, che la peste l’avesse portata il veliero approdato a Trapani e chi addirittura l’addebitava all’influsso malefico di pianeti, stelle, galassie. Su un punto concordavano, su come curarla. Poiché, si sosteneva, la peste colpiva soprattutto i poveri, occorreva sopperire alla loro scarsa alimentazione. Si suggeriva inoltre di non darsi ai bagordi e di preferire ‘le carni bianche e il succo degli agrumi” (Messina, Ib., p. 197). Si accoglieva infine quanto curiosamente il medico Filippo Ingrassia aveva suggerito per la peste del 1475: lavarsi con “acqua, liscìa in cui siano cotte rose, viole, rosmarino, lauro, cipresso, pampine e scorze di cirri o di aranci, limoni, basilicò, vino con aceto” (Messina, Ib. p. 197).

Il 24 giugno, qualche giorno prima di morire, - le date hanno la loro importanza in tutta la vicenda- il Viceré dichiara ufficialmente Palermo città infetta. E qui si ha quello che è accaduto in Italia col Covid 19. C’era chi riteneva il Covid 19 frutto di una congiura per chissà quali scopi. Anche allora si qualificò la peste, come il protomedico Fontana, “male epidermico ordinario” (Messina. Ib.). A questa tesi si accodava un altro medico, Marco Antonio Alaimo, che, sulle orme di Filippo Ingrassia, suggeriva di lavarsi “con acqua di mare mescolata all’aceto in cui si erano fatti bollire rosmarino e alloro o salvia o foglie e scorze d’arancia” (Messina, Ib.).

A questi rimedi, che non è esagerato definire strampalati, furono contrapposte misure che ci ricordano quelle prese in Cina quando scoppiò il primo caso di Covid 19 a Wuhan allorché chi n’era stato colpito veniva sigillato in casa provvedendo a sorvegliare che nessuno uscisse da quella casa e provvedendo anche a rifornire di cibo gli esiliati: “Il contagio andava arrestato con l’isolare l’infermo e curandolo nella propria casa” (Messina, Ib., p. 198). Misure ancora più drastiche furono prese a Palermo elencate minuziosamente da Messina alle pagine 198-200 del suo Sicilia 1492-1799.

Ma la peste continuava a imperversare. Si ricorse allora, come si è visto, non solo a esporre il Santissimo Sacramento, ma a implorare la protezione delle tre patrone della città: Cristina, Oliva, Ninfa. S’invocò perfino il taumaturgo San Rocco e altri Santi. Ma le invocazioni si dimostravano inutili a fronte di una peste che continuava a mietere vittime (circa 10 mila, secondo Gelarda). Si ricorse allora a portare in processione le reliquie delle tre sante nella speranza che la peste cessasse. Ma inutilmente. “Sembrava il regno dei morti” (Messina, Ib., p. 201). A questo punto, la vicenda si tinge di giallo. Alla protezione delle tre sante se ne aggiunge una quarta a opera dei sacerdoti cantori ((Ib.): “Sancta Rosalia, ora pro nobis”.

Perché questa invocazione? Da dove nasce? A riguardo, non sono state fatte ipotesi plausibili. Appare evidente, tuttavia, che il ritrovamento delle ossa della Santa doveva essere trapelato tra, è il caso di dire, coloro che contavano, come, appunto, i sacerdoti cantori. “Quello stesso giorno – è il 15 luglio 1624 – fu comunicato al Cardinale Doria che erano state ritrovate le ossa di Santa Rosalia sul monte Pellegrino” (Ib.).

Scrive il Messina a riguardo nel suo Santa Rosalia (p. 36): ”In diverse parti della Sicilia si andò alla ricerca dei luoghi in cui poteva essere stata la Santa Romita (---). Mobilitati erano in particolare i bivonesi: con devozione attingevano loro l’acqua che scaturiva nella chiesa di Santa Rosalia e mentre gli altri anni si era seccata ad aprile, quell’anno ne trovavano ancora ad agosto”. Il Pitré, da parte sua, così descrive la processione delle reliquie della santa ritrovate il 15 luglio del 1624: "Al loro passaggio il male si alleggeriva, diventava meno intenso, perdeva la sua gravità. Palermo in breve fu libera, ed in attestato di riconoscenza a tanto beneficio si votò a Lei e prese a celebrare in suo onore feste annuali che ricordassero i giorni della liberazione e fossero come il trionfo della Santa protettrice. La grotta del Pellegrino divenne santuario, ove la pietà d'ogni buon devoto si ridusse a venerare la squisita immagine della Patrona” (Pitré, Feste patronali, pp. 6-7).

Ma il culto aveva valicato le frontiere non solo della Quisquina, ma anche della stessa Sicilia. “si era presto diffuso il suo culto, a Roma e in altre città d’Italia e in diverse parti del mondo” (Ib., p. 26).

A suffragio della sua tesi, Messina porta alcuni esempi storicamente accertati. Quando furono ritrovate le ossa, il primo a ricevere le reliquie fu Filippo IV il cui esercito “che assediava Barcelona, era tormentato dalla peste e il suo generale, Don Giovanni d’Austria, invocò la protezione della Santa Rosa d’Austria e ordinò che se ne facesse un’immagine e che fosse portata in processione” (Messina, Santa Rosalia, p. 126). La peste, come d’incanto, cessò e Barcelona venne conquistata.

Da quel momento, come un torrente che esondi, il culto per la Vergine non ebbe più confini. In diverse città della Spagna venne diffuso il culto per la Romita del Pellegrino. Addirittura Mons. Jaime de Palafox y Cardona, non a caso ex Arcivescovo di Palermo, incaricò un confrate di scrivere una vita della Santa. Dopo questa biografia, “non si contarono più le pubblicazioni su Santa Rosalia in lingua spagnola” (Ib., p. 128). Addirittura, il culto per la Santuzza si diffuse tra gli infedeli (Ib.) tanta era la sua capacità d’attrazione. Così come non si contano più le immagini della Santa.

Ma, per tornare dalle nostre parti, nella seduta pubblica di quello che oggi chiamiamo Consiglio comunale, il 27 luglio 1624, si proponeva che “Santa Rosalia fosse invocata come la principale Patrona della città” (Ib:). Non solo, ma, come ricostruisce il Messina, “che le fosse dedicata una ricca cappella nella Cattedrale con una sua immagine e una splendidissima arca d’argento, dopo l’approvazione delle reliquie” (Ib). Si deliberò, infine, che ogni anno fosse indetta una “solenne e pomposa processione” (Ib.).

Nonostante ciò si continuava a morire di peste mietendo anche vittime illustri. Venne diffusa anche la notizia che lo stesso viceré non era stato risparmiato da questo flagello. Era il Viceré e, come tale, fu organizzata una processione per invocarne la guarigione. E qui si ha un altro aspetto della vicenda che sa di straordinario: durante la processione – siamo nel primo agosto del 1624 -sfilò anche per la prima volta un’immagine di Santa Rosalia (Ib., p. 202). Ma tutto si rivelò inutile e due giorni dopo il Viceré spirava nelle mani del Cardinale Doria. Ancora Doria, come si vede, il predestinato Doria, che tanta parte ebbe nell’intera vicenda della Santuzza. A rendere ancora più diffuso il culto per la Santuzza – altra coincidenza significativa – il ritrovamento nella grotta della Quisquina l’epigrafe con le notizie biografiche della Santa e del suo primo eremitaggio. Nonostante tutto, la peste continuava a mietere vittime  anche se più insistentemente veniva diffusa la voce di guarigioni miracolose grazie all’intercessione di Santa Rosalia. E qui si hanno i primi atti di devozione che non è esagerato definire da esaltati e che fino a qualche anno fa si ripetevano a Palermo pur con qualche non dissimile variante durante quella che viene l’acchianata al Santuario il 3 di settembre: “Si vedevano gli  uomini scalzi che si battevano con le discipline, coperta la testa di cenere e coronata di spine, al collo le corde e i teschi nelle mani” (Messina, Sicilia 1492, p. 202). Messina così continua: “Molti andavano in abiti di penitenza e scalzi e con le spalle nude e c’era chi su di esse faceva colare la candela, chi si trascinava per le ginocchia nel fango e col fango si bruttava la faccia, chi a sangue si batteva con le discipline, chi portava le catene ai piedi” (Messina, Ibidem). E ancora, giunti al Santuario, molti si gettavano a terra “bocconi leccando il pavimento dalla porta fino all’altre maggiore” (Ibidem, p. 203).

Siffatti atti di fede, sia pure con le esagerazioni che sono state viste, sortirono l’effetto sperato. Verificati i fatti che portarono al ritrovamento, furono consegnate al Senato le reliquie che il 22 febbraio del 1625 furono portate in processione per un breve tragitto. Si dava inizio così alla lunga saga dei festini (quello del prossimo 15 luglio dovrebbe essere il 399°). Al posto delle reliquie però sfila lungo il Cassaro un carro la cui ideazione è affidata ai maggiori pittori del tempo. Per tornare alla nostra narrazione, il 3 settembre, il Cardinale Luogotenente Doria -ancora lui, Doria – sanciva la fine della peste. Palermo tornava così alla normalità grazie all’intercessione di Santa Rosalia che diveniva la Santa ufficiale, per dir così, di tutti i palermitani. Il giallo trovava la sua logica conclusione. L’instancabile Doria da parte sua, nella sua veste di Luogotenente penserà a rendere sicure le coste dell’Isola dall’attacco dei barbareschi.

 

BIBLIOGRAFIA

 

M. A. Di Leo, Feste patronali di Sicilia, Edizioni Newton, Roma, 1997.

I. Gelarda, Storia delle epidemie a Palermo: dai cartaginesi alla peste del 1624, in “Palermo Today” 1 aprile 2020.

C. Messina, Santa Rosalia, Casa Editrice ad Arte, Palermo, 2006.

C. Messina, Sicilia 1492-1799 – Un campionario delle crudeltà umane. Con un Discorso sulla Storia. Una nota di Cristina Barozzi, L’ORMA, Palermo, 2022.

G. Pitré, Feste patronali, Palermo, Il vespro 1978.

 

 

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